Ogni giorno, ogni notte, senza conoscere giorni di festa e a volte neanche di riposo, da duecento anni i nostri Carabinieri ci difendono da ogni crimine. Essendo fatti di carne ed ossa, anche tra di loro ovviamente, così come tra tutte le categorie professionali, religiose e sociali del mondo intero, si nascondono miserabili che approfittando del ruolo ricoperto per delinquere o ricevere vantaggi personali a discapito di altri. Certo che quando a farlo sono coloro che a vario titolo dovrebbero proteggerci e garantire la Legalità, allora si fa fatica a metabolizzare la cosa perché tanto più è delicato il compito istituzionale affidato, tanto più bisogna essere rigorosi osservatori delle regole. Tuttavia non può sfuggire all’umana comprensione che per una piccola percentuale di esseri immondi non tutti possono essere infangati. Ma l’occasione è sempre ghiotta per gli odiatori a prescindere, che quando poi c’è da prendersela con le Forze dell’Ordine a dir poco si esaltano, e sguazzando nel loro sudicio mondo di fango si sentono così autorizzati a poter vomitare qualsiasi epiteto, che altro non è che l’estrinsecazione del loro profondo disagio personale e sociale. Però, per quanto la strumentalizzazione sia sempre riconoscibile ed i disadattati del mondo reale o social alla fine si rivelano per il nulla che sono, le parole comunque non solo restano, ma si diffondono ancor di più nel web e finiscono comunque per fare male, contribuendo persino a creare, nelle personalità più deboli, profonde diffidenze laddove dovrebbe esserci solo fiducia. Allora è doveroso creare anche una contrapposizione di sentimento a questi “leoni da tastiera” che sputano solo il veleno che scorre nel loro sangue. Perché in questa storia dallo squallore infinito, stonano persino le parole fuori luogo della madre di quello che appare essere il capobanda, che nell’istintivo tentativo di proteggere suo figlio a prescindere (e questo umanamente può essere anche compreso) tenta di giocarsi persino la carta del “razzismo”, essendo il suo giovanotto, finto ed indegno carabiniere, un “napoletano”, e per questo sarebbe stato ingiustamente accostato alle dinamiche di “Gomorra”.
La verità è che per colpa di pochi e pessimi Meridionali (come lui, se ci sarà conferma dei fatti che ad ogni modo già si rimarcano gravissimi) a pagare siamo sempre tutti noi, che il Sud lo amiamo e lo rispettiamo davvero, andando tutti i giorni a lavorare, sicuramente tra difficoltà maggiori di chi risiede al Centro o al Nord, e nei nostri limiti qui tentiamo di migliorare le cose. Chi invece in generale compie atti come quelli imputati a questipersonaggi, carabinieri solo sulla carta, non può neanche accennare alla “questione meridionale”, perché quella lì è una cosa seria e pertanto può essere pronunciata o tirata in ballo solo da chi ha rispetto per se stesso e per gli altri. Al di fuori di questo confine non si è più Carabinieri, non si è più Meridionali o Settentrionali, Italiani o Stranieri, si è solo delinquenti che meritano di pagare una giusta pena, e se ne facessero una ragione se vengono accostati ai “gomorroidi” e simili, dato che loro stessi sembravano di scimmiottare fino a ieri, attraverso le foto postate su facebook o instagramm dove si lanciavano in pose da finti duri da strada, sventolando soldi o riprendendo l’ultimo costosissimo oggetto del desiderio, comprato a quanto pare con i proventi delle estorsionio dello spaccio.
Noi ci auguriamo che se i Carabinieri di cui si parla in queste ore saranno confermati colpevoli – anche se ormai fonti autorevoli hanno comunque portato alla luce una situazione a dir poco abominevole – vengano subito radiati e carcerati, ovviamente garantendo loro tutto il diritto di difesa che gli spetta.
Perché noi italiani non meritiamo tutto questo e soprattutto non lo merita la Benemerita e quindi i suoi militari, di regola tutti assennati e ligi al dovere, che per uno stipendio non di certo adeguato alla loro competenza e alla mole di lavoro che sopportano, vanno a rischiare la vita ogni giorno, imprigionati da una burocrazia che rende quasi sempre impossibile svolgere le funzioni in modo spedito e perennemente oppressi dall’ombra di una delle tante ed assurde responsabilità oggettive in cui incorrono, loro malgrado.
Però il nostro Paese funziona in questo modo e così ti puoi ritrovare anche l’ultimo degli uomini che si permette di insultare questi eroi dei nostri giorni senza ricevere subito ciò che merita, perché la Giustizia è lenta come un elefante, anche se poi, una volta in moto riesce a fare cose pregevoli, così come nel caso delle indagini condotte dalla Guardia di Finanza che hanno portato alla luce proprio questa allucinante storia che, per quanto vergognosa, non ci farà tentennare un solo attimo dall’ammirare questi uomini e queste donne che vanno a fare il loro dovere con pochi mezzi ed incorrendo in tanti rischi, troppi, in molti casi costretti addirittura fino all’estremo sacrificio e lasciare i loro congiunti a piangerli per sempre, consolati solo dal ricordo e dalla consapevolezza del loro superiore esempio che noi cercheremo di non far dimenticare mai.
Messina, la Sicilia, la fatica, la gloria. Vincenzo Nibali si racconta al Corriere della Sera, tra ricordi di un’infanzia ribelle, il riscatto sulla bicicletta e la consapevolezza maturata solo dopo il ritiro. Un’intervista intensa, autentica, a cuore aperto.
Una giovinezza a rischio: «Compagni con la pistola nello zaino»
«Ero un carusu dannificu», dice Nibali, usando l’espressione siciliana per “bambino disastroso”. Uno che attirava guai: sassate alle vetrate, petardi nelle cassette postali, motorini lanciati contro i muri. Una giovinezza vissuta in un quartiere difficile di Messina, dove alcuni compagni portavano la pistola a scuola. Nessuna mafia organizzata, ma il pizzo sì: «Colpì anche la cartoleria dei miei genitori».
La salvezza arriva su due ruote: «Sempre in salita, come da Messina»
La svolta arriva con la bici, a 12 anni, grazie al padre e ai suoi amici cicloturisti. Le prime gare, l’ammiraglia della Cicli Molonia, il traghetto per Villa San Giovanni che diventava un passaggio simbolico verso il sogno. A 15 anni vince a Siena e non torna più: «Mai avuto nostalgia. I miei genitori mi dissero: se ti impongono cose sbagliate torna, qui avrai sempre un lavoro. Mi ha aiutato a non cedere al doping».
L’ascesa, la gloria, il peso della vittoria
Nibali è uno dei pochi ciclisti ad aver vinto tutti e tre i grandi Giri. Il Tour de France del 2014 è stato l’apice, ma anche l’inizio di un incubo: «Non potevamo camminare con la carrozzina di nostra figlia senza essere assaliti. Solo adesso che ho smesso, vivo davvero». E confessa: «Mai provato e mai pensato di doparmi. Ma ho pagato il sospetto solo perché vincevo ed ero italiano».
La caduta che fa crescere: l’Olimpiade sfumata
Nel 2016 era lanciato verso l’oro olimpico, ma cadde in curva. «Scelsi io di rischiare, e sbagliai. Nessuna scusa». Parla anche del secondo posto alla Liegi-Bastogne-Liegi, “scippato” da un dopato, ma senza rancore: «Non mi chiedo mai quanto ho perso per colpa del doping».
Il ritorno da turista: «Messina è ‘u megghiu postu nto munnu’»
Oggi Nibali è ambasciatore del Giro e padre presente. Ha visitato la Sicilia con le figlie per farla conoscere da turista: «Antonello da Messina, i templi di Agrigento, i boschi dei Peloritani… È il posto più bello del mondo». Un campione che, a distanza di anni, può guardarsi indietro con orgoglio: «A testa alta, sempre».
Nel quartiere elegante e silenzioso dei Parioli esplode una singolare guerra urbana, fatta di strisce gialle, rifiuti e cortili privati. Oggetto del contendere: un set di cassonetti della raccolta differenziata, misteriosamente spariti dalla carreggiata davanti alla villa dell’attore Sergio Castellitto.
I cassonetti finiscono nel cortile dell’attore
La miccia si accende nella notte tra il 20 e il 21 aprile. I bidoni che servivano i residenti della zona vengono spostati oltre il cancello della villa in cui vive Castellitto, allineati ordinatamente nel cortile. Una rimozione anomala che di fatto priva della raccolta l’intero isolato. Le strisce gialle, predisposte per accogliere i cassonetti, rimangono desolatamente vuote.
Secondo indiscrezioni, l’attore avrebbe più volte manifestato il suo malcontento per la presenza dei contenitori davanti all’ingresso della sua abitazione, considerandoli poco decorosi. I vicini, al contrario, li ritengono un servizio essenziale, invocandone semmai una manutenzione più frequente.
Denuncia in arrivo e reazione dei residenti
A seguito dell’episodio, il quartiere insorge. I residenti, costretti a girovagare per il quartiere con buste e cartoni, scattano foto e si interrogano sul destino dei contenitori. Tra loro anche il regista premio Oscar Paolo Sorrentino, recentemente trasferitosi nella zona.
Dopo poche ore, i cassonetti scompaiono anche dalla visuale del villino: né davanti al cancello né sul marciapiede. Ma non vengono ricollocati nella loro sede originaria. La vicenda, lungi dal concludersi, potrebbe ora avere conseguenze legali.
Ama pronta a sporgere denuncia
La municipalizzata dei rifiuti, Ama (foto Imagoeconomica), non intende lasciar cadere il caso. I vertici dell’azienda starebbero preparando una denuncia ai carabinieri per la scomparsa dei contenitori. Anche l’assessore al Verde del Municipio, Rosario Fabiano, si è attivato per fare luce sull’accaduto.
Il comitato Le Muse: “I cassonetti tornino al loro posto”
Dal comitato di zona Le Muse l’appello è chiaro: «Speriamo che quei cassonetti tornino al più presto al loro posto. Sarebbe grave se così non fosse. Si tratta di oggetti che appartengono alla collettività, ricordiamolo».
Intanto, nel quartiere ovattato dei Parioli, il decoro urbano si trasforma in una guerra di nervi, tra privacy e servizio pubblico, in attesa che si ristabilisca un fragile equilibrio tra rifiuti e rispetto.
Ha deciso di rivolgersi alla polizia postale la madre del 17enne condannato a 18 anni e 8 mesi per l’omicidio di Santo Romano, ucciso nella notte tra l’uno e il due novembre scorsi a San Sebastiano al Vesuvio. Lo fa per chiedere chiarezza su una vicenda che – a suo dire – rischia di danneggiare ulteriormente il figlio.
La denuncia: «Quei post non li ha scritti mio figlio»
«Mio figlio è detenuto ad Airola, non ha accesso ai social e non è stato mai segnalato per l’uso di telefoni cellulari in modo clandestino», spiega la donna, assistita dall’avvocato Luca Raviele. E chiarisce: «Non può essere lui l’autore dei messaggi comparsi in rete dopo la sentenza». Messaggi che – accompagnati da immagini del ragazzo risalenti a mesi fa – contengono frasi provocatorie e offensive, come: «Io 18 anni e 8 mesi me li faccio seduto su un cesso».
Una pioggia di messaggi offensivi
Quei post, circolati in modo virale sui social, hanno fatto riesplodere le tensioni tra i familiari delle due fazioni coinvolte nella tragica vicenda. E la madre del minore condannato prende le distanze: «Non c’entriamo nulla. Né io, né parenti o conoscenti abbiamo scritto o condiviso quei contenuti. Spero che la polizia postale indaghi per risalire ai veri responsabili».
La notte dell’omicidio: una lite per una scarpa sporca
Tutto è iniziato in piazza Capasso, cuore della movida di San Sebastiano. Un banale litigio per una scarpa pestata ha innescato lo scontro tra due gruppi di ragazzi. Dopo un primo alterco, la situazione sembrava rientrata, ma secondo quanto ricostruito dagli inquirenti – anche grazie a un video – Santo Romano sarebbe tornato indietro rivolgendosi all’auto dove si trovava L.D.M. Un gesto, forse un lancio, e poi il dramma: due colpi di pistola al petto, esplosi dal 17enne. Santo muore sul colpo.
Un processo doloroso e una sentenza pesante
Martedì scorso è arrivata la condanna in primo grado: 18 anni e 8 mesi di reclusione per omicidio, tentato omicidio e detenzione di arma da fuoco. L’indagine è stata condotta dal pm Ettore La Ragione della Procura per i Minori. Una sentenza che ha alimentato il dolore dei familiari di Santo Romano, un ragazzo di 19 anni, portiere di una squadra di calcio, noto nel suo gruppo per essere sempre un paciere.
Il timore di nuove tensioni
I post emersi nelle ultime ore rischiano di avvelenare ulteriormente il clima. «Non voglio neanche ripetere il contenuto di certi messaggi – spiega la madre del ragazzo – sono offensivi, gratuiti, e danneggiano mio figlio. Non possiamo permettere che a una tragedia come questa si aggiungano nuove ingiustizie». Per questo è stata sporta una formale denuncia contro ignoti: sarà ora compito degli investigatori della polizia postale stabilire chi si nasconde dietro quegli account.