In soli tre mesi i casi sospetti di colera registrati a Hodeidah, l’area yemenita colpita dalla drammatica escalation dei combattimenti tra gli Houthi e le forze appoggiate dalla Coalizione guidata da Arabia Saudita e Emirati Arabi Uniti, sono quasi triplicati, passando dai quasi 497 casi di giugno ai 1.342 di agosto. La denuncia è di Save the Children che sottolinea il rischio di una catastrofe umanitaria se gli scontri attorno al porto di Hodeidah dovessero estendersi anche alle aree più popolose della città o se questa dovesse finire sotto assedio.
Guerra civile in Yemen. Molti i bambini che muoiono sotto le bombe e per il colera
I dati registrati nel distretto di Hodeidah, sottolinea Save the Children – l’Organizzazione internazionale che dal 1919 lotta per salvare la vita dei bambini e garantire loro un futuro – sono in linea con un generale incremento dei casi sospetti di colera in tutto lo Yemen, il 30 per cento dei quali riguarda bambini sotto i cinque anni di età. Nel distretto di Hodeidah, attualmente, vivono quasi 100.000 bambini gravemente malnutriti, più di un quarto del totale di minori in tali condizioni in tutto il Paese, per i quali molto più alto è il rischio di contrarre malattie come il colera che possono rivelarsi letali per la loro vita. A partire da giugno, peraltro, più della metà della popolazione di Hodeidah è stata costretta ad abbandonare le proprie abitazioni, trovando rifugio all’interno di altre comunità dove le persone vivono attualmente in condizioni molto precarie, con scarso accesso ad acqua pulita e servizi sanitari.
“In Yemen i bambini stanno vivendo sulla propria pelle esperienze che nessun bambino al mondo dovrebbe sopportare, costretti ogni giorno a fare i conti con i combattimenti e con le bombe, con le malattie e con la fame estrema. È inaccettabile che questi bambini perdano la vita per cause prevenibili – ha affermato Tamer Kirolos, Direttore di Save the Children in Yemen – Curare il colera potrebbe essere molto semplice se ai bambini venissero forniti i sali reidratanti e gli antibiotici di cui hanno bisogno e se gli ospedali e le cliniche fossero adeguatamente attrezzati. Ma quasi quattro anni di conflitto hanno portato a un collasso quasi totale del sistema sanitario nel Paese. Le parti in conflitto hanno ripetutamente attaccato le strutture mediche, rendendo alcune di esse inutilizzabili o inaccessibili. Se tutto questo non sarà fermato, tanti altri bambini continueranno a perdere la vita per via del colera e di altre malattie facilmente curabili”.
Con l’intensificarsi dei combattimenti a Hodeidah, sono state danneggiate anche centri sanitari e la principale struttura per il rifornimento d’acqua, come avvenuto ad esempio dopo una serie di attacchi aerei tra il 26 e il 28 luglio. Nelle strutture mediche supportate da Save the Children, in seguito a questi episodi, i casi sospetti di colera sono quasi raddoppiati tra luglio e agosto, passando da 732 a 1.342. A questo proposito, secondo un recente sondaggio delle Nazioni Unite condotto su più di 2.000 persone in tutto il Paese, più della metà ha sottolineato come siano proprio i sistemi idrici le infrastrutture ad essere maggiormente colpite e danneggiate dai combattimenti.
“Non ci sono fonti di acqua esterne in Yemen e pertanto la stragrande maggioranza delle comunità dipende interamente da pozzi e autocisterne per soddisfare le loro necessità quotidiane. Anche nelle città i sistemi idrici sono in uno stato di abbandono o sono danneggiati dai combattimenti. La disponibilità limitata spesso porta a pratiche igieniche inadeguate, aumentando il rischio di ulteriori epidemie di colera. La soluzione è semplice: i combattimenti devono fermarsi e le parti in conflitto devono trovare una soluzione politica. Nel frattempo Save the Children continuerà a distribuire medicine e sostenere cliniche per raggiungere i bambini più vulnerabili prima che sia troppo tardi”, ha proseguito Kirolos.
Salwa, una giovane donna di 22 anni, e suo figlio di 2 anni Aseel vivono nella loro casa di Hodeidah assieme ad altre 13 persone che fanno parte della loro famiglia. Sia la madre, che è incinta di quattro mesi, sia il figlio soffrono di colera. Quando Salwa ha contratto la malattia non poteva permettersi il costo del biglietto dell’autobus per andare in ospedale. Dopo tre giorni, suo padre è riuscito a noleggiare una moto e ha portato la figlia in condizioni critiche in una struttura sanitaria di Save the Children. Sia la madre che il figlio ora stanno ricevendo le cure mediche di cui hanno bisogno, ma Salwa continua ad essere molto preoccupata del futuro della sua famiglia e del bambino che deve ancora nascere perché non sa se riuscirà a raggiungere un ospedale in tempo per partorire in modo sicuro.
“Due giorni dopo essermi ammalata, anche mio figlio è stato male e l’hanno portato in ospedale. Beviamo acqua da un pozzo vicino casa, sono incinta di quattro mesi e quando ho preso il colera ho avuto tanta paura che avrei perso il bambino. Sono molto preoccupata anche di come riuscirò a partorire con una situazione così difficile. Prima della guerra vivevamo una vita normale e io lavoravo in un’azienda agricola. Ora invece tutto è cambiato, non c’è più lavoro e non abbiamo neanche più carburante”, ha raccontato la donna.
Il colera è una malattia infettiva trasmessa attraverso cibo o acqua contaminati. L’accesso all’acqua pulita è dunque fondamentale per tenere sotto controllo una epidemia. Ma lo Yemen è il paese più povero d’acqua nel mondo arabo. Anche prima dell’inizio della guerra, gli esperti temevano che lo Yemen potesse diventare il primo paese al mondo a rimanere senza acqua utilizzabile. Quasi quattro anni di conflitto non hanno fatto altro che peggiorare ulteriormente la situazione.
“La situazione a Hodeidah è diventata insostenibile a causa del conflitto – ha spiegato la dottoressa Mariam Aldogani, che opera per Save the Children a Hodeidah – . Vedo sempre più bambini che arrivano con casi sospetti di colera. Ho incontrato una donna, madre di due bambini, che ci ha raccontato che tutta la sua famiglia è stata colpita da diarrea acuta perché non hanno più accesso all’acqua pulita. Bevono tutti da un pozzo aperto e non hanno abbastanza denaro per comprare il gas da cucina necessario a far bollire l’acqua contaminata che raccolgono. Suo marito non riceve lo stipendio dall’anno scorso e sa che sta mettendo a rischio la salute dei suoi figli. Ma cosa può fare, quando i bambini piangono perché hanno sete? Quindi bevono e sperano che non accada nulla”.
L’ex presidente argentino Mauricio Macri (2015-2019) ha annunciato di avere deciso di non candidarsi per l’opposizione nelle prossime elezioni presidenziali previste in Argentina il 22 ottobre 2023. “Lo faccio – ha sostenuto in un video postato ieri nel suo account Twitter – convinto che dobbiamo allargare lo spazio politico che abbiamo costruito”, e in questo ambito “confido che l’area in cui mi riconosco (la coalizione Pro, ndr.) saprà scegliere la persona che meglio possa rappresentarci”.
Abbandonando l’ambiguità di dichiarazioni dei giorni scorsi che potevano far pensare ad una nuova partecipazione alla contesa elettorale, Macri, 64 anni, ha ora chiarito il suoi pensiero, non senza criticare duramente la coalizione governativa peronista Frente de Todos (FdT) che sostiene il presidente Alberto Fernández. Sottolineando che per colpa del FdT “siamo alla deriva, senza guida, isolati dal mondo, soli”, Macri ha però messo in guardia dal pericolo che esiste “nelle situazioni difficili da cui molti credono di uscire guardando a una personalità messianica che dia sicurezza”, come potrebbe essere il leader dell’estrema destra Javier Milei con ambizioni presidenziali.
Gli analisti locali sottolineano che l’annuncio di Macri, che peraltro non appariva in buona posizione nei sondaggi, lascia spazio ad altri candidati del Pro che ambiscono a candidarsi alla Casa Rosada: l’attuale governatore di Buenos Aires, Horacio Rodríguez Larreta, l’ex ministra della Sicurezza del precedente governo, Patricia Bullrich, e la ex governatrice della provincia di Buenos Aires, María Eugenia Vidal.
“Tutte le linee rosse sono state superate”, ma il motivo non è l’annuncio russo del dispiegamento di armi nucleari tattiche in Bielorussia. Il presidente Vladimir Putin è convinto che la goccia che sta facendo traboccare il vaso dell’escalation tra Kiev e Mosca sia la consegna di armi occidentali all’Ucraina: “Sì, è quello che stanno facendo, l’hanno fatto fin dall’inizio nel 2014, quando hanno facilitato il colpo di Stato”.
L’ennesimo tentativo di retrodatare l’inizio di un conflitto che ha, in realtà, un giorno di esordio ben preciso: il 24 febbraio 2022. Secondo quanto sostiene l’Istituto per lo studio della guerra, Mosca avrebbe avuto intenzione da tempo di schierare armi nucleari in Bielorussia, ancor prima di varcare i confini del vicino. Il presidente bielorusso Alexander Lukashenko aveva suggerito a Putin di farlo già dal 30 novembre 2021. E nel febbraio 2022 Minsk aveva annullato la clausola costituzionale che garantiva lo status neutrale della Bielorussia.
La scelta di annunciare ieri le armi nucleari a Minsk, dove dieci aerei sarebbero pronti a utilizzare questo tipo di equipaggiamento, non è casuale. Sempre secondo il report dell’Istituto infatti, di fronte ad un sostanziale stallo sul campo di battaglia Putin avrebbe deciso di avviare una nuova campagna di propaganda volta ad intimidire l’Ucraina e i Paesi dell’Ue. Una decisione che ovviamente preoccupa la Nato. Attraverso un suo portavoce, l’Alleanza atlantica ha condannato la retorica nucleare russa come “pericolosa e irresponsabile”, facendo sapere che dal quartier generale di Bruxelles sta monitorando la situazione, anche se al momento “non ci sono passi che ci costringano a modificare la nostra strategia”.
Mentre gli Stati Uniti, che della Nato costituiscono il pilastro e restano “impegnati nella difesa collettiva degli alleati”, frenano sulle reali intenzioni dello zar: “Non abbiamo alcuna indicazione che abbia mantenuto il suo impegno o che qualche arma nucleare sia già stata trasferita”, ha detto il portavoce del Consiglio della sicurezza nazionale John Kirby. Un alto funzionario, prima di lui, aveva spiegato che Washington al momento non ha riscontrato “alcun motivo per modificare la sua postura nucleare strategica”.
Il dispiegamento di armi nucleari russe in Bielorussia rappresenterebbe comunque “un’irresponsabile escalation e una minaccia alla sicurezza europea”, ha avvertito l’alto rappresentante Ue Josep Borrell, con Bruxelles pronta “a rispondere con ulteriori sanzioni” verso Minsk, anche se l’auspicio è che questo non sia necessario. “La Bielorussia può ancora fermare” questa escalation, ha sostenuto Borrell, “è una sua scelta”. Il dibattito sugli annunci di Mosca tiene banco anche tra i vertici ucraini. Per il segretario del Consiglio di sicurezza e difesa nazionale, Oleksiy Danilov, la Russia sta tenendo Minsk “come ostaggio nucleare” e la mossa rappresenta “un passo verso la destabilizzazione interna del Paese”.
La possibilità che Minsk sia armata con equipaggiamento nucleare non può che preoccupare Kiev. Attraverso il ministro degli Esteri Dmytro Kuleba, l’Ucraina ha chiesto una riunione d’urgenza del Consiglio di sicurezza dell’Onu, esortando l’Occidente e la Cina a porre fine al “ricatto nucleare del Cremlino”. Sul campo, intanto, si continua a combattere e Bakhmut è ancora il teatro degli scontri più feroci. L’esercito ucraino sarebbe riuscito a stabilizzare la situazione nell’area della città, secondo il portavoce del gruppo orientale delle forze armate di Kiev, Sergey Cherevaty, ma fonti russe sostengono che il Gruppo Wagner abbia preso il “pieno controllo” dell’impianto metallurgico Azom, nel nord. A Kramatorsk e Avdiivka, nella regione del Donetsk, le forze armate di Mosca hanno lanciato un attacco missilistico usando lanciarazzi multipli Grad, artiglieria e munizioni a grappolo. Più a sud, nella regione di Kherson, quattro civili sono rimasti gravemente feriti a seguito di detonazioni di ordigni. Ieri ne erano morti cinque dopo gli attacchi russi in otto regioni.
Al termine di un processo durato meno di due settimane, l’Honduras, piccolo Stato centroamericano guidato dalla presidente progressista Xiomara Castro, ha ufficializzato la rottura “irreversibile” delle relazioni diplomatiche con Taiwan, risalenti al 1941, e l’allacciamento immediato di quelle con la Repubblica popolare cinese. In una dichiarazione congiunta pubblicata oggi simultaneamente a Pechino e Tegucigalpa, si rende noto che “entrambi i Paesi, d’accordo con l’interesse e i desideri dei due popoli, hanno deciso di riconoscersi reciprocamente e di stabilire relazioni diplomatiche a livello di ambasciatori”. Queste, si precisa, si svilupperanno sulla base dei “principi di rispetto della sovranità e integrità territoriale, non aggressione, non ingerenza negli affari interni, uguaglianza, beneficio mutuo e coesistenza pacifica”. Con la conferma si sottolinea che “l’Honduras riconosce l’esistenza di una sola Cina”, e che “Taiwan forma parte inalienabile del territorio cinese”, impegnandosi formalmente a non avere mai più relazioni o contatti ufficiali con essa”, una posizione per cui Pechino ha espresso il suo “apprezzamento”.
La dichiarazione è stata firmata a Pechino dal ministro degli Esteri dell’Honduras, Eduardo Enrique Reina, e dal collega cinese, Qin Gang. Durante i colloqui con Reina seguiti alla firma, Qin ha osservato che il principio di “una sola Cina” è un consenso prevalente nella comunità internazionale e una norma di base ampiamente riconosciuta nelle relazioni internazionali, collocando “l’Honduras nel lato corretto della storia”. La decisione, fortemente criticata dalle autorità taiwanesi che hanno denunciato “intimidazioni” e “corruzione” da parte di Pechino, riduce a 13 le nazioni che ancora mantengono relazioni diplomatiche con Taipei, fra cui Haiti, Guatemala, Paraguay e Santa Sede. All’origine della svolta, hanno indicato sia il ministro Reina sia il suo vice, Tony García, c’è stata la necessità urgente di risolvere la sostenibilità del debito estero del Paese di oltre 9.000 milioni di dollari, di cui 600 dovuti a Taiwan. Il governo honduregno avrebbe proposto a Taiwan di sostenerlo in una ristrutturazione del debito con riduzione dei tassi di interesse per un investimento da parte di Taiwan di 2.000-2.500 milioni di dollari. Un’operazione che però non è stata accettata, determinando la rottura. Il ministro degli Esteri di Taipei, Joseph Wu, ha confermato questa versione sottolineando che l’Honduras “ha chiesto un prezzo elevato” per mantenere i rapporti diplomatici. Il suo ministero ha rilasciato un comunicato in cui si dice “profondamente insoddisfatto”, suggerendo all’Honduras di “stare attento ai rischi contenuti negli impegni assunti dalla Cina nella sua offerta di relazioni diplomatiche”.