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Manovra, Conte: l’Europa è la casa degli italiani, possiamo fare ulteriori tagli alla spesa pubblica ma il Def non si tocca

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Come risponde il Governo italiano alla bocciatura della Commissione Ue? A questo punto, se l’Italia non si vorrà adeguare alla nuova richiesta di revisione, rischia di aprirsi una procedura per il debito che potrebbe a sua volta portare a sanzioni e in ogni caso a una stretta sorveglianza sulle finanze pubbliche. Sarebbe un corpo a corpo, uno scontro Italia / Ue che costituirebbe una vera e propria novità.

La prima notizia, quella più importante, è che nell’agenda del governo – si apprende – un cambio di orientamento sulla Manovra non c’è. La Manovra è quella, “gli unici che possono cambiarla sono i parlamentari” sostiene Matteo Salvini. Ancora più netto il giudizio di Di Maio.”È la prima manovra italiana che non piace alla Ue. Non mi meraviglio – scrive Di Maio su Twitter -, è la prima manovra italiana scritta a Roma e non a Bruxelles”.

Meno duro, un linguaggio più cauto, più diplomatico ma nella sostanza non diverso quello del premier Giuseppe Conte. “Non esiste alcun piano B. Ho detto che il deficit al 2,4% del Pil è il tetto. Questo sarà il nostro tetto. Siamo pronti forse a ridurre, ad operare una spending review, se necessario”, ha detto Conte, intervistato da Bloomberg Tv. Provando a tenere il punto – quando già si sapeva che Strasburgo avrebbe bocciato la Manovra – il presidente del Consiglio ha spiegato che avrebbe trovato inaccettabili modifiche sostanziali. Certo, non h fatto mancare le rassicurazioni sul ruolo dell’Italia in Europa.

“Dovete considerare che non siamo giocatori d’azzardo che scommettono sul futuro dei propri figli alla roulette. Questo esecutivo non accompagnerà l’Italia fuori dall’Europa. Ci sentiamo a casa in Europa e pensiamo che l’euro è e sarà la nostra valuta, la valuta di mio figlio che ha 11 anni e quella dei miei nipoti”. Ma nessun cedimento, per ora, sul tetto del 2,4: “Siamo pronti forse a ridurre, ad operare una spending review, se necessario”.

“Abbiamo previsto un budget di 15 miliardi di investimenti e non toglieremo un solo euro” ha affermato Matteo Salvini in missione lampo a Bucarest. E l’altolà della commissione Ue? “Alla Ue risponderemo cortesemente. Io – ha aggiunto il leader leghista – andrei ad incontrare anche domani Juncker, per spiegargli come l’Italia crescerà, ma nessuno toglierà un euro da questa manovra. Questo governo non arretra e non cadrà per lo spread. L’Unione europea non sta attacando un governo, ma un popolo”. Luigi Di Maio, da Roma, è stato altrettanto categorico: “La stima di crescita ci sarà e non vogliamo andare a rivedere i termini della manovra perché quella stima è esatta. Perché non ci sono troppe spese in questa legge di bilancio ci sono tanti tagli alle cose inutili”.

 All’attacco della manovra è andato il Pd: “Niente per i giovani, niente per le famiglie e i lavoratori. In compenso più debito che pesa sul futuro dell’Italia e il mega condono per i furbi. Hanno ragione i sindacati, questa manovra è tutta sbagliata e piegata alle logiche elettorali. Un danno per l’Italia #ladridifuturo” ha twittato il segretario del Pd, Maurizio Martina.

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Benzina vola sopra 1,7 euro con la fiammata petrolio

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La fiammata iniziale del petrolio per la guerra fra Iran e Israele spinge i prezzi della benzina a 1,7 euro al litro e quelli del gasolio a 1,6 euro. Eni ha aumentato di un centesimo i prezzi consigliati di benzina e gasolio, mentre per IP e Q8 i rialzi sono di due centesimi al litro sul gasolio. La rilevazione della Staffetta Quotidiana precede la brusca frenata delle quotazioni del greggio, in forte calo con le indiscrezioni sulla disponibilità di Teheran a trattare e il sollievo degli investitori per i mancati attacchi alle strutture energetiche e il normale funzionamento dello stretto di Hormuz. Al calo del petrolio si contrappone la volata delle borse, confortate dall’idea che il conflitto resterà probabilmente contenuto.

Le piazze finanziarie chiudono tutte positive, con Milano che avanza dell’1,24%. Sale decisa anche Wall Street con i listini che guadagnano oltre l’1% intravedendo un conflitto limitato e forse più breve delle attese. Mentre l’oro cala e si attende la Fed, che mercoledì annuncerà la sue decisioni di politica monetaria, il petrolio appare il più esposto alla crisi in Medio Oriente. Dopo essere arrivato a salire del 5,5% durante la seduta, il Brent non solo ha bruciato i guadagni ma è arrivato a perdere fino al 2,5%, restando comunque in rialzo del 4% da quando è iniziato il conflitto fra Iran e Israele.

Lo stesso trend si verifica per il Wti, che si è spinto fino a cedere al 3,69%. “Il mercato è rassicurato dal fatto che gli attacchi all’infrastruttura energetica sono limitati ai sistemi nazionali dei due paesi”, ha detto Homanyoun Falakshahi di Kpler con il Financial Times, osservando come Israele sembra più interessato a causare difficoltà logistiche all’Iran piuttosto che creare problemi sui mercati internazionali. La convinzione degli analisti è che ulteriori rialzi delle quotazioni sono possibili, ma non ci sarà una spirale al rialzo vista la debolezza dell’Iran e il tacito sostegno degli Stati Uniti a Israele.

A questo si aggiunge il fatto che nel corso negli anni il mercato petrolifero ha imparato a ‘gestire’ le crisi in Medio Oriente, anche se i rischi che quella in corso comporta non vanno ignorati. Se Israele dovesse colpire, volontariamente o per errore, gli impianti per l’export di greggio iraniani di Kharg, l’Iran – avvertono – non avrebbe molto da perdere nel chiudere o mettere a rischio la sicurezza dello stretto di Hormuz. Nonostante gli attacchi, i flussi petroliferi proseguono e anche lo stretto di Hormuz resta in attività. “Anche se c’è il timore che un conflitto più ampio possa chiudere lo stretto, noi riteniamo il rischio limitato visto che non è mai accaduto nella storia”, ha messo in evidenza JPMorgan.

A seguire con attenzione gli sviluppi sul mercato petrolifero sono gli Stati Uniti consapevoli che un balzo sostenuto delle quotazioni potrebbe far balzare l’inflazione, creando problemi all’agenda di Donald Trump e mettendo in ulteriore difficoltà la Fed. La banca centrale è attesa lasciare i tassi di interesse invariati alla prossima riunione nonostante le pressioni del presidente americano. L’attenzione è tutta puntata su Jerome Powell, che potrebbe fornire indicazioni sulle prossime mosse e soprattutto chiarire di cosa ha bisogno la Fed per tagliare i tassi.

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L’Ue punta ad un accordo con Trump sui dazi al 10%

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Von der Leyen

La Ue ha pronta un’offerta per un accordo sui dazi con gli Usa, ma tiene in serbo il suo ‘bazooka’ in caso di fallimento. La proposta è trapelata sui media a poche ore dall’atteso incontro tra la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen e Donald Trump, a margine del G7 canadese, dove il tycoon è sbarcato con un’ampia delegazione di governo, compreso il segretario al Tesoro Scott Bessent e il rappresentante per il Commercio Usa Jamieson Greer. Bruxelles, secondo il quotidiano economico tedesco Handelsblatt, è pronta ad accettare un dazio fisso del 10% su tutte le esportazioni dell’Unione Europea verso gli Stati Uniti nella speranza di evitare tariffe più elevate su automobili, farmaci ed elettronica.

Citando alti funzionari dell’Ue, il giornale precisa che l’offerta a Washington sarebbe stata fatta solo a determinate condizioni e non sarebbe permanente. Bruxelles, in cambio, sarebbe pronta a ridurre i dazi sui veicoli prodotti negli Stati Uniti e a modificare eventualmente gli ostacoli tecnici o legali per facilitare la vendita delle auto americane in Europa. L’Ue si è anche offerta di vietare completamente gli acquisti di gas naturale russo, creando potenzialmente una maggiore domanda per i produttori statunitensi di Gnl. “L’intenzione è costruire un pacchetto completo” così da permettere al presidente statunitense di presentarlo come “una vittoria politica significativa”, hanno spiegato le stesse fonti Ue.

Tra le ipotesi sul tavolo, anche la riduzione di oneri burocratici e regolamentari già prevista, come l’alleggerimento della direttiva sulla due diligence. La posizione di Bruxelles deriva in parte dalla consapevolezza che Trump farà affidamento su alcune entrate tariffarie per finanziare i maxi tagli fiscali previsti dal disegno di legge di spesa all’esame del Congresso. I negoziatori statunitensi, tuttavia, finora non hanno concordato di limitare i dazi all’importazione sulle auto Ue al 10%. “La presidente Ursula von der Leyen ha parlato con Donald Trump” e “hanno concordato di proseguire i lavori per raggiungere un’intesa sui dazi entro il 9 luglio”, si è limitato a dire un portavoce della Commissione europea.

Nessuna conferma, invece, sulla possibilità che Bruxelles accetti un’intesa con Washington basata su dazi fissi al 10%, né su eventuali nuovi incontri in programma questa settimana tra il commissario Ue per il Commercio, Maroš Šefčovič, e i negoziatori statunitensi. L’impegno a trovare una soluzione entro il 9 luglio è stato ribadito alla vigilia del G7 anche dalla stessa von der Leyen, la quale tuttavia ha avvisato che, nel caso il risultato non fosse soddisfacente, “saremo in grado di rispondere: tutti i mezzi sono sul tavolo”. Un riferimento al bazooka, ossia alle misure di ritorsione che l’Europa è pronta a far scattare fino a 120 miliardi di euro. Von der Leyen ha lanciato anche un altro messaggio alla vigilia del G7, auspicando che il gruppo dei Sette mandi un messaggio contro il protezionismo.

“Siamo così profondamente connessi – ha spiegato – che anche i rischi devono essere gestiti insieme. Perché i dazi, ad esempio, non hanno un impatto solo sugli esportatori. Sono come le tasse, pagate da famiglie e imprese nei Paesi importatori”. “Quindi – ha proseguito – manteniamo il commercio tra noi equo, prevedibile e aperto. Tutti noi dobbiamo evitare misure protezionistiche. Questo è un messaggio importante che il G7 può inviare ai mercati e al mondo. E restiamo concentrati, insieme, sulle sfide reali e strutturali che richiedono tutta la nostra attenzione”.

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L’Italia entra nel club del nucleare, sì all’alleanza Ue

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Da osservatore a membro effettivo e operativo. In poco più di due anni l’Italia ha superato il tabù sul ruolo del nucleare nella decarbonizzazione ed è entrata a pieno titolo nell’alleanza Ue guidata dalla Francia, che dal 2023 promuove a Bruxelles gli interessi dei Paesi pro-atomo nel continente. La scelta è arrivata dopo la decisione del governo “di presentare il disegno di legge per il ritorno alla produzione di energia nucleare”, ha sottolineato il ministro Gilberto Pichetto, suggellando il rinato interesse del Paese per la fonte prodotta da reattori di nuova generazione nell’intento di promuovere “con convinzione il principio della neutralità tecnologica” e seguire “una transizione energetica sostenibile che garantisca la resilienza del sistema energetico e favorisca imprese e famiglie”.

Una strategia è in piena sintonia con il piano Ue per la sicurezza energetica, lanciato per ridurre l’uso di combustibili fossili, puntare su fonti alternative e voltare pagina rispetto alla dipendenza energetica dalla Russia. L’Italia si è unita al fronte sempre più nutrito e ormai consolidato di cui fanno parte, oltre a Parigi, anche Belgio, Bulgaria, Croazia, Repubblica Ceca, Finlandia, Ungheria, Paesi Bassi, Polonia, Romania, Slovacchia, Slovenia, Svezia ed Estonia (quest’ultima come osservatore). E a cui, timidamente, si è affacciata – sempre nel ruolo di osservatore – anche la ministra tedesca Katherina Reiche, confermando un cambio di passo di Berlino sulle politiche energetiche e, in particolare, sul nucleare destinato a cambiare le carte in tavola. Per spingerlo, nelle stime di Bruxelles, saranno necessari investimenti pari a 241 miliardi di euro entro il 2050, destinati sia alla costruzione di nuovi reattori sia al prolungamento della vita degli impianti esistenti.

A dominare l’agenda dei ministri dell’Energia riuniti a Lussemburgo è stata la sicurezza energetica nel suo insieme. Con il nodo politico più complicato da sciogliere: lo stop agli ultimi legami con Mosca. Nelle prossime ore è attesa la proposta legislativa della Commissione europea per vietare tutti i contratti di fornitura di gas russo entro la fine del 2027, ma l’unanimità per dare impulso all’azione dell’esecutivo di Ursula von der Leyen è mancata anche questa volta. Ungheria e Slovacchia si sono infatti sfilate dalle conclusioni finali del Consiglio, costringendo la Polonia – presidente di turno Ue – a contare solo sul sostegno degli altri 25 Paesi membri. Ma i veti non rallentano l’azione del commissario Ue Dan Jorgensen. In linea con la tabella di marcia presentata a maggio, Palazzo Berlaymont dovrebbe introdurre lo stop immediato a nuovi contratti con Mosca, mentre quelli a breve termine già in vigore dovranno essere interrotti a partire dal 2026 e quelli a lungo termine entro fine 2027.

L’esecutivo Ue è tornato ad assicurare che le imprese non incapperanno in conseguenze legali, potendo invocare la clausola di ‘forza maggiore’, come già avviene per le sanzioni. Per aggirare l’opposizione di Budapest e Bratislava, Bruxelles farà ricorso al diritto commerciale, che consente di adottare le misure a maggioranza qualificata anziché all’unanimità. Un escamotage che si accompagna all’offerta ai due Paesi di una deroga temporanea, consentendo loro l’importazione di gas russo fino alla fine del 2026. Servirà invece più tempo per la stretta Ue sul nucleare russo. “Dobbiamo essere certi di non mettere i Paesi in una situazione in cui venga meno la sicurezza dell’approvvigionamento”, ha sottolineato Jorgensen.

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