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Cultura

Il napoletano è poliglotta, sin da bambino parla già tre lingue

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Il napoletano, intendo il cittadino napoletano, conosce tre lingue di base. Appena nati il “uè uè uè” del neonato di Napoli non è esattamente il vagito ma la prima frase in napoletano che racchiude tutto lo stupore di chi vede la luce. Quel “uè”, difficle da spiegare ai nordici, è come dire “che bello, chissà dove sono e soprattutto chissà chi cavolo sono?”. E questa è la lingua madre che articolano appena aprono gli occhi sul mondo i napoletani. Dopo qualche giorno di vita, non è difficile sentire i bambini che protestavano contro le mamme che li ingozzano anche qualche “kitemmuort”. Vorrei sbagliarmi ma su questo ci sono studi in corso da parte della Federico II, dipartimento di linguistica e fonetica pediatrica. Poi i napoletani conoscono lo spagnolo che è patrimonio genetico generico. Di norma castigliano, ma anche il catalano e il galiziano non lo disdegnono. Poi le zie insegnano ai bambini anche l’italiano. “O criature s’adda’ mpara’ subito nu poco di italiano” dicono. Premure familiari. Vivi in Italia, parli italiano. A scuola insegnano bene l’italiano e l’inglese. Per tradizione culturale tanti imparano il francese. I tassisti napoletani, poi, come ben si sa, per motivi che sfuggono a chiunque, conoscono anche il cinese. Cinese mandarino e qualche dialetto dell’interno. I napoletani, insomma, sono poliglotti direbbe Totó… che a tutte queste lingue aggiungeva la conoscenza del cuneese. 

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Cultura

Scoperta eccezionale a Giugliano: trovata necropoli romana, tra intonaci colorati, mausolei e l’epitaffio di un gladiatore

Nel cuore dei Campi Flegrei, a Liternum, una nuova campagna di scavi svela tesori nascosti: straordinaria testimonianza della vita e della morte nell’antica colonia romana.

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Non solo la celebre Tomba del Cerbero. A Giugliano in Campania, nel cuore dell’antica Liternum, la storia riemerge ancora una volta con forza, bellezza e un senso profondo di meraviglia. In un’area archeologica già sottoposta a vincolo diretto dal Ministero della Cultura, la Soprintendenza ABAP per l’area metropolitana di Napoli ha annunciato una nuova, eccezionale scoperta: una necropoli romana estesa per oltre 150 metri quadrati, che promette di riscrivere la conoscenza del territorio e delle sue pratiche funerarie.

Un cantiere di storia, bellezza e memoria

Sotto la direzione scientifica della dott.ssa Simona Formola, funzionario archeologo responsabile del territorio, gli archeologi hanno portato alla luce una straordinaria varietà di strutture e reperti: due recinti funerari con intonaci bianchi e rossi ancora ben conservati, un profondo pozzo cultuale, un mausoleo in opera reticolata, e oltre venti sepolture disposte con grande perizia e attenzione rituale.

Le tombe — a cappuccina, ad enchystrismòs e a cassa di tegole — raccontano una continuità di frequentazione del sito dalla fine del I secolo a.C. fino al III secolo d.C., segno tangibile della ricchezza sociale e culturale di questa zona del mondo romano, che ancora oggi continua a restituire tesori.

L’epitaffio di un gladiatore: un frammento toccante di umanità

Tra i ritrovamenti più affascinanti, alcune iscrizioni funerarie in marmo, di cui una, in particolare, cattura l’attenzione degli studiosi e dell’opinione pubblica: l’epitaffio di un gladiatore. Una testimonianza rara e commovente che illumina il ruolo sociale, la memoria e la dignità riservata a questi combattenti, spesso percepiti come figure marginali, ma la cui presenza in necropoli tanto articolate rivela invece un riconoscimento pubblico e rituale.

I Campi Flegrei: una terra che non smette di sorprendere

Questa scoperta conferma ancora una volta quanto il territorio flegreo sia un autentico scrigno di tesori archeologici, spesso celati sotto strati di tempo e oblio, pronti a riaffiorare con la forza della bellezza e della verità storica.

Ogni tomba, ogni frammento, ogni intonaco conservato è un invito a guardare con occhi nuovi il paesaggio campano, in particolare quell’area di Giugliano che, da Liternum all’Anfiteatro romano, passando per il Foro e la necropoli, si mostra come un museo a cielo aperto ancora in parte da scoprire.

La promessa della Soprintendenza: tutelare e condividere

La Soprintendenza ABAP ha ribadito il proprio impegno nella tutela e valorizzazione del patrimonio culturale, affinché queste straordinarie scoperte possano essere conosciute, studiate e raccontate, non solo alla comunità scientifica ma anche ai cittadini e alle nuove generazioni.

In un territorio che continua a stupire, la storia non smette mai di parlare. Basta saper ascoltare. E, nel caso di Giugliano, scavare con cura.

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Cultura

Padre Paolo Benanti, dai rischi dell’intelligenza artificiale alla sfida della libertà

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Padre Paolo Benanti, presidente della Commissione vaticana sull’intelligenza artificiale, ha affrontato con Walter Veltroni, in una lunga intervista pubblicata sul Corriere della Sera, le sfide poste dall’avvento della società digitale e dalle nuove tecnologie.

Apocalittici o integrati?

Riprendendo la celebre domanda di Umberto Eco sulla televisione, Padre Benanti chiarisce: «La risposta cambia a seconda del momento storico. Nei primi anni Duemila la tecnologia sembrava alleata delle democrazie, come in piazza Tahrir. Oggi, invece, con gli eventi di Capitol Hill e l’intelligenza artificiale generativa che concentra il potere nei server di pochissime aziende, tutto è cambiato: il 70% dei dati è nelle mani di sole due compagnie di Seattle, il 100% in cinque compagnie al mondo. È un potere immenso».

La crisi della normatività

«Oggi bisogna ridare valore alle norme», sostiene Padre Benanti, ricordando come eventi storici e sociali abbiano minato il concetto stesso di regola: «Siamo passati da una società kantiana, basata sulla norma morale, al dubbio che la norma possa diventare tirannica. La pandemia ha esasperato questo aspetto, portando molti a vedere la regolamentazione come distruzione dell’autonomia individuale».

Il rischio di una “Repubblica tecnologica”

Secondo Benanti, la società digitale sta creando nuove forme di potere politico. Citando Peter Thiel e gli altri fondatori di PayPal, definisce la loro visione come un capitalismo basato sulla competizione estrema e sull’esclusione: «Il loro modello è tra estremo individualismo e governo delle élite, più efficiente della democrazia tradizionale. Un esempio è Alex Karp, CEO di Palantir, che parla apertamente di una “Repubblica tecnologica” guidata da una classe illuminata».

Intelligenza artificiale, democrazia e realtà

“Ogni cittadino dovrebbe sapere se un’immagine è reale o generata artificialmente”, sostiene Padre Benanti. Il concetto del “sintetico”, cioè la perfetta imitazione del naturale, rischia di compromettere la capacità di distinguere vero e falso, minacciando le fondamenta della democrazia. Citando Turing e Eco, sottolinea: “La democrazia vive solo se i cittadini possono formarsi opinioni su fatti reali”.

L’algoritmo non può rispondere a tutto

Benanti avverte: “L’algoritmo tratta tutto come un problema matematico, ma le questioni umane fondamentali riguardano il senso della vita. Ho chiesto a un’intelligenza artificiale medica come eliminare il cancro, e la risposta logica, drammatica, era eliminare chi ne è affetto. Le questioni etiche non possono ridursi a soluzioni matematiche”.

Tecnologia e libertà personale

Il religioso riflette poi sulla perdita del senso esistenziale delle parole e dei rapporti umani, ormai filtrati da algoritmi e dispositivi: “Oggi viviamo in un capitalismo della sorveglianza basato sull’economia dell’attenzione. Dobbiamo trovare il modo di rendere compatibili tecnologia e libertà, umano e artificiale”.

Il futuro è un equilibrio delicato

“È urgente un ‘brain helmet’, una protezione che aiuti a difendersi dal dominio delle piattaforme digitali”, conclude Benanti. “Serve un nuovo equilibrio, per non perdere la nostra umanità di fronte al potere smisurato della tecnologia”.

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Cultura

Nella casa del Tiaso a Pompei la sala che brilla di stelle

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Un ammasso di gusci di ostrica sono accumulati nell’angolo di una stanza della casa del Tiaso, la lussuosa dimora di Pompei in cui sono venute ora alla luce le megalografie di baccanti e satiri che ornavano una sala per banchetti. La stanza dista pochi metri dalla meravigliosa sala affrescata dove si tenevano i grandiosi ricevimenti ispirati al culto dionisiaco. Tutto lascia pensare ai resti di un sontuoso pranzo in cui erano state offerte ai convitati portate del celeberrimo frutto di mare. E invece no. I resti delle conchiglie erano lì nella loro funzione di materiale edile; d’altra parte tutta quest’area della villa, nel momento in cui era stara sepolta dai detriti dell’eruzione vulcanica, era un cantiere avviato per restaurare la ricca dimora.

Dai gusci di queste conchiglie, triturate, i romani ricavavano infatti una finissima polvere, quasi trasparente, di carbonato di calcio, che veniva passato come ultimo strato sugli affreschi delle pareti. Il risultato era strabiliante ed è ancora perfettamente visibile. Questa polvere di carbonato a contatto con una sorgente luminosa iniziava infatti a luccicare. E tutt’ora lo fa, se gli si avvicina ad esempio la luce della torcia di un telefonino. Immaginate quindi questa stanza di accesso al tempietto che, nella penombra rischiarata da candelabri, lucerne e bracieri, brillava di puntini luminosi come fosse un cielo stellato. L’effetto doveva essere sbalorditivo.

D’altronde era la stanza di accesso ad un luogo spirituale, anche questo degnamente affrescato da scene delle quattro stagioni e allegorie dell’agricoltura e della pastorizia che spiccano da uno sfondo azzurro, o meglio in blu Egizio. Un altro materiale decorativo sfarzosissimo, ritrovato anche in altri ambienti della villa. Era un materiale costosissimo, tant’è che quando un proprietario chiamava il mastro pittore e gli chiedeva il costo delle operazioni per realizzare gli affreschi, questo lo avvisava che il prezzo avrebbe riguardato solo la manodopera e i colori base; per il blu egizio, ci sarebbe stato un costo a parte da pagare. A Pozzuoli c’era anche una fabbrica dove si produceva il blu egizio, l’unico pigmento preparato chimicamente ai tempi dei Romani. Era a base di rame e veniva cotto a temperature molto elevate all’interno di alcuni pozzi; la polvere che ne veniva estratta dopo la cottura cambiava colore, le particelle di rame surriscaldate diventavano blu.

“Questo fa capire – raccontano gli archeologi e i restauratori che hanno curato gli scavi – quanto facoltoso fosse il proprietario di questa enorme casa che poteva vantare un quartiere termale, una vera e propria spa privata. Noi adesso stiamo guardando solo la pars privata di una villa che aveva ambienti che si affacciavano su un portico, che a sua volta affacciavano su un enorme giardino che, in larghezza, era grande quanto tutto l’isolato”. Dell’enorme villa, restano infatti ancora inesplorati due terzi della proprietà, tra cui l’ingresso, il quartiere dell’atrio e gran parte del giardino colonnato.

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