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Pittsburgh, folle entra in sinagoga e fa strage di ebrei: arrestato dalla polizia il 46 enne Robert Bowers

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Erano le dieci del mattino quando l’assassino è entrato in azione. È entrato nella sinagoga dell’albero della vita a Pittsburgh ed ha cominciato a sparare. Sono arrivati i poliziotti ed ha sparato anche su di loro. Nella conferenza stampa seguita all’evento, il capo della polizia di Pittsburgh ha parlato di sei feriti ma non ha voluto rilasciare cifre ufficiali sui morti: otto, secondo Cbs, almeno quattro per la CNN. Il poliziotto si è limitato a dire che all’interno della sinagoga ha visto “una delle peggiori scene a cui io abbia assistito nella mia vita”. Secondo l’inviata dell’emittente radio Kdka, al momento dell’arresto l’uomo che ha sparato ha urlato insulti e ingiurie. Agli agenti delle forze speciali avrebbe urlato, “tutti questi ebrei devono morire”.

Robert Bowers. L’assassino della Sinagoga

Si tratta di Robert Bowers, 46 anni: è rimasto solo lievemente ferito nella sparatoria. La zona dove è avvenuta la sparatoria, il quartiere di  Squirrel Hill, è storicamente abitata dalla comunità ebraica, sotto choc per quanto accaduto ma anche perchè non si aspettava questo attacco. La sinagoga colpita appartiene all’Albero della vita, storica congregazione ebraica del movimento conservatore, fondata in questa città nel 1846. Si tratta del secondo episodio di violenza negli Stati Uniti a pochi giorni dalle elezioni di Mid Term, decisive per decidere il futuro della presidenza Trump, dopo l’invio di pacchi bomba a esponenti democratici e a personaggi pubblici che si erano espressi contro l’attuale Amministrazione. A poche ore dai fatti Trump ha parlato con i giornalisti: “E’ terribile quello che sta avvenendo con l’odio nel nostro Paese e in tutto il mondo. Qualcosa deve essere fatto”, ha detto. Trump ha rifiutato ogni associazione fra la strage e la facilità di ottenere armi negli Usa: “Un matto è entrato e non c’era protezioni. Se ci fosse stata qualche sorta di protezione all’interno del tempio, allora la situazione sarebbe stata molto diversa”.  Il presidente ha insistito sulla necessità di un inasprimento delle pene: “Dovremmo rafforzare le nostre leggi sulla pena di morte per chi compie atti come questi”, ha detto. Concludendo: “So che alcuni non la pensano come me”.

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Argentina: ex presidente Macri non si candiderà nel 2023

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L’ex presidente argentino Mauricio Macri (2015-2019) ha annunciato di avere deciso di non candidarsi per l’opposizione nelle prossime elezioni presidenziali previste in Argentina il 22 ottobre 2023. “Lo faccio – ha sostenuto in un video postato ieri nel suo account Twitter – convinto che dobbiamo allargare lo spazio politico che abbiamo costruito”, e in questo ambito “confido che l’area in cui mi riconosco (la coalizione Pro, ndr.) saprà scegliere la persona che meglio possa rappresentarci”.

Abbandonando l’ambiguità di dichiarazioni dei giorni scorsi che potevano far pensare ad una nuova partecipazione alla contesa elettorale, Macri, 64 anni, ha ora chiarito il suoi pensiero, non senza criticare duramente la coalizione governativa peronista Frente de Todos (FdT) che sostiene il presidente Alberto Fernández. Sottolineando che per colpa del FdT “siamo alla deriva, senza guida, isolati dal mondo, soli”, Macri ha però messo in guardia dal pericolo che esiste “nelle situazioni difficili da cui molti credono di uscire guardando a una personalità messianica che dia sicurezza”, come potrebbe essere il leader dell’estrema destra Javier Milei con ambizioni presidenziali.

Gli analisti locali sottolineano che l’annuncio di Macri, che peraltro non appariva in buona posizione nei sondaggi, lascia spazio ad altri candidati del Pro che ambiscono a candidarsi alla Casa Rosada: l’attuale governatore di Buenos Aires, Horacio Rodríguez Larreta, l’ex ministra della Sicurezza del precedente governo, Patricia Bullrich, e la ex governatrice della provincia di Buenos Aires, María Eugenia Vidal.

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Putin minaccia l’Occidente: avete superato la linea rossa

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“Tutte le linee rosse sono state superate”, ma il motivo non è l’annuncio russo del dispiegamento di armi nucleari tattiche in Bielorussia. Il presidente Vladimir Putin è convinto che la goccia che sta facendo traboccare il vaso dell’escalation tra Kiev e Mosca sia la consegna di armi occidentali all’Ucraina: “Sì, è quello che stanno facendo, l’hanno fatto fin dall’inizio nel 2014, quando hanno facilitato il colpo di Stato”.

L’ennesimo tentativo di retrodatare l’inizio di un conflitto che ha, in realtà, un giorno di esordio ben preciso: il 24 febbraio 2022. Secondo quanto sostiene l’Istituto per lo studio della guerra, Mosca avrebbe avuto intenzione da tempo di schierare armi nucleari in Bielorussia, ancor prima di varcare i confini del vicino. Il presidente bielorusso Alexander Lukashenko aveva suggerito a Putin di farlo già dal 30 novembre 2021. E nel febbraio 2022 Minsk aveva annullato la clausola costituzionale che garantiva lo status neutrale della Bielorussia.

La scelta di annunciare ieri le armi nucleari a Minsk, dove dieci aerei sarebbero pronti a utilizzare questo tipo di equipaggiamento, non è casuale. Sempre secondo il report dell’Istituto infatti, di fronte ad un sostanziale stallo sul campo di battaglia Putin avrebbe deciso di avviare una nuova campagna di propaganda volta ad intimidire l’Ucraina e i Paesi dell’Ue. Una decisione che ovviamente preoccupa la Nato. Attraverso un suo portavoce, l’Alleanza atlantica ha condannato la retorica nucleare russa come “pericolosa e irresponsabile”, facendo sapere che dal quartier generale di Bruxelles sta monitorando la situazione, anche se al momento “non ci sono passi che ci costringano a modificare la nostra strategia”.

Mentre gli Stati Uniti, che della Nato costituiscono il pilastro e restano “impegnati nella difesa collettiva degli alleati”, frenano sulle reali intenzioni dello zar: “Non abbiamo alcuna indicazione che abbia mantenuto il suo impegno o che qualche arma nucleare sia già stata trasferita”, ha detto il portavoce del Consiglio della sicurezza nazionale John Kirby. Un alto funzionario, prima di lui, aveva spiegato che Washington al momento non ha riscontrato “alcun motivo per modificare la sua postura nucleare strategica”.

Il dispiegamento di armi nucleari russe in Bielorussia rappresenterebbe comunque “un’irresponsabile escalation e una minaccia alla sicurezza europea”, ha avvertito l’alto rappresentante Ue Josep Borrell, con Bruxelles pronta “a rispondere con ulteriori sanzioni” verso Minsk, anche se l’auspicio è che questo non sia necessario. “La Bielorussia può ancora fermare” questa escalation, ha sostenuto Borrell, “è una sua scelta”. Il dibattito sugli annunci di Mosca tiene banco anche tra i vertici ucraini. Per il segretario del Consiglio di sicurezza e difesa nazionale, Oleksiy Danilov, la Russia sta tenendo Minsk “come ostaggio nucleare” e la mossa rappresenta “un passo verso la destabilizzazione interna del Paese”.

La possibilità che Minsk sia armata con equipaggiamento nucleare non può che preoccupare Kiev. Attraverso il ministro degli Esteri Dmytro Kuleba, l’Ucraina ha chiesto una riunione d’urgenza del Consiglio di sicurezza dell’Onu, esortando l’Occidente e la Cina a porre fine al “ricatto nucleare del Cremlino”. Sul campo, intanto, si continua a combattere e Bakhmut è ancora il teatro degli scontri più feroci. L’esercito ucraino sarebbe riuscito a stabilizzare la situazione nell’area della città, secondo il portavoce del gruppo orientale delle forze armate di Kiev, Sergey Cherevaty, ma fonti russe sostengono che il Gruppo Wagner abbia preso il “pieno controllo” dell’impianto metallurgico Azom, nel nord. A Kramatorsk e Avdiivka, nella regione del Donetsk, le forze armate di Mosca hanno lanciato un attacco missilistico usando lanciarazzi multipli Grad, artiglieria e munizioni a grappolo. Più a sud, nella regione di Kherson, quattro civili sono rimasti gravemente feriti a seguito di detonazioni di ordigni. Ieri ne erano morti cinque dopo gli attacchi russi in otto regioni.

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L’Honduras rompe con Taiwan, nuova era con Pechino

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Al termine di un processo durato meno di due settimane, l’Honduras, piccolo Stato centroamericano guidato dalla presidente progressista Xiomara Castro, ha ufficializzato la rottura “irreversibile” delle relazioni diplomatiche con Taiwan, risalenti al 1941, e l’allacciamento immediato di quelle con la Repubblica popolare cinese. In una dichiarazione congiunta pubblicata oggi simultaneamente a Pechino e Tegucigalpa, si rende noto che “entrambi i Paesi, d’accordo con l’interesse e i desideri dei due popoli, hanno deciso di riconoscersi reciprocamente e di stabilire relazioni diplomatiche a livello di ambasciatori”. Queste, si precisa, si svilupperanno sulla base dei “principi di rispetto della sovranità e integrità territoriale, non aggressione, non ingerenza negli affari interni, uguaglianza, beneficio mutuo e coesistenza pacifica”. Con la conferma si sottolinea che “l’Honduras riconosce l’esistenza di una sola Cina”, e che “Taiwan forma parte inalienabile del territorio cinese”, impegnandosi formalmente a non avere mai più relazioni o contatti ufficiali con essa”, una posizione per cui Pechino ha espresso il suo “apprezzamento”.

La dichiarazione è stata firmata a Pechino dal ministro degli Esteri dell’Honduras, Eduardo Enrique Reina, e dal collega cinese, Qin Gang. Durante i colloqui con Reina seguiti alla firma, Qin ha osservato che il principio di “una sola Cina” è un consenso prevalente nella comunità internazionale e una norma di base ampiamente riconosciuta nelle relazioni internazionali, collocando “l’Honduras nel lato corretto della storia”. La decisione, fortemente criticata dalle autorità taiwanesi che hanno denunciato “intimidazioni” e “corruzione” da parte di Pechino, riduce a 13 le nazioni che ancora mantengono relazioni diplomatiche con Taipei, fra cui Haiti, Guatemala, Paraguay e Santa Sede. All’origine della svolta, hanno indicato sia il ministro Reina sia il suo vice, Tony García, c’è stata la necessità urgente di risolvere la sostenibilità del debito estero del Paese di oltre 9.000 milioni di dollari, di cui 600 dovuti a Taiwan. Il governo honduregno avrebbe proposto a Taiwan di sostenerlo in una ristrutturazione del debito con riduzione dei tassi di interesse per un investimento da parte di Taiwan di 2.000-2.500 milioni di dollari. Un’operazione che però non è stata accettata, determinando la rottura. Il ministro degli Esteri di Taipei, Joseph Wu, ha confermato questa versione sottolineando che l’Honduras “ha chiesto un prezzo elevato” per mantenere i rapporti diplomatici. Il suo ministero ha rilasciato un comunicato in cui si dice “profondamente insoddisfatto”, suggerendo all’Honduras di “stare attento ai rischi contenuti negli impegni assunti dalla Cina nella sua offerta di relazioni diplomatiche”.

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