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Salute

Covid, Rt sotto 1, ma ora preoccupa di più influenza

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Il Covid-19 non abbassa la testa ma pare rallentare la corsa ed ora a preoccupare è molto di più l’influenza stagionale. Questa settimana, infatti, cala l’incidenza dei casi Covid e l’indice di trasmissibilità ritorna sotto la soglia epidemica dell’unità, anche se resta alto il numero dei decessi. Allo stesso modo, i casi di influenza registrano una lieve diminuzione ma i numeri restano altissimi e questo accresce la pericolosità dell’epidemia stagionale, con l’invito a vaccinarsi al più presto rivolto ad anziani e fragili. E proprio la co-circolazione di virus influenzali e Covid rischia di rendere critica la situazione nelle strutture sanitarie, avverte l’Agenzia europea dei medicinali (Ema).

Questa settimana, spiega il direttore Prevenzione del ministero della Salute Gianni Rezza, “tende a diminuire il tasso di incidenza dei contagi Covid che si fissa a 296 per 100mila abitanti. Anche l’Rt mostra una tendenza al decremento: siamo a 0,98 e quindi al di sotto della soglia epidemica”. Il tasso di occupazione dei posti di area medica e terapia intensiva è invece al 14,8% e al 3,2% e pertanto, afferma, “c’è la tendenza ad un lieve aumento dell’occupazione dei reparti di area medica ma compensato da una diminuzione dell’occupazione delle terapie intensive”.

Anche il bollettino settimanale del ministero conferma il calo dei contagi ma riporta un dato ancora preoccupante per i decessi: i nuovi contagi sono 174.652, con una variazione di -21,0% rispetto alla settimana precedente, mentre i deceduti sono 719, ovvero +4,8% rispetto a 7 giorni fa. In questo quadro, una sola Regione, la Puglia, è classificata a rischio alto. Insomma, “pur con qualche piccola oscillazione – evidenzia Rezza – assistiamo ad una sostanziale stabilizzazione della situazione epidemiologica”. In questo momento, dunque, il Covid è in una fase “quasi di plateau” ed “a preoccupare è molto di più l’influenza, i cui numeri elevati ne accrescono la pericolosità”, spiega il virologo dell’Università di Milano Fabrizio Pregliasco.

“Attualmente, anche se i numeri assoluti sono ancora consistenti, il Covid-19 ha in realtà raggiunto un tasso di mortalità quasi simile a quello dell’influenza, ovvero pari allo 0,04%, mentre in precedenza – afferma – si attestava su un tasso di mortalità molto più alto che superava l’1%. I tassi di mortalità di Covid e influenza, dunque, sono ora simili, tuttavia l’influenza registra molti più casi e quindi ha una maggiore pericolosità”. In base agli ultimi dati, precisa, “sembra che anche l’influenza stia iniziando a registrare una tendenza di calo, tuttavia i casi restano ancora su valori altissimi”. Il rischio legato ai virus influenzali è maggiore per i bambini e per gli anziani e fragili. Da qui l’invito a vaccinarsi: “Si è ancora in tempo e ci si può vaccinare contro l’influenza – ricorda Pregliasco – almeno fino alle prime due settimane di gennaio”.

Proprio la co-circolazione di influenza e Covid rischia però di creare una situazione ‘esplosiva’ e l’Ema mette in guardia: c’è un “alto rischio” che la circolazione concomitante dei virus “metta sotto pressione il sistema sanitario europeo nelle prossime settimane. E’ già stato riferito in diversi Paesi europei e per questo è estremamente importante che la popolazione vulnerabile, i più anziani, le donne incinte e i pazienti immunocompromessi vengano vaccinati contro influenza e Covid”, ha ammonito Marco Cavaleri, responsabile Strategia vaccinale Ema, sottolineando che “è probabile che dovremo aggiornare regolarmente i vaccini contro il Covid per offrire la rivaccinazione ai gruppi vulnerabili, come facciamo con il vaccino dell’influenza”.

Insomma, il virus SarsCoV2 “è qui per restare” e “dovremo muoverci con prudenza verso una nuova normalità”, conclude l’esperto. E proprio oggi l’Ema ha dato il via libera all’uso del vaccino booster BA.1 bivalente di Moderna nei bambini della fascia d’età 6-11 anni. Intanto, dopo la manifestazione di ieri a Roma in difesa del Ssn, i sindacati medici hanno incontrato oggi il ministro della Salute Orazio Schillaci: è stato aperto un tavolo permanente di confronto sulle maggiori criticità della Sanità, a partire dagli organici.

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Scoperta una nuova forma ereditaria di tumore al seno

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Scoperta una nuova forma di tumore al seno ereditaria e il gene alla base, già noto per il suo ruolo nell’aumentare il rischio di tumore gastrico ereditario: la scoperta, dell’Istituto Europeo di Oncologia, apre a nuovi test genetici per la prevenzione e la diagnosi precoce e anche alla possibilità di cure mirate. Secondo uno studio pubblicato sulla rivista JAMA Network Open, la nuova forma di carcinoma mammario dipende dal gene CDH1 e si differenzia integralmente dal classico tumore mammario ereditario, causata dalle mutazioni dei geni BRCA1 e 2. Il risultato si deve a un’intuizione clinica di Giovanni Corso, chirurgo senologo dell’IEO e ricercatore dell’Università Statale di Milano. “È una nuova sindrome chiamata ‘carcinoma mammario lobulare ereditario’: abbiamo infatti identificato mutazioni del gene CDH1 in donne operate per un tumore lobulare del seno. Abbiamo scoperto che tale gene si lega alla nuova variante rara di tumore lobulare, che si presenta prevalentemente nelle donne giovani con età inferiore ai 45 anni alla diagnosi, o con storia familiare positiva per carcinoma mammario, o con un tumore mammario bilaterale”, spiega Corso, per questo diverrà cruciale il test genetico.

In più di un tumore è ormai assodata la complicità di alcuni geni che, mutati, aumentano il rischio di ammalarsi; la conoscenza di queste mutazioni offre un’arma in più sia nella prevenzione, sia nelle cure. Paradigmatico in questo senso è proprio il tumore del seno, con la “mutazione Jolie” sul gene BRCA1 che ha fatto breccia nel pubblico mondiale. Si parla di un aumento di circa il 70% del rischio di sviluppare un tumore del seno per mutazioni sia di BRCA1 sia di BRCA2. In generale, sono associati a mutazioni BRCA circa l’8% di tutti i tumori al seno e ben un quarto dei tumori ovarici, che risultano anche molto aggressivi. Lo studio italiano, finanziato dal Ministero della Salute, ha coinvolto 5429 donne operate al seno per tumore lobulare. Le donne che presentavano la forma particolare di tumore erano in totale 1867 e, tra queste, 394 sono state testate per i geni CDH1, BRCA1 e BRCA2.

Circa il 5% presentava una variante del gene CDH1, mentre non aveva mutazioni dei geni BRCA1 e 2. Nonostante sia una sindrome rara, la probabilità che questa variante porti alla malattia è molto alta, circa il 40%. “Le analisi statistiche hanno dimostrato che la presenza di CDH1 mutato nelle donne più giovani (40 anni) predispone allo sviluppo del tumore lobulare del seno, anche più dei geni BRCA 1 e 2. Il rischio di sviluppare anche un tumore gastrico rimane incerto, ma possibile. Il test CDH1, ad oggi non previsto dal SSN, diventa quindi importantissimo sia per la donna sia per i familiari. Abbiamo già definito nuovi criteri clinici per testare il gene CDH1, che verranno pubblicati a breve sulle nuove linee guida dell’Associazione Italiana di Oncologia Medica (AIOM)” conclude Corso. “La nostra scoperta ha importanti implicazioni cliniche perché abbiamo gli strumenti per proteggere le donne che presentano la nuova sindrome di carcinoma mammario lobulare ereditario. Inoltre viene fortemente consigliata la gastroscopia annuale per un possibile rischio di sviluppare un carcinoma gastrico” conclude Paolo Veronesi, coautore dello studio.

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Covid, l’identikit genetico influenza la risposta al vaccino

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La risposta alla vaccinazione contro Covid-19 è influenzata da caratteristiche genetiche individuali, in particolare da alcuni geni associati al complesso maggiore di istocompatibilità, il sistema attraverso cui l’organismo distingue le componenti proprie da quelle estranee. È quanto è emerso dallo studio coordinato dall’Istituto di tecnologie biomediche del Consiglio Nazionale delle Ricerche di Segrate (Cnr-Itb) pubblicato sulla rivista Communications Medicine.

“Come per la maggior parte dei farmaci, così anche per i vaccini ogni individuo può rispondere in maniera più o meno efficace e questo è dovuto, almeno in parte, alla costituzione genetica individuale”, osserva Francesca Colombo, ricercatrice del Cnr-Itb che ha guidato lo studio, condotto su 1.351 operatori sanitari vaccinati nei primi mesi del 2021 Dalla ricerca è emerso che le caratteristiche di una porzione del cromosoma 6 erano legati ai livelli di anticorpi anti-Covid. “In questa specifica regione genomica sono presenti dei geni che codificano per delle molecole presenti sulla superficie cellulare, coinvolte nei meccanismi di risposta immunitaria”, aggiunge la prima firmataria dello studio Martina Esposito.

“Questi geni – gli stessi che vengono valutati quando si cerca la compatibilità fra donatori di midollo osseo – sono molto variabili ed esistono differenti combinazioni. Il nostro studio ha evidenziato che alcune combinazioni erano associate a livelli di anticorpi più alti, mentre altre a livelli più bassi”. Per i ricercatori, la scoperta potrebbe consentire di “differenziare e personalizzare la campagna vaccinale, fornendo a ciascun individuo il vaccino più adatto, cioè quello che gli permetterà di produrre più anticorpi possibili”, conclude Massimo Carella, vice-direttore scientifico della Fondazione Irccs Casa Sollievo della Sofferenza, che ha collaborato allo studio.

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Record per raccolta del plasma, ma autosufficienza scende al 62%

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La raccolta di plasma ha raggiunto livelli record nel 2023 in Italia, ma paradossalmente l’autosufficienza di questa componente del sangue è più lontana, a causa dell’aumento della domanda di immunoglobuline. E’ quanto è emerso dalla seconda edizione di “The Supply of Plasma-derived Medicinal Products in the Future of Europe”, il convegno internazionale dedicato al plasma, patrocinato dal ministero della Salute e organizzato dal Centro Nazionale Sangue (Cns), che ha visto a confronto esperti e policy maker, associazioni di donatori e di pazienti ed istituzioni italiane, europee ed internazionali. Secondo i dati ancora preliminari diffusi nel corso del convegno, per quanto riguarda le immunoglobuline, prodotto driver del mercato dei medicinali plasmaderivati, l’Italia nel 2023 ha raggiunto un livello di autosufficienza pari al 62%, inferiore di due punti percentuali all’anno precedente.

L’aspetto paradossale è rappresentato dai dati della raccolta del 2023 che, con i suoi 880mila chili di plasma, frutto delle generose donazioni di circa 1,5 milioni di donatori, ha raggiunto i livelli più alti di sempre per l’Italia. Ad allontanare il nostro Parse dal traguardo strategico dell’autonomia in materia di plasmaderivati è stato un aumento deciso della domanda di immunoglobuline, dai circa 104 grammi ogni mille abitanti del 2022 ai 108 del 2023 (+3,8%). Il dato preliminare è in parte mitigato dall’aumento del livello di autosufficienza in materia di albumina, altro driver del mercato, che è passato dal 72% nel 2022 al 78% nel 2023, grazie anche a un calo della domanda.

L’Italia, che è autosufficiente per quel che riguarda la raccolta di globuli rossi, deve quindi ricorrere al mercato internazionale per sopperire alla domanda di plasmaderivati ed integrare i medicinali, usati anche in terapia salvavita, prodotti a partire dal plasma raccolto a partire da donazioni volontarie, anonime e non remunerate. “La mancata autosufficienza di medicinali plasmaderivati resta un problema strategico per il sistema sanitario nazionale – ha commentato il direttore del Cns, Vincenzo de Angelis -. I dati, per quanto ancora preliminari, confermano la necessità di aumentare la raccolta attraverso azioni di sensibilizzazione rivolte ai possibili nuovi donatori, ma questo non basta. Bisognerà anche razionalizzare la domanda, specie di un prodotto come le immunoglobuline che sta trovando sempre più applicazioni a livello terapeutico. È un obiettivo su cui stiamo già lavorando con tanti partner italiani ed europei, perché il Covid ha dimostrato che, in situazioni particolari e spesso imprevedibili, non sempre il mercato internazionale può rispondere alla domanda dei nostri pazienti”.

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