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“Teheran aspetta la tregua”, ancora razzi di Hamas su Tel Aviv

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I negoziati per un cessate il fuoco a Gaza sulla carta dovrebbero ripartire il 15 agosto a Doha, ma sul terreno entrambi gli schieramenti non mollano la presa. Israele ha continuato a bombardare la Striscia, mentre Hamas si è spinta insolitamente in profondità in territorio nemico, tentando un colpo plateale: la città di Tel Aviv, presa di mira per la prima volta da tre mesi con un razzo, che tuttavia è finito in mare. Sulla trattativa per l’enclave palestinese sembra volersi inserire anche l’Iran, che tra l’altro ha fatto filtrare la disponibilità a rinunciare all’attacco a Israele, nel caso di un accordo. Resta però l’incognita sulla partecipazione di Hamas. La più popolosa città di Israele, il cuore economico del Paese, nel pomeriggio è stata scossa da un boato, a cui è seguito l’annuncio delle brigate Ezzedine al-Qassam di aver “lanciato due razzi M90 su Tel Aviv e i suoi sobborghi”. Il colpo non è andato comunque a segno e l’Idf ha parlato di un solo “proiettile proveniente dalla Striscia caduto nella zona di mare del centro di Israele”, a circa 70 chilometri dal territorio palestinese.

Motivo per cui non sono state attivate le sirene. Nella stessa giornata, a Gaza, fonti mediche legate ad Hamas hanno denunciato l’uccisione di dieci membri di una stessa famiglia a est di Khan Younis in un raid israeliano. Per spingere sulla sospensione delle ostilità era atteso nella regione Antony Blinken, ma all’ultimo ha deciso di rinviare, vista la persistente situazione di incertezza. Per gli Usa c’è l’inviato di Biden Amos Hochstein, attualmente in Libano. Washington in questa fase preme sugli alleati come la Turchia, che hanno canali con Hamas, per convincere la fazione ad andare a Doha. Secondo alcune fonti, il capo politico Yahya Sinwar ha posto come condizione per inviare i suoi emissari che Israele interrompa gli attacchi, ed ha chiesto che le forze dell’Idf si ritirino dal corridoio Filadelfia, zona cuscinetto al confine con l’Egitto. La strada per un accordo resta in salita.

La fazione palestinese insiste sull’adozione del piano in tre fasi per una tregua duratura proposto a maggio da Joe Biden, piuttosto che ulteriori trattative. Israele, invece, secondo il New York Times ha presentato nuove richieste per integrare il piano Biden. L’ufficio del premier Netanyahu ha smentito questa ricostruzione, ma lo stesso team negoziale ha fatto trapelare il suo disappunto sulla strategia del premier che sarebbe orientata a non concludere nulla.

In questo ginepraio c’è poi la variabile dell’Iran. L’ultimo segnale che Teheran ha deciso di far trapelare è che un attacco contro lo Stato ebraico può essere scongiurato nel caso si arrivi ad una tregua a Gaza. A parlare, in rigoroso anonimato, sono tre alti funzionari del regime, che paiono ridimensionare l’ipotesi di un raid su Israele prima dei colloqui di giovedì. La Repubblica islamica, tra l’altro, per la prima volta avrebbe espresso la volontà di partecipare ai negoziati sulla tregua. Con il suo rappresentante – secondo ricostruzioni – non coinvolto direttamente, ma in contatto con gli Usa durante le trattative.

Ai messaggi distensivi fanno da contraltare le minacce lanciate ufficialmente dalle autorità di Teheran. Che attraverso il ministero degli Esteri hanno respinto l’appello dei leader occidentali a “fare un passo indietro”, rivendicando “il diritto a difendere la sua sovranità, senza chiedere a nessuno l’autorizzazione”. In tale scenario la diplomazia internazionale non rinuncia a dialogare con le parti, invocando moderazione. Ci ha provato il presidente del Consiglio Ue Charles Michel, in due telefonate con il presidente iraniano presidente iraniano Massud Pezeshkian e il primo ministro israeliano Benyamin Netanyahu. Anche la premier Giorgia Meloni ha sentito il leader israeliano. Spettatore interessato delle vicende regionali, ovviamente in chiave anti-occidentale, è anche Vladimir Putin. Che ha ricevuto al Cremlino il presidente dell’Anp Abu Mazen, esprimendo “dolore e ansia per quanto avviene in Palestina” e assicurando il “sostegno al suo popolo”.

Mosca dialoga direttamente anche con Hamas e fornisce armi all’Iran. In Israele, intanto, oltre ai preparativi per un possibile attacco di Teheran o di Hezbollah, nelle ultime ore ha tenuto banco l’ennesima provocazione di Itamar Ben Gvir. Il ministro falco dell’ultradestra ortodossa ha visitato la Spianata delle Moschee (il Monte del Tempio per gli ebrei), in occasione del digiuno di Tisha B’Av, violando le istruzioni della polizia e lo status quo del sito. E per questo è stato condannato dagli Stati Uniti, dall’Ue e dall’Onu.

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Trump avverte: forse la pace in Ucraina è impossibile, troppo odio tra Putin e Zelensky

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E’ l’odio ad alimentare la guerra che ormai devasta da oltre tre anni l’Ucraina. Un “odio tremendo” tra due uomini, Volodymyr Zelensky e Vladimir Putin. Tanto che “forse, la pace non è possibile”. E’ l’amara constatazione di Donald Trump che però non rinuncia alla speranza di arrivare alla fine della guerra, e nella stessa intervista evoca “ottime possibilità di farcela”. E di certo non vanno in questa direzione le parole e le azioni di Vladimir Putin, che continua a rifiutare il cessate il fuoco di 30 giorni promosso da Washington. In un documentario della tv russa, lo zar ha sottolineato come Mosca “abbia abbastanza forza e risorse” per una vittoria nell’invasione, anche senza ricorrere alle armi nucleari. Da tempo ormai il presidente Usa minaccia di sfilarsi dalla mediazione avviata sin dall’inizio del suo mandato, in mancanza di passi avanti concreti di Mosca e Kiev verso un cessate il fuoco.

La strada del negoziato ha raggiunto un punto morto da settimane, con la Russia che continua a insistere per una tregua di tre giorni, in occasione del Giorno della Vittoria del 9 maggio. Una proposta che fa gioco al Cremlino, che per gli 80 anni della vittoria sovietica nella Seconda Guerra Mondiale ha invitato a Mosca diversi leader mondiali, tra cui il cinese Xi Jinping, in visita ufficiale in Russia dal 7 al 10 maggio. Zelensky ha già messo in chiaro che per l’Ucraina non sarà possibile “garantire la sicurezza” dei partecipanti alla parata del 9 maggio. E ha sottolineato che Kiev non si fida delle proposte di Putin: “Queste non sono le prime promesse di cessate il fuoco fatte dalla Russia. Sappiamo con chi abbiamo a che fare, non ci crediamo”, ha detto nel corso di una visita a Praga, in un chiaro riferimento alla fallimentare tregua di Pasqua che ha registrato centinaia di violazioni in entrambi i lati del fronte.

La proposta di Ucraina e Usa resta quella di una tregua di almeno 30 giorni, ma finora nessun segnale in questo senso è giunto da Vladimir Putin, che nel frattempo pensa a un futuro remoto in cui, assicura, “la riconciliazione con il popolo ucraino sarà inevitabile, è solo questione di tempo”. Difficile immaginarlo ora, mentre Mosca insiste a diffondere morte e distruzione bombardando le città ucraine, compresa la capitale Kiev dove nella notte tra sabato e domenica, un raid ha provocato 11 feriti – tra cui due minori – insieme a danni e incendi in tre distretti. “I russi chiedono una tregua per il 9 maggio, mentre attaccano l’Ucraina ogni giorno: questo è cinismo di altissimo livello”, ha commentato Zelensky sostenendo che “solo questa settimana la Russia ha utilizzato contro l’Ucraina più di 1.180 droni da attacco, 1.360 bombe aeree guidate e 10 missili di vario tipo”.

Le forze russe martellano anche la regione di Sumy, dove da tempo Kiev denuncia l’obiettivo di Mosca di creare una zona cuscinetto: “I russi hanno colpito le strade residenziali del villaggio di Velyka Pysarivka con bombe aeree teleguidate. Un civile è stato ucciso”, ha denunciato il governatore Oleh Grigorov, dando l’ennesimo bilancio di morte nella sua regione. Con queste premesse, la priorità dell’Ucraina resta quella di ricevere sostegno militare, soprattutto dagli Stati Uniti che negli ultimi giorni si sono mostrati maggiormente disposti a rispondere alle esigenze della difesa ucraina: secondo il New York Times, che cita quattro funzionari statunitensi, un sistema di difesa aerea Patriot precedentemente basato in Israele verrà inviato in Ucraina dopo essere stato ricondizionato. E gli alleati occidentali stanno discutendo la logistica di un eventuale trasferimento anche di un’altra batteria da parte di Germania o Grecia.

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Trump shock, ‘non so se devo rispettare la Costituzione’

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“No so se devo rispettare la Costituzione”: nuovo commento shock di Donald Trump, che in un’intervista a Nbc News mette in dubbio il suo giuramento solenne verso la legge suprema del Paese, mentre continua a spingere verso nuovi limiti il potere esecutivo a scapito di quello giudiziario e legislativo. Nella stessa intervista il presidente nega – dopo averla ventilata più volte nelle scorse settimane – l’intenzione di un terzo mandato, peraltro escluso proprio dalla Costituzione. Ed evoca come suoi possibili successori, nell’ordine, il segretario di stato Marco Rubio e il suo vice JD Vance. Il tycoon ha anche escluso il licenziamento del presidente della Fed Jerome Powell, pur continuando ad attaccarlo e a chiedere una riduzione dei tassi di interesse. “No, no, no… perché dovrei farlo? Potrò sostituirlo tra poco tempo”, ha detto, riferendosi alla scadenza del mandato il prossimo maggio. Ma il passaggio che fa più scalpore è quello sulla Costituzione.

L’intervistatrice Kristen Welker gli chiede se concorda con Rubio, che il mese scorso aveva risposto “Sì, naturalmente” quando gli era stato chiesto se ogni persona in Usa abbia diritto al giusto processo. The Donald invece non è così sicuro. “Non lo so, non sono un avvocato, non lo so”, ha ripetuto. La conduttrice gli ha fatto presente il quinto emendamento, secondo cui “nessuna persona” sarà “privata della vita, della libertà o della proprietà senza un giusto processo di legge”, un diritto che a livello basico la Corte Suprema ha riconosciuto anche ai non americani. “Non lo so… Ma se si parla di questo, allora dovremmo avere un milione, due milioni o tre milioni di processi”, ha risposto il tycoon, suggerendo che il giusto processo rallenterebbe le sue deportazioni di massa.

“Abbiamo migliaia di persone che sono… alcuni assassini, altri spacciatori e alcune delle persone peggiori sulla Terra. Sono stato eletto per farli uscire da qui, e i tribunali mi impediscono di farlo”, si è lamentato. “Ma anche considerando i numeri di cui parla, non è forse necessario rispettare la Costituzione degli Stati Uniti come presidente?”, ha incalzato Welker.

“Non lo so”, ha ribadito Trump, aggiungendo di avere “avvocati brillanti che lavorano per me, e ovviamente seguiranno ciò che ha detto la Corte Suprema”. In realtà finora non pare proprio che l’amministrazione stia rispettando la Corte, che ha chiesto di facilitare il rimpatrio di Kilmar Armando Abrego Garcia – deportato per errore in Salvador – e di rispettare il giusto processo nell’uso della legge di guerra del 1798 per espellere velocemente i presunti membri delle gang venezuelane. Il tycoon ha rimandato ai suoi avvocati anche quando gli è stato chiesto se nella sua battaglia contro Harvard pensa di rispettare la legge federale, che proibisce al presidente di ordinare al Fisco di indagare e revocare lo status di una organizzazione. “Seguirò quello che dicono gli avvocati, loro dicono che possiamo farlo, e io sono assolutamente d’accordo. Ma tutto ciò che dico è soggetto al 100% del rispetto delle leggi”, ha assicurato, pur dicendosi pronto a una sfida nei tribunali.

The Donald ha quindi respinto i timori di una deriva autoritaria (“Perché non la mettete in un altro modo? Molte persone vogliono venire nel nostro Paese. Molte persone amano Trump. Ho vinto le elezioni”) e garantito che gli americani hanno “assolutamente” il diritto di criticarlo senza temere ritorsioni, salvo poi definire alcuni dei suoi detrattori come “persone malvagie”. Quanto ai costi della parata militare nel giorno del suo compleanno, sono “noccioline rispetto al suo valore”. Infine ha giurato di non inseguire un terzo mandato, nonostante le precedenti allusioni e i gadget 2028 che vende online. “Voglio fare quattro anni davvero buoni e poi lasciare il posto a qualcun altro, idealmente un grande repubblicano”, ha spiegato citando tra i suoi possibili eredi Rubio e Vance. “Ma è ancora troppo presto per dirlo”, ha poi frenato.

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Putin: “La riconciliazione con il popolo ucraino è inevitabile. È solo questione di tempo”

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“La riconciliazione con il popolo ucraino è inevitabile, ma è solo questione di tempo”. Così il presidente russo Vladimir Putin si è espresso in un’intervista concessa al giornalista Pavel Zarubin per il documentario “Russia. Cremlino. Putin. Venticinque anni”, prodotto dalla rete statale Rossiya 1 e in onda questa sera.

Nel colloquio, Putin torna a parlare del conflitto con l’Ucraina, dichiarando che, nonostante l’attuale tragedia in corso, il riavvicinamento tra i due popoli “sarà possibile”. Secondo il presidente, la Russia “non ha dato inizio prima all’operazione speciale” perché “credeva negli accordi di Minsk” e voleva risolvere pacificamente il conflitto nel Donbass.

“Abbiamo forza per concludere ciò che abbiamo iniziato”

Putin ha anche ribadito che Mosca “ha abbastanza forza e risorse per portare a una conclusione logica quanto iniziato nel 2022”, sottolineando che questo potrà avvenire “senza ricorrere all’uso di armi nucleari in Ucraina”. Un’affermazione che appare tanto rassicurante quanto carica di implicazioni strategiche: il Cremlino si dice fiducioso nel raggiungimento dei propri obiettivi militari, ma resta sul piano convenzionale.

“I rapporti con la Cina garantiscono stabilità globale”

Nel documentario, Putin ha anche toccato il tema delle relazioni internazionali, definendo l’alleanza con la Cina come un “fattore di stabilità globale”. “La turbolenza nel mondo sta solo aumentando – ha dichiarato – e le nostre relazioni così affidabili e stabili con la Cina rafforzano la stabilità mondiale semplicemente perché esistono”. Un chiaro segnale a Occidente, nel mezzo di un riassetto degli equilibri geopolitici.

Il documentario-intervista, che celebra i 25 anni al potere di Vladimir Putin, si presenta come un ritratto personale e politico del leader del Cremlino in un momento storico delicatissimo, tra guerra, sanzioni, isolamento e un crescente asse con Pechino.

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