l ragionamento di Boeri, al culmine di una giornata che ha visto degenerare il dibattito sugli impatti del primo provvedimento voluto dal ministro del Lavoro Di Maio, leader del M5S .
Riassunto delle puntate precedenti: il 12 luglio il capo dello Stato firma il decreto Dignità. Nella relazione tecnica abbinata al decreto c’è la stima degli effetti di finanza pubblica, una stima elaborata dall’Inps su dati del ministero del Lavoro. Prima del decreto dignità il limite di rinnovo dei contratti a termine era 36 mesi, ora scende a 24. Poiché ci sono 80.000 persone con contratti già oltre i 24 mesi che non potranno essere rinnovati, e poiché il decreto stabilisce ulteriori strette ma non offre incentivi alla trasformazione a tempo indeterminato (Di Maio li ha solo annunciati), l’Inps stima che il 10 per cento di quegli 80.000 non verrà stabilizzato. Avrà quindi bisogno di ammortizzatori sociali (Naspi) in attesa di un altro lavoro. Come riconosce lo stesso Boeri, stiamo parlando di numeri infinitesimali: lo 0,05 per cento dei lavoratori dipendenti, lo 0,4 per cento dei contratti a termine, un costo per i conti pubblici di 119 milioni nel 2019 e poi zero dal 2021. La cifra di 80.000 posti a rischio rilanciata su Twitter tra gli altri da Matteo Renzi (Pd) – un decreto “per licenziare 80mila persone” – è frutto di una errata interpretazione della tabella. “Il numero totale non eccede mai le 8.000 unità in ogni anno di orizzonte delle stime”, chiarisce Boeri in una nota. L’economista della Bocconi osserva anche che l’isteria politica non è giustificata: “Se l’ obiettivo del provvedimento era quello di garantire maggiore stabilità al lavoro e più alta produttività in futuro al prezzo di un piccolo effetto iniziale di riduzione dell’occupazione, queste stime non devono certo spaventare”.
La vicenda riguarda quindi numeri minimi ha ma ha assunto un peso politico enorme. Sabato Di Maio ha parlato di “lobby di tutti i tipi” contro il decreto e di un numero, quello degli 8.000 posti in meno, “apparso la notte prima” della firma del Quirinale. Era sembrato un attacco al ministro del Tesoro e ai suoi collaboratori, visto che i rapporti tra Cinque Stelle e Giovanni Tria non sono facilissimi. E allora ieri Di Maio ha pubblicato una nota congiunta proprio con Tria per indicare un altro capro espiatorio: “Bisogna capire da dove provenga quella ‘manina’ che, si ribadisce, non va ricercata nell’ambito del Mef”, cioè del ministero. E poi continuano: “Tria, ritiene che le stime di fonte Inps sugli effetti delle disposizioni relative ai contratti di lavoro” sono “prive di basi scientifiche e in quanto tali discutibili”. Tradotto: la manina è quella di Boeri.
Coglie l’ attimo il ministro dell’ Interno leghista Matteo Salvini: “Se non sei d’ accordo con niente delle linee politiche, economiche e culturali di un governo e tu rappresenti politicamente, ti dimetti”.
Sullo sfondo la partita delle nomine che può spiegare tanta durezza negli attacchi all’Inps (che ha lavorato di raccordo col ministero del Lavoro che ora lo attacca): la Lega vuole l’Inps per il suo tecnico Alberto Brambilla, i Cinque Stelle vogliono un direttore generale del Tesoro diverso dal prescelto di Tria, Alessandro Rivera, il dirigente che durante i governi Renzi e Gentiloni ha gestito la crisi bancaria. E forse i Cinque Stelle puntano anche a cambiare il Ragioniere generale dello Stato Daniele Franco, confermato per un anno da Gentiloni.
Politica
Inps, Di Maio e Salvini sfrattano il presidente Boeri: eccesso di protagonismo politico
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