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Economia

L’Italia ha consegnato in mano agli arabi Frecce Tricolori, aerei di Stato, sviluppo di un drone pilotato da remoto utile per la guerra al terrorismo, 1300 posti di lavoro e…

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Piaggio Aerospace è una delle più antiche (nasce a fine ‘800) e famose aziende aeronautiche italiane. L’azienda produce e manutiene velivoli e sta sperimentando tecnologia militare importante, come un drone che rappresenta un unicum nel suo settore. La prima cosa assurda è che questa azienda è nelle mani di un fondo arabo. Quello che sta accadendo in questa azienda e il modo in cui viene messo a repentaglio il lavoro di centinaia di italiani, gli interessi nazionali in campo militare meritano attenzione e un racconto onesto. Perchè Piaggio come tante altre aziende importanti in questi anni hanno usufruito di decine di milioni di euro da Governo e regioni dove hanno siti produttivi per fare ricerca, sviluppo e mantenere i livelli occupazionali con  accordi di programma o altre deliberazioni. La Piaggio dà lavoro a circa 1.300 persone ripartite tra la sede storica di Genova e il nuovo stabilimento di Villanova d’Albenga (Savona), inaugurato il 7 novembre 2014 dall’allora Presidente del Consiglio Matteo Renzi.

La società è attiva in tre settori del mercato aeronautico: la Business Aviation, i motori e, da pochi anni, la Difesa e Sicurezza. Avete letto bene, la Piaggio Aerospace, in mano ad un fondo Arabo, gestisce programmi militari italiani. Per farvi capire quanto è strategico l’operato di questa aziende passiamo in rassegna il lavoro, le forniture e i rapporti che ha con le forze e i corpi armati dello Stato italiano. Sulla business Aviation, diciamo subito che Piaggio è presente nel segmento attraverso le varie versioni del suo famoso velivolo P.180. La flotta totale annovera oltre 270 aerei, la maggior parte dei quali opera negli Stati Uniti. Altri 36 di questi velivoli sono nella disponibilità di tutte le forze di polizia italiana, Marina, Aeronautica, Esercito e Vigili del Fuoco. In molti casi vengono usati come aerei di rappresentanza che scorrazzano da un posto all’altro alti ufficiali o anche politici. Non sempre con procedure regolari.

Nel campo dei motori aeronautici l’attività di Piaggio comprende sia la manutenzione sia la produzione di parti di motori per conto dei gradi gruppi mondiali di motoristica, in particolare Rolls Royce e Pratt & Withney. Piaggio partecipa anche ad alcuni programmi internazionali, frutto di accordi bilaterali tra Governi: fornisce per esempio un pacchetto di importanti componenti per il motore del nuovo caccia americano F135-JSF. Il famoso o famigerato Eurofighter.  Difesa e Sicurezza: prodotto di punta è l’aereo a pilotaggio remoto, o drone, P.1HH. Si tratta forse (da quel che si sa) del solo sistema europeo attualmente presente in questo segmento di mercato, che per l’industria aeronautica nel suo complesso è quello destinato a una maggiore crescita nel corso del prossimo decennio. Suoi soli concorrenti sono un velivolo americano e uno israeliano. Rispetto a loro, il P.1HH presenta molti vantaggi competitivi (come durata del tempo di volo in autonomia, possibilità di sorvolare anche aree abitate, flessibilità che lo rende adatto sia ad applicazioni civili sia ad applicazioni militari). Potete immaginare la felicità degli americani e degli israeliani nel sapere che questo P1HH venga sviluppato in Italia ma da azienda araba che detiene la maggioranza e gestisce da anni la Piaggio Aerospace.

L’aereo è attualmente in fase di avanzato sviluppo, quella dei voli sperimentali che precedono la sua certificazione. Tale attività, finora svolta presso la base di Trapani dell’Aeronautica Militare Italiana, era previsto fosse trasferita in tempi brevi (fine 2016) e in maniera permanente a Grazzanise, in provincia di Caserta, in una delle basi più antiche dell’Aeronautica. Il che avrebbe comportato una valorizzazione di questa ex base aerea e aeroporto militare, oggi in sostanza all’abbandono, e generato nuovi impieghi qualificati nella Terra dei Fuochi. Siamo in zona di sversamento di rifiuti tossici e dove la faceva da padrone il clan dei Casalesi.

Ma tutto fallì perchè al Sud è difficile proporre e fare investimenti da sempre. Gli arabi che dal 2006 han fatto il suo ingresso nel capitale di Piaggio, la Mubadala Development Company, hanno sempre pensato a capitalizzare piuttosto che ad investire. La Mubadala Development Company è posseduta dal Governo degli Emirati Arabi Uniti, ed ha un patrimonio di oltre 67 miliardi di dollari. E’ uno dei principali Fondi Sovrani del mondo.  La motivazione principale che ha spinto Mubadala ad accedere al capitale dell’azienda ligure è stata proprio la prospettiva di poter sviluppare un drone di nuova generazione e renderlo disponibile in tempi relativamente brevi alle Forze Armate del suo Paese.

La scalata del Fondo Sovrano è iniziata con una quota del 35%, che è aumentata al 41% nel 2013 e al 98,05% nel 2014. Nel settembre 2015 infine Mubadala ha ottenuto la totalità del pacchetto azionario, acquisendo l’ultima quota di minoranza da Piero Ferrari (figlio di Enzo). Oggi è quindi il solo azionista di Piaggio. Come dicevamo in pratica in una azienda di interesse strategico nazionale dove vengono sviluppati anche programmi militari (vedi il drone) il capitale è interamente straniero e il management è straniero, in caso di specie emiratino.

Le relazioni tra Piaggio e le istituzioni italiane sono strette per tre ordini di ragioni. Sono molte le forze armate e agenzie governative che possiedono e operano velivoli P.180: Aeronautica, Esercito, Marina, Carabinieri, Polizia di Stato, Corpo Forestale, ENAV, Guardia Costiera, Guardia di Finanza e Vigili del Fuoco. Di tutti questi aerei Piaggio deve garantire manutenzione costante e aggiornamenti in tempi brevi.

L’azienda inoltre è responsabile della manutenzione di molti motori della flotta della nostra Aeronautica, in particolare i VIPER di Rolls Royce, installati sugli aerei delle Frecce Tricolori.

Infine, il drone P.1HH è considerato un prodotto strategico per il patrimonio tecnologico e la sicurezza nazionali. Con un aereo del genere gestito da remoto è possibile controllare tutto il fianco sud del mediterraneo sia per il dramma migranti, sia per questioni di sicurezza legate al terrorismo e dunque a commerci di armi sulle coste africane con gli emissari di Daesh o altre organizzazioni terroristiche.

Dall’ingresso di Mubadala nel capitale in poi, Piaggio ha sperimentato un degrado progressivo dei suoi risultati economici, toccando il fondo a fine 2015 – 2016. 

In sintesi, i dati principali sono questi: 

•Il fatturato a fine 2015 è stato di 182 milioni di euro (rispetto una previsione di 333 milioni);

•La cassa è andata in negativo per oltre 140 milioni (ammanco che oggi si stima a oltre 190 milioni);

•Il patrimonio netto totale è andato anch’esso in negativo per oltre 50 milioni, perché, accanto agli asset, include perdite totali per oltre 450 milioni (quelle maturate di recente e quelle ereditate dal  passato);

•L’azienda ha contratto debiti importanti con tutti i propri fornitori, stimati a 70 milioni di euro a fine  2015.
In sostanza, Piaggio è “in una situazione di perdurante insolvenza e non è più in grado di soddisfare regolarmente le proprie obbligazioni” (art. 5 della Legge Fallimentare italiana). Inoltre le sue perdite complessive superano di gran lungo un terzo del capitale. Ne consegue che l’impresa è nell’obbligo di presentare provvedimenti urgenti per sanare la situazione o, in caso contrario, dichiarare fallimento. Fallimento che poteva anche essere richiesto, in qualunque momento, da uno dei suoi fornitori o da un Pubblico Ministero. Ora è stata la stessa società a chiedere l’amministrazione controllata.  Siamo nel 2018. Ora tocca a questo Governo, in carica da pochi mesi, mettere mano al dossier Piaggio Aerospace. Un dossier esplosivo. Come sa fin troppo bene anche il futuro segretario del Pd, Marco Minniti.

Piaggio Aerospace, la società leader nel settore aeronautico dice “siamo insolventi” e rischiano il fallimento, il Governo: troveremo una soluzione positiva per i lavoratori

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L’occupazione cresce, ma l’Italia resta ultima in Ue

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Il tasso di occupazione tra i 15 e i 64 anni in Italia nel quarto trimestre cala di 0,1 punti sul terzo trimestre e aumenta di 0,2 punti sullo stesso periodo del 2023 fissandosi al 62,2%. Ma, nonostante la crescita tendenziale, cresce il gap con la media Ue che si attesta a 8,7 punti dagli 8,6 del quarto trimestre 2023. Il passo indietro riguarda soprattutto per il lavoro femminile. La fotografia, che vede l’Italia fare progressi sul fronte del lavoro chè però non riescono a colmare il divario rispetto agli altri Paesi, è quella delle tabelle Eurostat appena pubblicate secondo le quali l’Italia si conferma ultima tra i 27 per tasso di occupazione.

Il divario per le donne è ancora più ampio con il tasso di occupazione che nell’ultimo trimestre del 2024 era al 53,1% in Italia e al 66,3% e nell’Ue a 27. In media si tratta di un gap di 13,2 punti, che sale rispetto ai 12,8 del quarto trimestre 2023. Appena meglio dell’Italia fa la Romania con il 54,9% ma se si guarda altri Paesi, come la Germania, il confronto appare ancora più penalizzate visto che è occupato il 74,2% delle donne in età da lavoro. In Italia esiste quindi un “esercito di riserva” di donne che però deve fare i conti con la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro e le difficoltà nelle strutture di sostegno alla famiglia come i nidi, la scuola a tempo pieno, oltre ad aiuti per la cura degli anziani in un Paese nel quale il peso dell’impegno tra generi nel ‘welfare familiare’ è ancora molto sbilanciato.

Questo ha impatto anche sul lavoro. Mentre per le donne il divario con l’Ue è aumentato per gli uomini in età da lavoro la distanza nel tasso di occupazione con l’Europa si è invece ridotta a 4,1 punti dai 4,3 del quarto trimestre 2023. Nel quarto trimestre 2024 infatti lavorava in Italia il 71,3% degli uomini tra i 15 e i 64 anni a fronte del 75,4% nell’ Ue a 27. La distanza è ancora minore nella fascia degli uomini tra i 25 e i 54 anni, coorte centrale della popolazione in età da lavoro, ormai uscita dal percorso di formazione e non ancora in età da pensione neanche anticipata, con l’87,5% al lavoro in Ue e l’84,4% in Italia. Anche l’occupazione giovanile rimane un punto dolente per l’Italia.

Il divario resta forte con l’Europa. Tra i 15 e i 24 anni l’occupazione complessiva è al 19,2% in Italia ma si confronta con il 34,8% europeo. Il fossato che divide i giovani italiani da quelle europei è di 15,6 punti ed è cresciuto visto che nel solo quarto trimestre 2024 i dati italiani mostrano un peggioramento di un punto se si confrontano a quelli dello stesso periodo dell’anno precedente. Il divario è sempre a due cifre ma appena meno penalizzante per i giovani di sesso maschile: tra i 15 e i 24 anni l’occupazione è al 23,6% in Italia con 13,3 punti in meno rispetto all’Ue che si attesta al 36,9%. Guardando alle diverse fasce d’età, in quella centrale l’Italia arranca per l’occupazione femminile: lavora il 64,6% delle donne tra i 25 e i 54 anni a fronte del 77,8% medio in Ue. Per le donne, poi, il tasso è di quasi 20 punti inferiore a quello degli uomini nel nostro Paese nella stessa fascia di età (84,4%) mentre era di 19,1 punti un anno fa.

Il gap tra i sessi è aumentato. Il divario, in questa fascia, è invece di 13.2 punti rispetto al 77,8% dell’Ue. La differenza diminuisce per le più anziane, tra i 55 e i 64 anni (10,6 punti di differenza tra il 49,2% dell’Italia e il 59,8% dell’Ue) e cresce tra le giovani di 15-24 anni (18 punti il 32,5% medio in Ue e il 14,5% in Italia). Se si considerano i sessi, il divario rimane anche se si guarda al tasso di occupazione complessivo, tra i 15 e i 64 anni: la percentuali di uomini e donne al lavoro è del 62,2% ma anche in questo è frutto di una media alla Trilussa con gli uomini al 71,3% e le donne al 53,1% con un divario di genere che sale a 18,2 punti dai 17,7 dell’ultimo trimestre 2023. La lettura dei dati è comunque opposta tra i partiti. Se il responsabile lavoro del Pd Arturo Scotto parla di una “certificazione del fallimento delle politiche del governo Meloni”, il senatore dei Fratelli d’Italia Ignazio Zullo rivendica “Il primato del governo Meloni di oltre un milione di persone tornate al lavoro”.

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Assogestioni lavora a lista Generali, incerto deposito

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Assogestioni sta preparando una lista di candidati per il rinnovo del cda di Generali, che in prospettiva può essere l’ago della bilancia per l’esito dell’assemblea del 24 aprile. Ma non ha ancora ufficialmente deciso se presentarla. Per sciogliere il nodo è stato riaggiornato a lunedì prossimo il Comitato dei gestori che si tenuto in giornata in una riunione dal carattere interlocutorio. I tempi tuttavia stringono dato che il termine per il deposito delle liste è infatti il 29 marzo, 25 giorni prima della data della prima convocazione (23 aprile) dell’assemblea a Trieste. Lunedì quindi è probabile una decisione e l’orientamento sarebbe quello di presentare la lista anche se non si è ancora trovata una quadra tra interesse contrapposti che vanno da Mediobanca ad Anima.

A mediare ci sarebbero i maggiori gestori italiani rappresentati in Assogestioni, il gruppo Intesa Sanpaolo e Poste, mentre il coordinatore del Comitato, Emilio Franco (Mediobanca) avrebbe lasciato loro spazio. Pesa il confronto in atto fra i maggiori soci di Generali. Da una parte Mediobanca, pronta a presentare una lista di maggioranza dove candidare l’attuale ceo Philippe Donnet, dall’altra Francesco Gaetano Caltagirone, sostenuto da Delfin, che prepara una lista fino a 6 nomi. A rendere delicata la discesa in campo della lista di Assogestioni contribuisce il fatto che su quest’ultima potrebbe confluire il voto di Unicredit, ed diventare decisiva per l’esito del voto assembleare e poi per gli equilibri all’interno del nuovo cda. Con il rischio anche di ingovernabilità.

L’organo dell’associazione – composto dai rappresentanti delle Sgr e dagli investitori istituzionali con il compito di scegliere i candidati per l’elezione e la cooptazione di amministratori e sindaci di minoranza nella società italiane quotate in Borsa – deve in prima battuta scegliere i nomi che saranno verosimilmente 3 come nell’ultima assemblea di Generali, quando Assogestioni non aveva raccolto abbastanza voti per avere un rappresentante in consiglio. Allora c’erano in campo la lista del cda uscente sostenuta da Mediobanca e quella antagonista, sempre di maggioranza, messa in campo dal gruppo Caltagirone e da Delfin degli eredi di Leonardo Del Vecchio. Senza Unicredit come socio di peso.

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Terna, piano da 23 miliardi d’investimenti in 10 anni

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Ventitre miliardi di euro di investimenti nella rete elettrica in dieci anni per integrare al meglio le fonti rinnovabili e aumentare la capacità di trasporto. Il Piano di sviluppo 2025-2034 di Terna prevede un aumento delle risorse del 10% rispetto al piano precedente per rispondere “alle urgenti necessità” imposte dal contesto attuale, come ha detto l’amministratrice delegata e direttrice generale, Giuseppina Di Foggia (foto Imagoeconomica in evidenza).

“Le richieste di connessione di impianti rinnovabili, di sistemi di accumulo e, sempre più negli ultimi mesi, di Data Center, sono in costante aumento”, ha osservato Di Foggia evidenziando come le domande per data center siano cresciute di sei volte nel 2024 rispetto all’anno precedente e di oltre 20 dal 2021. Sono richieste che nel breve e nel medio termine, l’a.d. è “molto sicura” di poter sostenere. La società, al tempo stesso, ha adottato un nuovo processo di programmazione territoriale delle infrastrutture per fare fronte al rischio di saturazione virtuale della rete da parte di domande per impianti che non vengono realizzati. Una misura in tal senso è allo studio anche del governo.

DA DX IGOR DI BIASIO, PRESIDENTE TERNA; GILBERTO PICHETTO FRATIN, MINISTRO DELL’AMBIENTE; GIUSEPPINA DI FOGGIA AD E DG TERNA; STEFANO BESSEGHINI PRESIDENTE ARERA (FOTO IMAGOECONOMICA)

Pichetto ha detto di puntare a definire, nei prossimi giorni, “un meccanismo affinché o gli impianti rinnovabili si fanno o la procedura decade” e ha spiegato come al momento la rete sia satura fittiziamente per le richieste di impianti che, dopo 3, 4 o 5 anni, magari non vengono realizzati. Anche il presidente dell’Autorità dell’energia (Arera), Stefano Besseghini, ha sottolineato la necessità di capire “la credibilità di 350 GigaWatt di richieste di connessione alla rete” per impianti rinnovabili. Questi numeri, secondo l’analisi di Terna, superano ampiamente il fabbisogno e gli obiettivi nazionali.

Nel piano della società, 6 miliardi sono destinati a completare, entro il 2030, tre infrastrutture determinanti per la transizione: il Tyrrhenian link, che unirà la Sicilia alla Campania e alla Sardegna, l’Adriatic link tra Abruzzo e Marche, il collegamento tra Sardegna, Corsica e Toscana. Per quell’anno sarà completato inoltre il ponte energetico Italia-Tunisia, nell’ambito del piano Mattei. Di Foggia ha dato appuntamento alla stampa tra maggio e giugno per il completamento della posa del cavo sottomarino del Tyrrhenian link da Termini Imerese a Battipaglia. “Il piano di sviluppo migliora il Paese”, ha detto il presidente di Terna Igor De Biasio “riusciamo a essere abilitatori verso la transizione energetica e verso la decarbonizzazione, anche unendo, connettendo e integrando i territori”.

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