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Cronache

Procura Macerata, aperto un fascicolo d’inchiesta su Sgarbi per autoriciclaggio di beni culturali

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E’ stato trasmesso qualche giorno fa alla Procura di Macerata il fascicolo nel quale il sottosegretario ai Beni Culturali Vittorio Sgarbi è indagato per il reato di autoriciclaggio di beni culturali di cui all’articolo 518-septies del codice penale. Lo conferma il Procuratore di Macerata Giovanni Fabrizio Narbone dopo le indiscrezioni pubblicate sull’indagine relativa al caso del dipinto attribuito a Rutilio Manetti, trafugato dal Castello di Buriasco nel 2013 e riapparso a Lucca nel 2021 come inedito di proprietà di Vittorio Sgarbi.

Alla ‘candela-fantasma’ nel quadro di Rutilio Manetti, dipinto caravaggesco del ‘600 di grande valore, è legato l’ultimo enigma di una vicenda clamorosa che il Fatto e Report sono riusciti a ricostruire grazie a un’inchiesta congiunta che ha attirato l’interesse degli inquirenti: “Seguendo un filo che parte da Lucca, passa per Brescia, Saronno, Roma, Viterbo, Firenze e poi Torino, si arriva alla domanda finale: possibile che il sottosegretario di Stato ai Beni culturali italiano esponga senza tema un’opera d’arte che è ricercata in tutta Europa, ma sta in casa sua?”. Se n’è occupato in prima battuta un articolo di Thomas Mackinson apparso il 15 dicembre sul Fatto Quotidiano dal titolo ‘Miracolo di Sgarbi: in mostra la tela rubata e ritoccata’. Se n’è occupato Report nella puntata del 16 dicembre e poi domenica scorsa 7 gennaio.

La mostra di cui si parla è di due anni fa a Lucca, dal titolo “I pittori della luce”: “Il pezzo forte era un ‘inedito’ di Rutilio Manetti”, sostiene il quotidiano, secondo il quale “quella Cattura di San Pietro si ritrova infatti tra le foto della banca dati dell’Interpol e risulta rubata”. Nella loro ricostruzione quel quadro ”fino al 2013 si trovava in un castello di Buriasco, non lontano da Pinerolo, di proprietà di un’anziana signora, Margherita Buzio. Sgarbi è stato lì più volte. È un suo fedelissimo, Paolo Bocedi, che si propone per comprarlo: la signora rifiuta. Poche settimane dopo, scopre che dei ladri si sono introdotti nel castello e hanno ritagliato e asportato la tela del Manetti”. E aggiunge: “La vittima denuncia il furto, avanza anche dei sospetti, ma il fascicolo viene subito archiviato dall’allora procura di Pinerolo. Passano dieci anni, e la tela rispunta restaurata a Lucca, ma con un dettaglio diverso: una torcia sul fondale che nella foto dell’Anticrimine non c’è’ . Il restauratore di Sgarbi, però , è sicuro: “Il quadro è quello, me lo portò un amico di Vittorio insieme a un trasportatore, arrotolato come un tappeto””. Interpellato sul punto sempre dal Fatto, il sottosegretario “sosterrà che è suo: comprò una villa di campagna a Viterbo e ci trovò dentro un Manetti.

“Uno ha la candela e l’altro no, sono diversi”, dice al Fatto”. Nell’inchiesta ‘La tela che scotta’ parla Gianfranco Mingardi, restauratore di 68 anni che fin dagli anni Ottanta collabora con il critico-collezionista. “Nella primavera del 2013 mi chiama Vittorio – racconta -. Ti mando un dipinto da mettere a posto, dice”. Gli verrà consegnato a metà luglio 2013 all’uscita dell’autostrada A4, appena fuori dal casello di Rovato, “senza telaio, arrotolato come un tappeto” aggiunge, mostrando le foto che fece prima di metterci mano e dopo aver terminato il lavoro. Precisa che Sgarbi venne anche di persona nel suo studio per sollecitarlo”. Finito il restauro, secondo Il Fatto a “consegnargli il dipinto furono un trasportatore con furgone accompagnato in moto da Paolo Bocedi, un grande amico di Sgarbi”.

Raggiunto a Saronno dal quotidiano “Bocedi inizialmente non ricorda nulla del quadro e del castello, poi ha un lampo di memoria: “Ricordo di esserci andato accompagnato dall’autista di Sgarbi per vedere un quadro e chiedere a quando lo vendeva, per poi riferirlo a Sgarbi. Io non conoscevo la proprietaria”, dice. Sul quadro compare una candela “Sono certo che non c’era”, dice il restauratore al Fatto scuotendo la testa, convinto che sia stata dipinta (o fatta riemergere) con l’intento di differenziarlo”. Ci sarebbero nella scheda della mostra anche altre differenze, tra cui le dimensioni e la provenienza: “Viene da Villa Maildalchina”, ripete Sgarbi anche alle telecamere di Report, sostenendo ancora di “aver comprato la villa e averci trovato dentro un Manetti”.

Per quanto riguarda la villa, “all’archivio di Viterbo il Fatto e Report hanno visionato l’atto citato del 1649, il direttore Angelo Allegrini lo sfoglia: non risulta affatto “generico”, cita vari dipinti ma non quello”. Sostiene l’inchiesta che “i carabinieri del Nucleo tutela Patrimonio culturale di Roma individuano nella loro banca dati il corrispettivo della scheda dell’Anticrimine europea. È una denuncia per furto sporta al comando dei carabinieri di Vigone, non lontano da Pinerolo, ed è datata 14 febbraio 2013. Alla denuncia corrisponde un fascicolo contro ignoti aperto dalla Procura di Pinerolo ma archiviato dopo una settimana”.

“Io non ho ricevuto nessun avviso d’indagine. Né saprei come essere indagato di un furto che non ho commesso. E per un reato compiuto 11 anni fa, in circostanze non chiarite dagli inquirenti di allora. Da questa notizia risulta una palese violazione del segreto istruttorio, l’unico reato di cui ci sia evidenza”. Il sottosegretario alla Cultura, Vittorio Sgarbi, commenta così l’indiscrezione de Il Fatto quotidiano che oggi annuncia di un’indagine a suo carico. “L’ennesima diffamazione” afferma Sgarbi che aggiunge: “Ancora una volta Il Fatto mente”.

“Da quello che si legge, l’opera è stata malamente tagliata. E quella in mio possesso è in buone condizioni e con una stesura pittorica ben conservata e uniforme. Qualunque valutazione va fatta sull’opera di cui quella rubata è manifestamente una copia, come tutte quelle conservate in quel castello di cui nessuno si è preoccupato. Né credo sia un reato fare eseguire la fotografia di un’opera di cui tutti gli esperti hanno visto l’originale esposto a Lucca” aggiunge il sottosegretario che affida la sua replica ad un comunicato in cui continua: “Che la Procura d’Imperia abbia trasmesso gli atti a Macerata come sede competente è una notizia che potrebbe avere un senso se, come la legge prevede, io ne fossi a conoscenza. Ma così non è. Dovrebbe infatti essere un magistrato, non un giornalista, a stabilire su cosa indagare e sulle complicità di restauratori e fotografi, accusatori improvvisati, ma che potrebbero rivelarsi complici di più gravi reati e omissioni”.

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Magnate asiatico Kwong, mai pagato o conosciuto Boraso

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Il magnate singaporiano Ching Chiat Kwong si chiama ‘fuori’ dalle accuse che lo inseriscono nell’inchiesta di Venezia, sostenendo di non aver “mai pagato, ne’ conosciuto” l’assessore Renato Boraso, in carcere per corruzione. Kwong, indagato dai pm Roberto Terzo e Federica Baccaglini, ha fatto conoscere la sua posizione attraverso il proprio difensore, l’avvocato Guido Simonetti. Nelle carte dell’accusa il miliardario asiatico è chiamato in causa – per l’acquisto dei due palazzi veneziani Donà e Papadopoli, e per la trattativa sui ‘Pili’ – assieme a Luois Lotti, suo plenipotenziario in Italia, e Claudio Vanin, imprenditore prima con loro in affari, ora ingaggiato in una dura lotta legale con Lotti.. A Venezia c’è intanto attesa per capire quali saranno le mosse del sindaco Luigi Brugnaro, a sua volta indagato, che pressato dei partiti della sua maggioranza – in particolare Fdi – ha deciso di anticipare al 2 agosto (prima era il 9 settembre) la data del chiarimento in Consiglio Comunale. Brugnaro continua a lavorare, e non ha intenzione di presentarsi dimissionario.

E se può essere suggestivo accostarvi oggi le dimissioni di Giovanni Toti, suo ex compagno di avventura in ‘Coraggio Italia’, da ambienti vicini a Ca’ Farsetti si fa notare come le due vicende siano “completamente diverse”. Brugnaro è indagato per concorso in corruzione con i due dirigenti dell’ufficio di gabinetto Morris Ceron e Derek Donadini. Quando scoppiò l’inchiesta il Procuratore Bruno Cherchi aveva sottolineato che l’iscrizione del sindaco nel registro era stata fatta solo “a sua tutela”. I chiarimenti veri, tuttavia, non saranno possibili fino a quando i nomi di peso finiti nell’inchiesta non decideranno di presentarsi davanti ai magistrati. Oggi intanto ha provato a chiarire la propria posizione l’uomo d’affari singaporiano “Ching Chiat Kwong – ha dichiarato l’avvocato Simonetti – “non ha mai disposto né effettuato (neppure tramite persone terze) il pagamento di una somma nei confronti dell’assessore Renato Boraso”.

Inoltre “non ha mai neppure conosciuto l’assessore Renato Boraso”. E sulle due operazioni portate a termine da Kwong a Venezia, viene sottolineato che i due edifici citati nell’inchiesta, palazzo Donà e palazzo Papadopoli, “sono stati acquistati attraverso una procedura ad evidenza pubblica e a prezzi in linea (se non superiori) al loro valore di mercato”. Nelle carte dell’inchiesta, l’accusa sottolinea tuttavia che proprio per far abbassare il valore di acquisto di palazzo Papadopoli, da 14 mln a 10,7 mln, Boraso avrebbe ricevuto da Kwong “”per il tramite dei suo collaboratori”, la somma di 73.200 euro, attraverso due fatture da 30.000 euro più Iva, emesse da una società dell’assessore, la Stella Consuting, per una consulenza “in realtà mai conferita, ne’ eseguita”. Quanto all’affare, poi sfumato, dei Pili, l’avvocato di Kwong evidenzia “come la trattativai non si sia in alcun modo mai concretizzata, fermandosi ad uno stadio del tutto embrionale”.

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‘Sgomberate la Vela’, l’ordinanza del 2015 mai eseguita

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Un’ordinanza datata ottobre 2015 metteva in guardia dal pericolo crolli: la Vela Celeste va sgomberata, il succo di una relazione del Comune di Napoli messa nero su bianco. La firma in calce è quella del sindaco dell’epoca, Luigi de Magistris. Un sos che non troverà mai seguito e di cui oggi la città piange le conseguenze dopo il crollo del ballatoio-passerella che lunedì sera ha determinato la morte di tre persone e il ferimento di altre dodici. Dunque, non solo il documento datato 2016 che denunciava la mancata manutenzione dei ballatoi della Vela Celeste di Scampia con relativo rischio crollo, dal passato emerge anche un’altra carta che chiama in causa l’immobilismo delle istituzioni. Perché quell’ordinanza di sgombero coatto non è mai stata presa in considerazione?

E perché si è preferito agire con degli accorgimenti che sanno di palliativo piuttosto che affrontare di petto l’emergenza segnalata da quel documento pubblicato sull’albo pretorio del Comune? Domande in attesa di risposta e sulle quali la procura di Napoli – che ha aperto un’indagine contro ignoti per crollo colposo e omicidio colposo – intende fare chiarezza. L’ordinanza firmata de Magistris – è quanto emerge – era dettata dalla necessità di tutelare l’incolumità di 159 famiglie per un totale di 600 persone residenti nella Vela Celeste. Alla base del provvedimento c’era la relazione di un dirigente comunale che delineava un quadro di pericolo allarmante. Anche la politica chiede di fare chiarezza.

A partire dalla segretaria del Pd Elly Schlein che ne ha parlato al festival di Giffoni: “È un tragedia drammatica – ha detto -. Abbiamo immediatamente espresso tutta la nostra vicinanza alle persone, alle famiglie, al quartiere colpito. C’è da fare luce su quello che è accaduto perché non può succedere una cosa del genere”. Fare luce è quello che intende fare la Procura di Napoli che ha disposto l’ampliamento dell’area sottoposta a sequestro, dal terzo piano fino al piano terra. Le verifiche stanno riguardando anche le posizioni dei residenti nella Vela “incriminata” che, in gran parte, secondo quanto si apprende da fonti qualificate, risulterebbero abusivi. E intanto si sta rivelando più difficoltosa del previsto l’acquisizione della copiosa documentazione amministrativa sulla Vela Celeste. Si tratta in particolare degli atti relativi al progetto di riqualificazione ReStart e alla manutenzione del complesso di edilizia popolare con relative negligenze che oramai sono date per scontate. Fondamentali saranno per gli inquirenti le risultanze del lavoro affidato al perito, un ingegnere strutturista forense. Conferito, infine, l’incarico per gli esami autoptici sui corpi delle tre vittime.

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Rifiuta nutrizione artificiale,”ok a suicidio assistito”

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Si è sbloccato l’iter per l’accesso al suicidio medicalmente assistito della 54enne toscana, completamente paralizzata a causa di una sclerosi multipla progressiva, che aveva rifiutato la nutrizione artificiale: la Asl Toscana nord ovest ha dato parere favorevole. “E’ la prima applicazione della nuova sentenza della Consulta che ha esteso il concetto di ‘trattamento di sostegno vitale'”, afferma l’associazione Luca Coscioni a cui si era rivolta tempo fa la donna e che ne aveva reso noto il caso un mese fa. L’Azienda sanitaria, spiega oggi l’associazione, “ha comunicato il suo parere favorevole: la donna possiede tutti e 4 i requisiti previsti dalla sentenza 242/2019 (Cappato/Dj Fabo) per poter accedere legalmente al suicidio medicalmente assistito in Italia. Da oggi se confermerà la sua volontà, potrà procedere a porre fine alle sue sofferenze. La Commissione medica della azienda sanitaria ora aspetta di sapere le modalità di esecuzione e il medico scelto dalla donna, in modo da assicurare ‘il rispetto della dignità della persona’”. La donna aveva inviato la richiesta di verifica delle sue condizioni il 20 marzo e a causa del diniego opposto aveva diffidato l’Asl, il successivo 29 giugno, alla revisione della relazione finale con particolare riferimento alla sussistenza del requisito del trattamento di sostegno vitale, essendo totalmente dipendente dall’assistenza di terze persone e avendo rifiutato la nutrizione artificiale con la Peg ritenendola un accanimento terapeutico.

Ora la revisione del parere della Asl “è avvenuta – rileva l’associazione – alla luce della recente sentenza della Corte costituzionale 135 del 2024 che ha esteso l’interpretazione del concetto di ‘trattamento di sostegno vitale'”: fino a quest’ultima sentenza l’Azienda sanitaria “non riconosceva la presenza di questo requisito, in quanto equiparava il rifiuto della nutrizione artificiale all’assenza del ‘trattamento di sostegno vitale'”. I giudici della Consulta però “hanno chiarito che ‘non vi può essere distinzione tra la situazione del paziente già sottoposto a trattamenti di sostegno vitale, di cui può chiedere l’interruzione, e quella del paziente che non vi è ancora sottoposto, ma ha ormai necessità di tali trattamenti per sostenere le sue funzioni vitali'”. “È la prima applicazione diretta della sentenza 135” della Consulta “che interpreta in modo estensivo e non discriminatorio il requisito del trattamento di sostegno vitale – dichiara l’avvocato Filomena Gallo, segretaria nazionale dell’associazione Coscioni, difensore e coordinatrice del collegio legale della 54enne -. La signora dopo mesi di attesa e sofferenze, con il rischio di morire in modo atroce per soffocamento anche solo bevendo, potrà decidere con il medico di fiducia quando procedere, comunicando all’Azienda sanitaria tempi e modalità di autosomministrazione del farmaco al fine di ricevere assistenza e quanto necessario. Le decisioni della Consulta, che hanno valore di legge, colmano il vuoto in materia dettando le procedure da seguire per chi vuole procedere con il suicidio medicalmente assistito”.

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