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Economia

Nessuno sportello in 383 comuni, la banche italiane in 7 anni hanno chiuso 6mila filiali e mandato a casa 26mila bancari

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In 383 piccoli comuni d’Italia le banche non ci sono. E se c’erano hanno sbaraccato di recente. Spesso negli stessi comuni non ci sono nemmeno sportelli delle Poste. La piccola Italia oramai è sempre più abbandonata dalle banche. Taglio dei costi spesso significa lasciare senza neanche uno sportello tanti centri della Penisola. Tutti posti abitati a maggioranza da anziani, quindi persone spesso poco al passo con la trasformazione digitale che sta investendo il settore. Sono 383 i Comuni italiani in cui ai cittadini del luogo non viene concessa l’opportunità di poter prelevare contanti. Ad aggiornare i numeri del trend è un’indagine della First-Cisl. Dai dati del sindacato “la linea dei tagli degli sportelli bancari ha fatto sparire dal 2010 al 2017 la bellezza di 6.289 filiali”. Nello stesso arco temporale “il personale di rete è sceso di oltre 26mila unità”. Duro il commento del segretario della First- Cisl, Giulio Romani: “I top manager giustificano l’abbandono del territorio con l’avanzata del digitale, ma è un pretesto, perché il ritmo delle chiusure dalla fine del 2010 è stata del 18,7% contro un calo di accessi alle agenzie solo del 7,5%. Mirano a tagliare i costi». 

In particolare i Comuni serviti da almeno una filiale bancaria erano 5.906 a fine 2010 e sono scesi a 5.523 alla fine dello scorso anno. E se un’indagine dell’Abi sull’accessibilità in banca rileva il maggior ricorso alle nuove tecnologie con “l’adozione di soluzioni innovative per agevolare tutte le fasce di clientela” a partire da chi è portatore di handicap, per la First Cisl è grave che a restare sguarnite di filiali bancarie siano “le aree marginali, abitate da una popolazione più anziana”. Non a caso si parla di problema sociale da non sottovalutare e si invita a difendere “la capillarità del servizio bancario”, a partire dalle zone più disagiate.

Tutt’altro che marginale è l’impatto negativo sull’economia locale di questo progressivo abbandono del territorio: sette anni fa c’erano 7,6 sportelli ogni 1.000 imprese, ora sono solo 6,2. Dal rapporto viene fuori che nell Italia nord-occidentale i Comuni serviti dagli sportelli bancari sono 1.923 nel 2017 con un calo del 4,6% rispetto al 2010, in Italia nord-orientale 1.258 (-7%) e in Italia centrale 786 (-6,2%) mentre al Sud sono 1.556 (-8,5%) con punte del -9,3% nelle Isole.

«Il dato più impressionante – sottolinea il responsabile dell’Ufficio Studi di First Cisl, Riccardo Colombani – è che più di un quarto delle filiali perse negli ultimi sette anni è stato chiuso nel solo 2017.

A fine 2010 c’ erano 33.663 agenzie bancarie, il 31 dicembre scorso erano scese a 27.374 e ben 1.653 chiusure si sono concentrate nel 2017. In un solo anno siamo scesi da 48 a 45 filiali ogni 100 mila abitanti ». Se si dovesse procedere con il ritmo del 2017 da qui a una quindicina d’ anni non ci sarebbe più alcuna presenza fisica delle banche sul territorio, mica solo nei piccoli Comuni.

Sportelli chiusi. In dieci sparite più di 6mila filiali di banche e mandati a casa 26mila bancari

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Economia

Benzina vola sopra 1,7 euro con la fiammata petrolio

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La fiammata iniziale del petrolio per la guerra fra Iran e Israele spinge i prezzi della benzina a 1,7 euro al litro e quelli del gasolio a 1,6 euro. Eni ha aumentato di un centesimo i prezzi consigliati di benzina e gasolio, mentre per IP e Q8 i rialzi sono di due centesimi al litro sul gasolio. La rilevazione della Staffetta Quotidiana precede la brusca frenata delle quotazioni del greggio, in forte calo con le indiscrezioni sulla disponibilità di Teheran a trattare e il sollievo degli investitori per i mancati attacchi alle strutture energetiche e il normale funzionamento dello stretto di Hormuz. Al calo del petrolio si contrappone la volata delle borse, confortate dall’idea che il conflitto resterà probabilmente contenuto.

Le piazze finanziarie chiudono tutte positive, con Milano che avanza dell’1,24%. Sale decisa anche Wall Street con i listini che guadagnano oltre l’1% intravedendo un conflitto limitato e forse più breve delle attese. Mentre l’oro cala e si attende la Fed, che mercoledì annuncerà la sue decisioni di politica monetaria, il petrolio appare il più esposto alla crisi in Medio Oriente. Dopo essere arrivato a salire del 5,5% durante la seduta, il Brent non solo ha bruciato i guadagni ma è arrivato a perdere fino al 2,5%, restando comunque in rialzo del 4% da quando è iniziato il conflitto fra Iran e Israele.

Lo stesso trend si verifica per il Wti, che si è spinto fino a cedere al 3,69%. “Il mercato è rassicurato dal fatto che gli attacchi all’infrastruttura energetica sono limitati ai sistemi nazionali dei due paesi”, ha detto Homanyoun Falakshahi di Kpler con il Financial Times, osservando come Israele sembra più interessato a causare difficoltà logistiche all’Iran piuttosto che creare problemi sui mercati internazionali. La convinzione degli analisti è che ulteriori rialzi delle quotazioni sono possibili, ma non ci sarà una spirale al rialzo vista la debolezza dell’Iran e il tacito sostegno degli Stati Uniti a Israele.

A questo si aggiunge il fatto che nel corso negli anni il mercato petrolifero ha imparato a ‘gestire’ le crisi in Medio Oriente, anche se i rischi che quella in corso comporta non vanno ignorati. Se Israele dovesse colpire, volontariamente o per errore, gli impianti per l’export di greggio iraniani di Kharg, l’Iran – avvertono – non avrebbe molto da perdere nel chiudere o mettere a rischio la sicurezza dello stretto di Hormuz. Nonostante gli attacchi, i flussi petroliferi proseguono e anche lo stretto di Hormuz resta in attività. “Anche se c’è il timore che un conflitto più ampio possa chiudere lo stretto, noi riteniamo il rischio limitato visto che non è mai accaduto nella storia”, ha messo in evidenza JPMorgan.

A seguire con attenzione gli sviluppi sul mercato petrolifero sono gli Stati Uniti consapevoli che un balzo sostenuto delle quotazioni potrebbe far balzare l’inflazione, creando problemi all’agenda di Donald Trump e mettendo in ulteriore difficoltà la Fed. La banca centrale è attesa lasciare i tassi di interesse invariati alla prossima riunione nonostante le pressioni del presidente americano. L’attenzione è tutta puntata su Jerome Powell, che potrebbe fornire indicazioni sulle prossime mosse e soprattutto chiarire di cosa ha bisogno la Fed per tagliare i tassi.

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Economia

L’Ue punta ad un accordo con Trump sui dazi al 10%

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Von der Leyen

La Ue ha pronta un’offerta per un accordo sui dazi con gli Usa, ma tiene in serbo il suo ‘bazooka’ in caso di fallimento. La proposta è trapelata sui media a poche ore dall’atteso incontro tra la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen e Donald Trump, a margine del G7 canadese, dove il tycoon è sbarcato con un’ampia delegazione di governo, compreso il segretario al Tesoro Scott Bessent e il rappresentante per il Commercio Usa Jamieson Greer. Bruxelles, secondo il quotidiano economico tedesco Handelsblatt, è pronta ad accettare un dazio fisso del 10% su tutte le esportazioni dell’Unione Europea verso gli Stati Uniti nella speranza di evitare tariffe più elevate su automobili, farmaci ed elettronica.

Citando alti funzionari dell’Ue, il giornale precisa che l’offerta a Washington sarebbe stata fatta solo a determinate condizioni e non sarebbe permanente. Bruxelles, in cambio, sarebbe pronta a ridurre i dazi sui veicoli prodotti negli Stati Uniti e a modificare eventualmente gli ostacoli tecnici o legali per facilitare la vendita delle auto americane in Europa. L’Ue si è anche offerta di vietare completamente gli acquisti di gas naturale russo, creando potenzialmente una maggiore domanda per i produttori statunitensi di Gnl. “L’intenzione è costruire un pacchetto completo” così da permettere al presidente statunitense di presentarlo come “una vittoria politica significativa”, hanno spiegato le stesse fonti Ue.

Tra le ipotesi sul tavolo, anche la riduzione di oneri burocratici e regolamentari già prevista, come l’alleggerimento della direttiva sulla due diligence. La posizione di Bruxelles deriva in parte dalla consapevolezza che Trump farà affidamento su alcune entrate tariffarie per finanziare i maxi tagli fiscali previsti dal disegno di legge di spesa all’esame del Congresso. I negoziatori statunitensi, tuttavia, finora non hanno concordato di limitare i dazi all’importazione sulle auto Ue al 10%. “La presidente Ursula von der Leyen ha parlato con Donald Trump” e “hanno concordato di proseguire i lavori per raggiungere un’intesa sui dazi entro il 9 luglio”, si è limitato a dire un portavoce della Commissione europea.

Nessuna conferma, invece, sulla possibilità che Bruxelles accetti un’intesa con Washington basata su dazi fissi al 10%, né su eventuali nuovi incontri in programma questa settimana tra il commissario Ue per il Commercio, Maroš Šefčovič, e i negoziatori statunitensi. L’impegno a trovare una soluzione entro il 9 luglio è stato ribadito alla vigilia del G7 anche dalla stessa von der Leyen, la quale tuttavia ha avvisato che, nel caso il risultato non fosse soddisfacente, “saremo in grado di rispondere: tutti i mezzi sono sul tavolo”. Un riferimento al bazooka, ossia alle misure di ritorsione che l’Europa è pronta a far scattare fino a 120 miliardi di euro. Von der Leyen ha lanciato anche un altro messaggio alla vigilia del G7, auspicando che il gruppo dei Sette mandi un messaggio contro il protezionismo.

“Siamo così profondamente connessi – ha spiegato – che anche i rischi devono essere gestiti insieme. Perché i dazi, ad esempio, non hanno un impatto solo sugli esportatori. Sono come le tasse, pagate da famiglie e imprese nei Paesi importatori”. “Quindi – ha proseguito – manteniamo il commercio tra noi equo, prevedibile e aperto. Tutti noi dobbiamo evitare misure protezionistiche. Questo è un messaggio importante che il G7 può inviare ai mercati e al mondo. E restiamo concentrati, insieme, sulle sfide reali e strutturali che richiedono tutta la nostra attenzione”.

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Economia

L’Italia entra nel club del nucleare, sì all’alleanza Ue

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Da osservatore a membro effettivo e operativo. In poco più di due anni l’Italia ha superato il tabù sul ruolo del nucleare nella decarbonizzazione ed è entrata a pieno titolo nell’alleanza Ue guidata dalla Francia, che dal 2023 promuove a Bruxelles gli interessi dei Paesi pro-atomo nel continente. La scelta è arrivata dopo la decisione del governo “di presentare il disegno di legge per il ritorno alla produzione di energia nucleare”, ha sottolineato il ministro Gilberto Pichetto, suggellando il rinato interesse del Paese per la fonte prodotta da reattori di nuova generazione nell’intento di promuovere “con convinzione il principio della neutralità tecnologica” e seguire “una transizione energetica sostenibile che garantisca la resilienza del sistema energetico e favorisca imprese e famiglie”.

Una strategia è in piena sintonia con il piano Ue per la sicurezza energetica, lanciato per ridurre l’uso di combustibili fossili, puntare su fonti alternative e voltare pagina rispetto alla dipendenza energetica dalla Russia. L’Italia si è unita al fronte sempre più nutrito e ormai consolidato di cui fanno parte, oltre a Parigi, anche Belgio, Bulgaria, Croazia, Repubblica Ceca, Finlandia, Ungheria, Paesi Bassi, Polonia, Romania, Slovacchia, Slovenia, Svezia ed Estonia (quest’ultima come osservatore). E a cui, timidamente, si è affacciata – sempre nel ruolo di osservatore – anche la ministra tedesca Katherina Reiche, confermando un cambio di passo di Berlino sulle politiche energetiche e, in particolare, sul nucleare destinato a cambiare le carte in tavola. Per spingerlo, nelle stime di Bruxelles, saranno necessari investimenti pari a 241 miliardi di euro entro il 2050, destinati sia alla costruzione di nuovi reattori sia al prolungamento della vita degli impianti esistenti.

A dominare l’agenda dei ministri dell’Energia riuniti a Lussemburgo è stata la sicurezza energetica nel suo insieme. Con il nodo politico più complicato da sciogliere: lo stop agli ultimi legami con Mosca. Nelle prossime ore è attesa la proposta legislativa della Commissione europea per vietare tutti i contratti di fornitura di gas russo entro la fine del 2027, ma l’unanimità per dare impulso all’azione dell’esecutivo di Ursula von der Leyen è mancata anche questa volta. Ungheria e Slovacchia si sono infatti sfilate dalle conclusioni finali del Consiglio, costringendo la Polonia – presidente di turno Ue – a contare solo sul sostegno degli altri 25 Paesi membri. Ma i veti non rallentano l’azione del commissario Ue Dan Jorgensen. In linea con la tabella di marcia presentata a maggio, Palazzo Berlaymont dovrebbe introdurre lo stop immediato a nuovi contratti con Mosca, mentre quelli a breve termine già in vigore dovranno essere interrotti a partire dal 2026 e quelli a lungo termine entro fine 2027.

L’esecutivo Ue è tornato ad assicurare che le imprese non incapperanno in conseguenze legali, potendo invocare la clausola di ‘forza maggiore’, come già avviene per le sanzioni. Per aggirare l’opposizione di Budapest e Bratislava, Bruxelles farà ricorso al diritto commerciale, che consente di adottare le misure a maggioranza qualificata anziché all’unanimità. Un escamotage che si accompagna all’offerta ai due Paesi di una deroga temporanea, consentendo loro l’importazione di gas russo fino alla fine del 2026. Servirà invece più tempo per la stretta Ue sul nucleare russo. “Dobbiamo essere certi di non mettere i Paesi in una situazione in cui venga meno la sicurezza dell’approvvigionamento”, ha sottolineato Jorgensen.

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