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Cronache

Padre Maurizio Patriciello ricorda a modo suo il camorrista Cutolo: Don Rafè ti sei illuso ed hai illuso, polvere eri e polvere sei ritornato

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Mercoledì delle Ceneri, Raffaele Cutolo esce di scena. «Polvere sei e polvere tornerai». Ti sei illuso, don Rafè, hai illuso; hai ucciso, hai fatto uccidere, tanti ti avrebbero volentieri ucciso. Hai comandato, sei stato obbedito. O’ professore, ti chiamavano, e a te, piaceva da impazzire. Quanto morti ti sei caricato sulle spalle? Migliaia. Napoli e dintorni negli anni 80 del Novecento, non un secolo fa, erano un mattatoio. Gli obitori sempre pieni. Si fa l’abitudine a tutto, questo è il guaio. Anche a passare davanti a un morto ammazzato e lasciarsi incuriosire.

Il capo indiscusso della Nuova Camorra Organizzata, Raffaele Cutolo, durante uno dei numerosi processi a suo carico. (ph. Mario Laporta)

Sei stato vezzeggiato e odiato, cercato e temuto. Il castello. Lo bramasti fin da bambino quell’antico maniero mediceo che sovrasta Ottaviano, il tuo paese. Era il tuo sogno, il tuo riscatto, la tua rivincita, doveva essere a tutti i costi tuo. Ci riuscisti.
Poi lo Stato, in un sussulto di dignità, se lo riprese; adesso in quelle antiche sale si parla di legalità, di ambiente, di lotta alla camorra. Aversa, bella città normanna, alle spalle della cattedrale, si erge, maestoso, l’ospedale psichiatrico criminale. Ti rinchiusero là, te ne uscisti pochi mesi dopo a modo tuo. I cancelli furono aperti da una bomba. Uno spaventoso boato assordò la città. Era il 5 febbraio del 1978.
Noi eravamo semplicemente terrorizzati. Nuova camorra organizzata – o, meglio, Nco – il nome del nuovo cancro camorristico da te inventato. Gente sanguinaria, folle: tanti dicono delle vere belve. Eppure mi viene da ridere, perché oggi quella stessa sigla è stata adottata dai ragazzi che lottano, cooperando e usando bene i frutti della terra campana, contro la camorra: Nco, adesso, sta a significare Nuova cucina organizzata.
Il tempo è un gran mattacchione. Un burlone che ti prende in giro senza fartene accorgere. Ci sei cascato anche tu, don Rafè. L’Arbitro ha fischiato, hai abbandonato il campo, manco a farlo apposta, nel giorno delle Ceneri. Ti hanno fatto credere di essere tutto di un pezzo, perché, come già Totò Riina e altri criminali mafiosi, non ti sei mai pentito. Un vero camorrista non deve dare segni di cedimenti. Sei stato ingannato e hai ingannato fino alla fine. Camorra e politica, camorra e affari, camorra e mafia, camorra e Brigate rosse. Soldi, soldi, soldi.
Una noia mortale. Oggi sui social a tuo riguardo c’è una baraonda infernale. Si legge tutto e il contrario di tutto. Gli ‘onesti’ te ne dicono di tutti i colori. Quando non corre rischi, tanta brava gente trova il coraggio di uscire allo scoperto, maledice, augura il carcere a vita al camorrista vivo e l’inferno eterno a quello morto. Che vuoi? «Il coraggio uno non se lo può dare», come fece dire Alessandro Manzoni al ‘suo’ desolante don Abbondio. È vero. Non manca, ovviamente, chi ti osanna e magari medita di farti il ritratto sulla facciata di una palazzina popolare. Diglielo tu, ti prego, don Rafè, che cambino strada, che non vale la pena campare come hai campato tu. Quanto male, professo’, quanta confidenza ti sei preso con la vita altrui; quante lacrime hai fatto scorrere.

 

Gennaro era mio amico d’infanzia, stesse abitudini, stessi sogni, stesse marachelle. Non era un delinquente, no. Ventenne, incappò in un gruppo che, mandato da te a colonizzare i nostri paesi, innescando la guerra con i rivali autoctoni, il tristemente noto clan dei casalesi. Rimase ammaliato. Decise. Non lo vedemmo più, finì in carcere per più di dieci anni. Entrò che era un caporale, uscì con i gradi di colonnello.
Era diventato silenzioso, prudente, diffidente. Prete da pochi mesi, lo incontrai alla festa di san Maurizio. Gli corsi incontro: «Gennaro – gli dissi – lo sai che sono diventato prete?». Mi fissò con una tristezza immensa, si guardava attorno sospettoso, comunicando con cenni della testa con la sua scorta armata. «Sì, me l’hanno detto – rispose – sono contento, auguri. Prega anche per me», tagliò corto.
Non lo vidi più. L’anno dopo fu trucidato a pochi passi dalle case dov’eravamo cresciuti. Non aveva ancora 40 anni. Don Rafè, ricevesti in dono un’intelligenza non comune. Chissà quanto bene avresti potuto fare, quanta gioia avresti potuto sperimentare e donare. Indietro non si torna. L’Arbitro ha fischiato, la partita è finita. Adesso sei al cospetto del buon Dio. Con lui non puoi più barare. Ora anche tu «vedi chiaro». Mi piace pensare che, chissà, ti starà mostrando l’altra tua vita, quella che aveva previsto per te e che tu, nel tuo delirio di arbitraria, sciocca, sanguinaria, onnipotenza, non hai mai vissuto. Chissà. Forse il purgatorio è questo. Padre Maurizio Patriciello

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Vincenzo Nibali: «Ero un carusu dannificu. La bici mi ha salvato dalla strada»

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Messina, la Sicilia, la fatica, la gloria. Vincenzo Nibali si racconta al Corriere della Sera, tra ricordi di un’infanzia ribelle, il riscatto sulla bicicletta e la consapevolezza maturata solo dopo il ritiro. Un’intervista intensa, autentica, a cuore aperto.

Una giovinezza a rischio: «Compagni con la pistola nello zaino»

«Ero un carusu dannificu», dice Nibali, usando l’espressione siciliana per “bambino disastroso”. Uno che attirava guai: sassate alle vetrate, petardi nelle cassette postali, motorini lanciati contro i muri. Una giovinezza vissuta in un quartiere difficile di Messina, dove alcuni compagni portavano la pistola a scuola. Nessuna mafia organizzata, ma il pizzo sì: «Colpì anche la cartoleria dei miei genitori».

La salvezza arriva su due ruote: «Sempre in salita, come da Messina»

La svolta arriva con la bici, a 12 anni, grazie al padre e ai suoi amici cicloturisti. Le prime gare, l’ammiraglia della Cicli Molonia, il traghetto per Villa San Giovanni che diventava un passaggio simbolico verso il sogno. A 15 anni vince a Siena e non torna più: «Mai avuto nostalgia. I miei genitori mi dissero: se ti impongono cose sbagliate torna, qui avrai sempre un lavoro. Mi ha aiutato a non cedere al doping».

L’ascesa, la gloria, il peso della vittoria

Nibali è uno dei pochi ciclisti ad aver vinto tutti e tre i grandi Giri. Il Tour de France del 2014 è stato l’apice, ma anche l’inizio di un incubo: «Non potevamo camminare con la carrozzina di nostra figlia senza essere assaliti. Solo adesso che ho smesso, vivo davvero». E confessa: «Mai provato e mai pensato di doparmi. Ma ho pagato il sospetto solo perché vincevo ed ero italiano».

La caduta che fa crescere: l’Olimpiade sfumata

Nel 2016 era lanciato verso l’oro olimpico, ma cadde in curva. «Scelsi io di rischiare, e sbagliai. Nessuna scusa». Parla anche del secondo posto alla Liegi-Bastogne-Liegi, “scippato” da un dopato, ma senza rancore: «Non mi chiedo mai quanto ho perso per colpa del doping».

Il ritorno da turista: «Messina è ‘u megghiu postu nto munnu’»

Oggi Nibali è ambasciatore del Giro e padre presente. Ha visitato la Sicilia con le figlie per farla conoscere da turista: «Antonello da Messina, i templi di Agrigento, i boschi dei Peloritani… È il posto più bello del mondo». Un campione che, a distanza di anni, può guardarsi indietro con orgoglio: «A testa alta, sempre».

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Guerra dei cassonetti ai Parioli: scompaiono i bidoni davanti a casa Castellitto

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Nel quartiere elegante e silenzioso dei Parioli esplode una singolare guerra urbana, fatta di strisce gialle, rifiuti e cortili privati. Oggetto del contendere: un set di cassonetti della raccolta differenziata, misteriosamente spariti dalla carreggiata davanti alla villa dell’attore Sergio Castellitto.

I cassonetti finiscono nel cortile dell’attore

La miccia si accende nella notte tra il 20 e il 21 aprile. I bidoni che servivano i residenti della zona vengono spostati oltre il cancello della villa in cui vive Castellitto, allineati ordinatamente nel cortile. Una rimozione anomala che di fatto priva della raccolta l’intero isolato. Le strisce gialle, predisposte per accogliere i cassonetti, rimangono desolatamente vuote.

Secondo indiscrezioni, l’attore avrebbe più volte manifestato il suo malcontento per la presenza dei contenitori davanti all’ingresso della sua abitazione, considerandoli poco decorosi. I vicini, al contrario, li ritengono un servizio essenziale, invocandone semmai una manutenzione più frequente.

Denuncia in arrivo e reazione dei residenti

A seguito dell’episodio, il quartiere insorge. I residenti, costretti a girovagare per il quartiere con buste e cartoni, scattano foto e si interrogano sul destino dei contenitori. Tra loro anche il regista premio Oscar Paolo Sorrentino, recentemente trasferitosi nella zona.

Dopo poche ore, i cassonetti scompaiono anche dalla visuale del villino: né davanti al cancello né sul marciapiede. Ma non vengono ricollocati nella loro sede originaria. La vicenda, lungi dal concludersi, potrebbe ora avere conseguenze legali.

Ama pronta a sporgere denuncia

La municipalizzata dei rifiuti, Ama (foto Imagoeconomica), non intende lasciar cadere il caso. I vertici dell’azienda starebbero preparando una denuncia ai carabinieri per la scomparsa dei contenitori. Anche l’assessore al Verde del Municipio, Rosario Fabiano, si è attivato per fare luce sull’accaduto.

Il comitato Le Muse: “I cassonetti tornino al loro posto”

Dal comitato di zona Le Muse l’appello è chiaro: «Speriamo che quei cassonetti tornino al più presto al loro posto. Sarebbe grave se così non fosse. Si tratta di oggetti che appartengono alla collettività, ricordiamolo».

Intanto, nel quartiere ovattato dei Parioli, il decoro urbano si trasforma in una guerra di nervi, tra privacy e servizio pubblico, in attesa che si ristabilisca un fragile equilibrio tra rifiuti e rispetto.

 

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La madre del 17enne condannato per l’omicidio di Santo Romano: «Non è lui l’autore dei post provocatori»

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Ha deciso di rivolgersi alla polizia postale la madre del 17enne condannato a 18 anni e 8 mesi per l’omicidio di Santo Romano, ucciso nella notte tra l’uno e il due novembre scorsi a San Sebastiano al Vesuvio. Lo fa per chiedere chiarezza su una vicenda che – a suo dire – rischia di danneggiare ulteriormente il figlio.

La denuncia: «Quei post non li ha scritti mio figlio»

«Mio figlio è detenuto ad Airola, non ha accesso ai social e non è stato mai segnalato per l’uso di telefoni cellulari in modo clandestino», spiega la donna, assistita dall’avvocato Luca Raviele. E chiarisce: «Non può essere lui l’autore dei messaggi comparsi in rete dopo la sentenza». Messaggi che – accompagnati da immagini del ragazzo risalenti a mesi fa – contengono frasi provocatorie e offensive, come: «Io 18 anni e 8 mesi me li faccio seduto su un cesso».

Una pioggia di messaggi offensivi

Quei post, circolati in modo virale sui social, hanno fatto riesplodere le tensioni tra i familiari delle due fazioni coinvolte nella tragica vicenda. E la madre del minore condannato prende le distanze: «Non c’entriamo nulla. Né io, né parenti o conoscenti abbiamo scritto o condiviso quei contenuti. Spero che la polizia postale indaghi per risalire ai veri responsabili».

La notte dell’omicidio: una lite per una scarpa sporca

Tutto è iniziato in piazza Capasso, cuore della movida di San Sebastiano. Un banale litigio per una scarpa pestata ha innescato lo scontro tra due gruppi di ragazzi. Dopo un primo alterco, la situazione sembrava rientrata, ma secondo quanto ricostruito dagli inquirenti – anche grazie a un video – Santo Romano sarebbe tornato indietro rivolgendosi all’auto dove si trovava L.D.M. Un gesto, forse un lancio, e poi il dramma: due colpi di pistola al petto, esplosi dal 17enne. Santo muore sul colpo.

Un processo doloroso e una sentenza pesante

Martedì scorso è arrivata la condanna in primo grado: 18 anni e 8 mesi di reclusione per omicidio, tentato omicidio e detenzione di arma da fuoco. L’indagine è stata condotta dal pm Ettore La Ragione della Procura per i Minori. Una sentenza che ha alimentato il dolore dei familiari di Santo Romano, un ragazzo di 19 anni, portiere di una squadra di calcio, noto nel suo gruppo per essere sempre un paciere.

Il timore di nuove tensioni

I post emersi nelle ultime ore rischiano di avvelenare ulteriormente il clima. «Non voglio neanche ripetere il contenuto di certi messaggi – spiega la madre del ragazzo – sono offensivi, gratuiti, e danneggiano mio figlio. Non possiamo permettere che a una tragedia come questa si aggiungano nuove ingiustizie». Per questo è stata sporta una formale denuncia contro ignoti: sarà ora compito degli investigatori della polizia postale stabilire chi si nasconde dietro quegli account.

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