Il procuratore di Cuneo riesuma il cadavere dell’ex capo degli ultras della Juventus Bucci: non crede nel suicidio di un uomo dai mille volti e mille affari
Nella diretta Facebook del martedì dei giornalisti di Report (ci sono Sigfrido Ranucci e Federico Ruffo) si parla dei rapporti tra persone contigue o intranee alla organizzazione mafiosa denominata ‘ndrangheta e certa tifoseria della Juventus.
Il trait d’union di questi due ambienti, così lontani e così diversi in apparenza, è la figura opaca del security manager della società, Alessandro D’Angelo, un po’ anche braccio destro o persona che si occupa della sicurezza del presidente Andrea Agnelli.
L’inchiesta di Report, sbrigativamente liquidata da Agnelli davanti all’assemblea degli azionisti della Juve come “cose già viste e sentite”, “cose già accertate dalla giustizia sportiva”, sembra invece abbia riscosso molta attenzione da parte del nuovo procuratore di Cuneo (poi vi spieghiamo chi è questo magistrato). E siccome la giustizia sportiva non sembra goda di così tanta stima e fiducia degli italiani, sarebbe il caso che anche la Juventus se ne facesse una ragione. Perchè la Juventus, ove mai ci fosse una inchiesta sulla strana morte di Bucci, tutt’al più deve essere parte lesa in un eventuale processo. Se così non fosse sarebbe la fine del calcio italiano. Qual è la novità oggi?
Che entro un paio di settimane la Procura di Cuneo, che indaga sulla morte di Raffaello Bucci, farà eseguire la riesumazione della salma. Perchè sono troppe le cose strane nella morte di Bucci. Questo Bucci era ed è, anche da morto, un personaggio enigmatico, contortissimo. Ci sarà una nuova perizia sul cadavere e verranno sentiti nuovi testimoni.
La riesumazione è stata chiesta più volte quest’anno sia dalla famiglia di Bucci (sono originari di San Severo di Puglia) che dalla moglie, Gabriella Bernardis, una donna che da un istante dopo la morte del suo compagno ha sempre detto “Raffaello non può essersi suicidato, è impossibile, non aveva queste pulsioni, era però terrorizzato, ma non so da che cosa”. Qualcuno dirà che è l’amore di una donna per il compagno. Non solo, Gabriella vuole che il figlio (un bambino che ha avuto con Bucci) sappia la verità. Gabriella sa che suo marito non era uno stinco di santo. Gabriella ha sempre raccontato le mille cose strane che faceva il marito, i rapporti con la Juve e altri ambienti strani.
Onelio Odero. Il nuovo procuratore di Cuneo che ha disposto la riesumazione della salma di Raffaello Bucci
Quando l’8 luglio del 2016, Bucci, in circostanze ancora molto opache si sarebbe lanciato a Fossano dal viadotto del raccordo che porta all’autostrada Torino-Savona, la moglie sapeva che sarebbe sparito per un po’. Era terrorizzato perchè era stato sentito dalla Procura di Torino i 6 ottobre, due giorni prima, come persona informata dei fatti, per testimoniare sui rapporti tra il mondo degli ultras e la ‘ndrangheta. Bucci era uno dei leader dello storico gruppo ultras bianconero dei “Drughi” ed era un consulente esterno (assunto dalla ditta Telecontrol) della Juventus: in pratica un sostenitore ufficiale con funzioni di collegamento tra la tifoseria organizzata e il club. Bucci era anche uno che bazzicava come informatore i servizi segreti e la Digos della questura di Torino. Che cosa disse ai pm Bucci? Perchè aveva paura? La moglie vuole conoscere la verità. Questa donna è piegata dal dolore. Pensate che ha scritto alla procura di Torino e a quella di Cuneo per dire che sul conto corrente del marito ci sono 300mila euro di cui lei sconosce la provenienza.
I verbali di interrogatorio di Bucci del 6 luglio sono stati già richiesti dal nuovo procuratore di Cuneo, Onelio Odero, che ha chiesto la riesumazione del cadevere del presunto suicida.
Onelio Odero non è un magistrato qualunque, è un inquirente sessantenne, torinese, che ha lavorato alla Direzione distrettuale antimafia di Torino per otto anni, fino al 2009, anno in cui si è trasferito in Sicilia. È stato ancora nel pool contro la criminalità organizzata, dove ha vissuto per oltre sei anni. Quindi in Corte d’Assise di Caltanissetta ha sostenuto la pubblica accusa nel processo delle stragi di Capaci bis. Ora Odero vuole capire che cosa c’è che non è chiaro nel presunto suicidio Bucci. Che cosa si cela, si nasconde dietro questa morte. E a giudicare dalla storia professionale di questo magistrato specializzato in reati di mafia, quello che ora non è chiaro domani sarà lindo.
Queste sono le ultime immagini riprese dalle telecamere di sorveglianza della Stazione Centrale di Milano in possesso della Procura della Repubblica di Lecco diffuse dai Carabinieri che ritraggono Edoardo Galli mentre cammina sul binario dove è giunto il treno proveniente da Morbegno e mentre transita in uscita dai tornelli di sicurezza lo scorso 21 marzo.
Dopo questi istanti – spiega la nota della Procura- non ci sono, al momento, ulteriori riprese che lo ritraggono dialogare o in compagnia di altre persone ovvero nei pressi di esercizi commerciali.
Le donne ‘camici bianchi’ della Sanità italiana ancora oggi sono spesso davanti ad un bivio, quello di dover scegliere tra famiglia e carriera. Accade soprattutto al Sud e la ragione sta essenzialmente nella mancanza di servizi a sostegno delle donne lavoratrici. A partire dalla disponibilità di asili aziendali: se ne contano solo 12 nel Meridione contro i 208 del Nord. E’ la realtà che emerge da un’indagine elaborata dal Gruppo Donne del sindacato della dirigenza medica e sanitaria Anaao-Assomed, coordinato dalla dottoressa Marlene Giugliano. “Al Sud le donne che lavorano nel Servizio sanitario nazionale devono scegliere tra famiglia e carriera e per le famiglie dei camici bianchi non c’è quasi nessun aiuto. Una situazione inaccettabile alla quale occorre porre rimedio”, denuncia il segretario regionale dell’Anaao-Assomed Campania Bruno Zuccarelli.
Nelle strutture sanitarie italiane, afferma, “abbiamo 220 asili aziendali, di cui 208 sono al Nord (23 solo in Lombardia). In Campania gli asili nido su 16 aziende ospedaliere sono solo 2: Cardarelli e Azienda Ospedaliera Universitaria Federico II. Il Moscati di Avellino aveva un asilo nido che è stato chiuso con la pandemia e ad oggi il baby parking dell’Azienda Ospedaliera dei Colli è chiuso. Una condizione vergognosa e desolante”. Ma i dati raccolti dal sindacato dicono anche altro: se si guarda al personale del servizio sanitario nazionale, il 68% è costituito da donne, quasi 7 operatori su 10, con un forte sbilanciamento verso il Nord dove le donne sono il 76%, mentre al Sud solo il 50%. Un divario tra Nord e Sud, quello della sanità, che “si lega alle condizioni di difficoltà che le donne devono affrontare – aggiunge Giugliano – del resto in Campania il costo medio della retta mensile di un asilo è di 300 euro, con cifre che in alcuni casi arrivano anche a 600 euro.
E nella nostra regione c’è un posto in asili nido solo ogni 10 bambini”. Per questo le donne campane dell’Anaao chiedono di essere ascoltate dalle Istituzioni regionali, così come dalle Aziende ospedaliere e Sanitarie. Tre i punti chiave sui quali intervenire, sottolineano: “creazione di asili nido aziendali che rappresentano una forma di attenzione per le esigenze dei propri dipendenti e consentono una migliore conciliazione dei tempi casa-lavoro; sostituzione dei dirigenti in astensione obbligatoria per maternità o paternità e applicazione delle norme già esistenti, come flessibilità oraria; nomina, costituzione e funzionamento dei Comitati unici di garanzia”. Sono organismi che “prevedono compiti propositivi, consultivi e di verifica in materia di pari opportunità e di benessere organizzativo per contribuire all’ottimizzazione della produttività del lavoro pubblico, agevolando l’efficienza e l’efficacia delle prestazioni e favorendo l’affezione al lavoro, garantendo un ambiente lavorativo nel quale sia contrastata qualsiasi forma di discriminazione”, spiega Giugliano. In regioni come la Campania, “questi organismi hanno solo un ruolo formale, cosa – conclude l’esponente sindacale – che non siamo più disposte ad accettare”.
È costituzionalmente illegittima la previsione dell’automatica rimozione dall’ordinamento giudiziario dei magistrati finiti in vicende penali culminate con la condanna, a loro carico, a una pena detentiva non sospesa. Lo ha deciso la Consulta – esaminando il caso di un giudice coinvolto in aspetti ‘secondari’ del cosiddetto ‘sistema Saguto’ – che ha accolto una questione sollevata dalle Sezioni Unite della Cassazione alle quali si è rivolto l’ex giudice Fabio Licata.
L’ex magistrato è stato condannato in via definitiva alla pena non sospesa pari a due anni e quattro mesi per falso materiale per aver apposto la firma falsa della presidente del collegio, Silvana Saguto, con il consenso di quest’ultima, ed è stato rimosso dalla magistratura. Per effetto della decisione della Consulta, il Csm “potrà ora determinare discrezionalmente la sanzione da applicare” a Licata, compresa ancora l’opzione della rimozione, “laddove ritenga che il delitto per cui è stata pronunciata condanna sia effettivamente indicativo della radicale inidoneità del magistrato incolpato a continuare a svolgere le funzioni medesime”. Saguto, anche lei radiata dalla magistratura, e ora reclusa a Rebibbia, è stata condannata in via definitiva a 7 anni e dieci mesi di reclusione per aver gestito in modo clientelare le nomine degli amministratori giudiziari dei beni confiscati alla mafia, ottenendo in cambio anche denaro.
La Corte costituzionale – con la sentenza n. 51 depositata – ha ricordato che, secondo la propria costante giurisprudenza, la condanna penale di un funzionario pubblico o di un professionista non può, da sola, determinare la sua automatica espulsione dal servizio o dall’albo professionale. Sanzioni disciplinari fisse, come la rimozione, sono anzi indiziate di illegittimità costituzionale; e in ogni caso deve essere salvaguardata la centralità della valutazione dell’organo disciplinare nell’irrogazione della sanzione che gli compete. La norma dichiarata incostituzionale, invece, ricollegava la sola sanzione della rimozione alla condanna per qualsiasi reato, purché la pena inflitta dal giudice penale superasse una certa soglia quantitativa, finendo così per spogliare il Csm di ogni margine di apprezzamento sulla sanzione da applicare nel caso concreto.
Nel caso che ha dato luogo al giudizio, il giudice penale – rileva la Consulta – aveva irrogato una severa pena detentiva non sospesa, senza poter considerare gli effetti che tale pena avrebbe necessariamente prodotto nel successivo giudizio disciplinare. In conseguenza poi dell’automatismo creato dalla norma, neppure nel giudizio disciplinare era stato possibile vagliare “la proporzionalità di una tale sanzione rispetto al reato da questi commesso, dal peculiare angolo visuale della eventuale inidoneità del magistrato a continuare a svolgere le proprie funzioni”. E ciò pur “a fronte dell’entità delle ripercussioni che l’espulsione definitiva dall’ordine giudiziario è suscettibile di produrre sui diritti fondamentali, e sull’esistenza stessa, della persona interessata”.