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Meloni-Erdogan focus migranti, una sponda sulla Libia

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Giorgia Meloni ottiene da Recep Tayyip Erdogan una sponda per limitare i flussi migratori dalla Libia, cercando di replicare gli sforzi condivisi che hanno frenato quelli sulla tratta Turchia-Italia. È la principale novità emersa dalle oltre due ore di incontro a Istanbul, in cui la premier ha ringraziato il presidente turco per gli sforzi di mediazione fra Ucraina e Russia, in particolare sull’accordo sul grano. Sull’altra grande crisi geopolitica, quella fra Israele e Hamas, c’è decisamente meno enfasi nel resoconto che filtra da fonti italiane, secondo cui la guerra a Gaza è rientrata nel confronto sui grandi temi globali, anche alla luce della presidenza del G7 appena passata sulle spalle del governo di Roma.

Si possono intuire sensibilità diverse su quel delicato dossier, che comunque è stato trattato e su cui Meloni tiene il punto sull’obiettivo dei due Stati. L’Italia sta cercando di muoversi con equilibrio nella polveriera mediorientale, mentre Erdogan da qualche tempo ha infiammato i suoi attacchi verso Israele. E non è forse casuale nemmeno che Anadolu, l’agenzia di Stato turca, a ridosso dell’incontro abbia rilanciato le parole pronunciate 24 ore prima dalla segretaria dem Elly Schlein sulla necessità di evitare di inviare armi a Israele. Comunque “le guerre che si combattono ai confini dell’Europa ci riguardano”, come ha avvertito il presidente Sergio Mattarella ricordando che “l’Europa, ha iscritto la parola pace nella sua identità” e richiamando “alla responsabilità i governanti”.

Le tensioni nel Mar Rosso sono l’ultima urgenza geopolitica entrata in modo dirompente nell’agenda anche dell’esecutivo italiano e di Meloni, che ha scelto la delicata missione a Istanbul per iniziare una serie di impegni internazionali (a inizio febbraio il prossimo in Giappone) nell’anno del G7. Nelle ore in cui Meloni atterra all’aeroporto Ataturk, le tv locali sono focalizzate sul primo astronauta turco a bordo della Stazione spaziale internazionale, nella missione di cui fa parte anche l’italiano Walter Villadei. La sua visita inizia dal Gran Bazar, il mercato più grande e antico di Istanbul, tappa obbligata per i turisti. Circondata dagli agenti di scorta, la premier riceve applausi da negozianti e curiosi presenti, scambia qualche battuta con chi la saluta in italiano, fra chi le offre un caffè turco e un kazandibi, un dolce tipico a base di pollo. Poi la riceve Erdogan al palazzo Vahdettin, una residenza presidenziale sulla sponda asiatica della città, battuta da un forte temporale. Fra il colloquio e la cena ufficiale (senza le consuete dichiarazioni finali alla stampa), in circa due ore e mezzo si affrontano le priorità condivise fra i due alleati Nato affacciati sul Mediterraneo.

A partire dall’instabilità della sponda sud del bacino. L’obiettivo è rafforzare la cooperazione migratoria che, notano fonti italiane, lo scorso anno ha portato a una riduzione del 56% dei flussi irregolari lungo il corridoio Italia-Turchia. Sarà sempre più stretta anche in relazione alla Libia (dove Ankara ha un effetto stabilizzante nonché, come Roma, forti interessi nel campo energetico), dove i rispettivi ministeri degli Esteri intendono concludere presto una intesa. Di sicurezza e sviluppo del continente africano si è parlato anche in vista del prossimo vertice Italia-Africa di Roma, con cui la premier punta a dare impulso al Piano Mattei.

Non si sarebbe andati oltre “uno scambio di idee” sulle relazioni fra Unione europea e Turchia, mentre è in fase di stallo il processo di adesione su cui Meloni, quando era all’opposizione, non mancò di manifestare dubbi. Sul tavolo anche le relazioni bilaterali. L’interscambio commerciale, spiegano fonti italiane, ha superato i 25 miliardi di euro e si avvicina all’obiettivo condiviso di almeno 30 miliardi nel 2030. Sono state esaminate anche le opportunità economiche per le aziende italiane, in particolare nel settore della Difesa, e quindi per Leonardo. I droni Astore potrebbero essere equipaggiati con missili leggeri o razzi guidati come il sistema Cirit della società turca Roketsan.

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Gli eredi di Lucio Battisti vincono in Cassazione: respinto il ricorso di Sony Music

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Dopo otto anni di contenzioso giudiziario, la Corte di Cassazione ha messo la parola fine alla lunga battaglia legale tra Sony Music e gli eredi di Lucio Battisti. Con l’ordinanza del 14 maggio, la Suprema Corte ha rigettato il ricorso della major discografica, che chiedeva un risarcimento di 7 milioni di euro accusando la famiglia del cantautore di aver impedito lo sfruttamento commerciale delle sue opere.

Una disputa iniziata nel 2017

Il nodo della controversia ruotava attorno alla decisione degli eredi — la vedova Grazia Letizia Veronese e il figlio Luca Battisti — di revocare il mandato alla SIAE, rendendo di fatto impossibile la diffusione in streaming e l’utilizzo pubblicitario delle canzoni di Lucio Battisti. Secondo Sony Music, questa scelta avrebbe bloccato la diffusione delle opere sulle piattaforme digitali come Spotify e impedito la sincronizzazione con importanti campagne pubblicitarie.

Ma i giudici hanno confermato quanto già stabilito nei due precedenti gradi di giudizio: i contratti firmati da Battisti oltre cinquant’anni fa non autorizzano lo sfruttamento delle registrazioni senza il consenso degli eredi o degli editori musicali. Oltre alla bocciatura del ricorso, Sony dovrà anche farsi carico delle spese legali.

Una sentenza che tutela gli autori

«Se fosse passata la linea della Sony — ha spiegato l’avvocato Veneziano, legale della famiglia Battisti — si sarebbe affermato un principio pericoloso: che a governare lo sfruttamento economico delle opere fossero i produttori, non gli autori». L’obiettivo della famiglia, ha aggiunto, è sempre stato quello di proteggere l’integrità e la memoria artistica di Lucio Battisti, senza comprometterne l’eredità con logiche esclusivamente commerciali.

Il precedente con Mogol e il rimpianto per l’arte

Non è la prima volta che l’universo di Lucio Battisti si ritrova in tribunale. Giulio Rapetti, in arte Mogol, storico autore dei testi di Battisti e cofondatore della casa discografica Acqua Azzurra, aveva avviato un’analoga causa contro la vedova e il figlio, ottenendo nel 2015 un risarcimento parziale di 2,6 milioni su 8 richiesti.

«Sono stato parzialmente pagato — ha commentato Mogol — ma ci ho comunque rimesso. E provo un grande dispiacere». Poi, un pensiero intimo: «Quando morirò, sono certo che troverò Lucio seduto su una seggiola con la chitarra in mano. Io lo abbraccerò e lui mi abbraccerà».

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Riccardo Muti: Salieri fu un gigante. E la musica in chiesa? Meglio Palestrina che le schitarrate

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Riccardo Muti, 83 anni e un amore incondizionato per la musica come patrimonio spirituale e culturale, torna a parlare al Corriere della Sera con una lunga intervista che è anche un manifesto. Per il Maestro, Antonio Salieri non solo non fu l’avvelenatore di Mozart, ma è una figura fondamentale nella storia della musica, oggi ingiustamente dimenticata dall’Italia. E da lui parte una nuova “chiamata” ai cori italiani per ridare dignità alla grande tradizione corale. Il tutto, con un pensiero a Papa Leone e una stroncatura alle “messe beat”.

Salieri, vittima della leggenda e del cinema

«Salieri? Un grandissimo. Solo che fu contemporaneo del più grande musicista che l’umanità abbia mai avuto: Wolfgang Amadeus Mozart», dice Muti. E liquida senza esitazioni le leggende sul veleno e sulla gelosia. «Dicerie nate a Vienna, passate per Puskin e finite nel film Amadeus di Milos Forman. Ma la verità è che Salieri aiutò la famiglia di Mozart, soprattutto uno dei figli che tentò, senza successo, la via della musica».

Secondo Muti, il compositore italiano fu un pedagogo immenso e un musicista spirituale e rigoroso, autore di quaranta opere e oltre cento composizioni sacre. «Riaprii la Scala nel 2004 con L’Europa riconosciuta, l’opera che Maria Teresa gli commissionò per l’inaugurazione del teatro milanese». Eppure, sottolinea, in Italia nessuna grande istituzione musicale ha ricordato i 200 anni dalla morte di Salieri. «Solo Legnago, la sua città natale, si è mossa. Ma l’indifferenza è grave. Per fortuna a Vienna è celebrato come merita».

“Mozart è la prova dell’esistenza di Dio”

Su Mozart, Muti non ha dubbi: «È la prova dell’esistenza di Dio. Chiunque sarebbe impallidito di fronte a lui». E anche Salieri, secondo il direttore, ne comprese la grandezza più di chiunque altro. Per questo Muti ha scelto di «riconciliarli» in un doppio concerto a Vienna, dirigendo opere di entrambi.

“Cantare è proprio di chi ama”: l’appello di Muti ai cori italiani

Dal grande repertorio classico alle passioni civili. Muti lancia un appello ai cori di tutta Italia sotto il motto agostiniano “Cantare amantis est”, «cantare è proprio di chi ama». «Il mio sogno è insegnare a cantare senza smorfie e senza languore. Il 1° giugno a Ravenna arriveranno tremila persone da tutta Italia, per cantare cori da Verdi: Nabucco, Lombardie Macbeth».

Musica sacra dimenticata: “In chiesa regnano strimpellatori e testi imbarazzanti”

Il Maestro non nasconde la sua delusione per la musica oggi presente nelle liturgie. «Con Benedetto XVI ci furono concerti in Vaticano. Oggi i concerti sacri sono spariti. E in chiesa regnano schitarrate e testi imbarazzanti. Non credo di essere l’unico fedele che preferirebbe ascoltare Palestrina, Monteverdi, Luca Marenzio o Gesualdo da Venosa». E lancia una riflessione amara: «I santi andavano incontro al martirio cantando, non strimpellando».

Papa Leone e il ritorno dello spirito

Su Papa Leone, Muti si dice fiducioso: «Mi piace moltissimo. Mi fa sperare in un ritorno alla spiritualità, alla grande musica sacra. È nato a Chicago, dove dirigo l’orchestra, e ha un nonno piemontese. Come sa, ‘Prevost’ in dialetto piemontese vuol dire prete. Ma non mi faccia dire altro… in Italia siamo passati da tutti virologi a tutti vaticanisti».

Un’intervista che è molto più di un bilancio. È il grido appassionato di un uomo che ha dedicato la vita a rendere sacro il suono, e che oggi sogna un’Italia più colta, più spirituale, più devota alla sua grande storia musicale.

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Francesca Pascale e Paola Turci, fine del matrimonio e lite sul cane Lupo: “Può portarlo via, ma non è mai venuta”

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Il matrimonio tra Paola Turci e Francesca Pascale, celebrato nel 2022, è finito nel 2024 nel massimo riserbo, come previsto da un accordo di riservatezza sottoscritto da entrambe. Ma oggi, a due anni dalla rottura, emergono dettagli che raccontano una separazione meno pacifica di quanto apparisse. Al centro di una contesa affettiva e legale, un cane di nome Lupo.

La vicenda è stata ricostruita da Selvaggia Lucarelli in un articolo pubblicato sul Fatto Quotidiano, con dichiarazioni dirette della stessa Pascale.

Lupo, simbolo di un legame interrotto

Lupo è un meticcio nero, adottato da Paola Turci prima di conoscere Pascale, ma trasferitosi con la coppia nella casa in Toscana insieme agli altri dieci cani dell’ex compagna di Silvio Berlusconi. Dopo la separazione, Lupo è rimasto a vivere con Pascale, sulla base di un accordo legale che prevedeva il diritto per Turci di visitarlo «quando voleva», ma senza entrare in casa, solo dal giardino.

Pascale, tuttavia, racconta che Turci non si sarebbe mai presentata: «La prima volta aveva un impegno, la seconda pure, la terza le ho detto “puoi venire, ma restando in giardino”. Non è venuta». Non solo: «A gennaio l’ho cercata tante volte, Lupo non stava bene e avevo bisogno della sua autorizzazione per una sedazione. Ma mi ha ignorata. Alla fine ho dovuto decidere da sola con il veterinario».

“Può portarlo via, quando vuole”

Nonostante le frizioni, Pascale tende la mano: «Se vuole, può vedere i cani tutti, e Lupo può portarlo via con sé. Io non ho mai voluto impedirlo». Anzi, Pascale sottolinea che l’interruzione dei contatti non è partita da lei e smentisce qualsiasi ostruzionismo.

Poi, la riflessione amara: «Sono in pace. Un mese fa ho parlato con Salvini per la prima volta, e con Renzi che mi corteggia un po’. Ma gli ho detto che preferisco Agnese», con riferimento alla moglie dell’ex premier.

Dudù, Arcore e ironia politica

Nel suo racconto, Pascale cita anche Dudù, il celebre cane di Silvio Berlusconi, oggi rimasto a Marta Fascina: «Sono disperata. La inviterò a C’è posta per te, assieme a Dudù e Peter, se viene». E aggiunge, ironicamente: «Lei (Fascina, ndr) non vuole uscire da Arcore. Quella casa dovrebbe diventare una fondazione, ma lei sta attaccata alle pareti».

Una confessione che, tra ironia e nostalgia, mette in luce una pagina dolceamara della sua vita, dove affetti umani e animali si intrecciano a visioni di futuro e qualche stoccata politica.

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