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La tassa sui carburanti che ha infiammato la Francia, ancora scontri a Parigi

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L’aumento delle tasse sui carburanti annunciato dal governo, con un aggiornamento al rialzo della carbon tax nel 2019 e un allineamento graduale delle tasse sul gasolio su quelle della benzina, hanno acceso la miccia della protesta dei gilet gialli in Francia. Il ‘contributo clima-energia’, denominazione della carbon tax, che si applica dal 2014 sulle emissioni di diossido di carbonio, passerà da 44,6 euro a 55 euro alla tonnellata di Co2 emessa a partire dal primo gennaio prossimo. Nel 2020 arrivera’ a 65 euro, poi a 84 euro nel 2022. Sul prezzo alla pompa di benzina, il costo è particolarmente penalizzante per i motori diesel che – con programmi diversi da comune a comune – dovranno scomparire dal parco auto entro cinque-sei anni. La ‘tassa interna di consumo sui prodotti energetici’, lo strumento fiscale per tassare concretamente il carburante in Francia, ha un livello minimo stabilito da una direttiva europea del 2003, ma la Francia si situa decisamente al di sopra della media europea, precisamente al quarto posto fra i paesi che tassano di più il carburante, dopo Olanda, Italia e Grecia. La protesta dei gilet gialli – nata da famiglie e lavoratori ‘espulsi’ dai centri metropolitani per il reddito troppo basso – si è concentrata all’inizio sull’incidenza della tassa sul pieno di gasolio per le vetture diesel. Successivamente, le parole d’ordine del movimento si sono moltiplicate, dalla battaglia per il potere d’acquisto a quella dell’esasperazione fiscale, dall’accusa al governo di dare “la caccia agli automobilisti” a quella, generale, di “dimissioni di Macron”. Senza leader nè portavoce, il movimento è però molto coordinato via social. Sulla pagina Facebook di ‘Nous Gilets Jaunes’, che è seguita da 22.000 persone ma non si sa da chi sia curata, compare una lista di 7 rivendicazioni: al primo posto la “soppressione totale della tassa sui carburanti”, poi la “riduzione all’1% dell’Iva sui prodotti alimentari”, il tetto a 10 euro per le multe, la soppressione del limite di velocità, il taglio degli stipendi dei politici, il taglio della spesa pubblica e pensioni per tutti a 2.000 euro.

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Hamas: a Gaza esecuzioni sommarie dei medici a marzo

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La Protezione civile di Gaza gestita da Hamas ha accusato oggi l’esercito israeliano (Idf) di aver compiuto “esecuzioni sommarie” durante la sparatoria del 23 marzo scorso in cui sono morti 15 medici palestinesi nella Striscia. La posizione delle autorità di Gaza è in netto contrasto con le conclusioni del rapporto dell’Idf sulle uccisioni pubblicato ieri. “Il video girato da uno dei paramedici dimostra che la narrazione dell’occupazione israeliana è falsa e dimostra che sono state effettuate esecuzioni sommarie”, ha detto all’Afp un funzionario della Protezione civile, Mohammed Al-Moughair.

Il funzionario palestinese ha inoltre accusato Israele di cercare di “aggirare” i propri obblighi imposti dal diritto internazionale. Il 23 marzo, pochi giorni dopo la ripresa dell’offensiva nella Striscia di Gaza, le truppe dell’Idf hanno aperto il fuoco sulle squadre della Protezione civile e della Mezzaluna Rossa a Rafah, nel sud del territorio palestinese. Israele afferma che sei membri di Hamas erano a bordo delle ambulanze colpite. Tuttavia, un’indagine militare interna, i cui risultati sono stati resi pubblici ieri dall’esercito israeliano, ha riscontrato una “cattiva condotta professionale”, “disobbedienza” e “incomprensioni” tra i soldati israeliani in relazione alla sparatoria. Inoltre, l’esercito ha annunciato ieri l’imminente licenziamento di un ufficiale che quel giorno comandava le truppe sul campo e si è “rammaricato” per le vittime collaterali.

“E’ stato un errore, ma non pensiamo che sia un errore che capita tutti i giorni”, ha affermato il generale (di riserva) Yoav Har-Even, responsabile delle indagini, durante una conferenza stampa. Le vittime erano otto membri della Mezzaluna Rossa, sei membri della Protezione civile di Gaza e un membro dell’UNRWA, l’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati palestinesi. I corpi sono stati ritrovati diversi giorni dopo la sparatoria, sepolti nella sabbia, in quella che l’Ufficio delle Nazioni Unite per gli affari umanitari (Ocha) ha descritto come una “fossa comune”. La Mezzaluna Rossa palestinese ha bollato come “pieno di bugie” il rapporto dell’esercito israeliano.

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Appena finita la tregua di Pasqua, la Russia lancia un massiccio attacco su tutta l’Ucraina

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Allerta aerea in tutto il Paese: droni, missili e raid su Kiev e altre città

Non appena terminata la tregua pasquale, l’esercito russo ha scatenato un pesante attacco aereo, missilistico e con droni su vasta scala contro l’Ucraina invasa. L’Aeronautica Militare ucraina ha diramato lo stato di allerta aerea in numerose regioni, segnalando la presenza di droni d’attacco russi diretti verso obiettivi civili e strategici.

Kiev sotto assedio, contraerea in azione

Secondo quanto riferito su Telegram, l’allarme è scattato anche sulla capitale Kiev, dove numerosi droni russi sono stati rilevati in avvicinamento. L’offensiva coinvolge diverse città da nord a sud: da Sumy a Chernihiv, da Dnipropetrovsk a Cherkasy, spingendo le autorità a invitare la popolazione a rifugiarsi nei bunker. La contraerea ucraina è attiva per intercettare gli obiettivi in volo.

Droni su tutto il territorio, massima allerta civile

I droni sono stati avvistati in:

  • regione orientale di Chernihiv, direzione sud-ovest verso Kiev

  • regione di Sumy, direzione Poltava

  • da Luhansk a Kharkiv, direzione ovest

  • nord-est di Zaporizhia, direzione nord-ovest verso Dnipropetrovsk

La manovra offensiva mostra una ripresa violenta delle ostilità da parte russa proprio all’indomani delle festività religiose, in un chiaro segnale di escalation.

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Sotto Hamas esodo dei cristiani discriminati nei territori palestinesi, studio israeliano

Il Jerusalem Center denuncia un calo fino al 90% della popolazione cristiana a Gaza e in Cisgiordania. Denunciate discriminazioni, violenze e conversioni forzate.

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Secondo un rapporto del Jerusalem Center for Security and Foreign Affairs, pubblicato dal Jerusalem Post, la popolazione cristiana nei territori sotto il controllo di Hamas e dell’Autorità Palestinese sarebbe crollata fino al 90% rispetto al secolo scorso. Lo studio, firmato da Maurice Hirsch e Tirza Shorr, parla di un vero e proprio esodo demografico, causato da violenza, coercizione, discriminazione legale e sociale.

Dall’11% all’1%: la drastica riduzione dei cristiani in Palestina

Nel 1922, i cristiani rappresentavano circa l’11% della popolazione nei territori del Mandato britannico sulla Palestina. Oggi, nelle zone sotto il controllo dell’Autorità Palestinese, non superano l’1%. Un calo che, secondo i ricercatori, riguarda anche aree simbolo della cristianità come Betlemme, dove la popolazione cristiana è passata dall’86% del 1950 a circa il 10% nel 2017, e ulteriormente calata negli anni successivi.

Gaza: meno di mille cristiani nel 2023

Il rapporto evidenzia un dato allarmante: a Gaza, la presenza cristiana è scesa da 4.200 persone a meno di 1.000 dopo la presa del potere da parte di Hamas. Tra le cause, si citano profanazioni di luoghi sacri, esclusione sociale, intimidazioni e persino conversioni forzate.

Conversioni forzate e timore di ritorsioni

Il documento riporta anche le denunce dell’arcivescovo di Gaza, Alexios, secondo cui alcuni cristiani si sarebbero convertiti all’islam sotto minaccia e violenza. Le testimonianze raccolte parlano di molestie contro ragazze e donne, di pressioni sui sacerdoti e di uso della forza da parte di clan musulmani per risolvere controversie, spesso nel silenzio totale a causa del timore di ritorsioni e della scarsa applicazione della legge.

L’appello: “Il silenzio rafforza i colpevoli”

Maurice Hirsch, uno degli autori del report, sottolinea:
“La sopravvivenza del cristianesimo nel suo luogo di nascita dipende dalla consapevolezza e dall’azione concreta. Il silenzio rafforza i responsabili e lascia le vittime senza alcun sostegno”.

Il documento si chiude con un monito:
“È inaccettabile che nel 2025 i cristiani temano di denunciare episodi di odio per paura di essere arrestati o peggio”.

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