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Il mistero delle sorelle saudite morte nell’Hudson. Per la polizia di New York: ” Suicidio, non volevano tornare nel loro Paese”

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I media americani da giorni dedicano molto spazio a una storia di cronaca nera intricata, dai contorni poco chiari che suscita tanta attenzione anche per i risvolti politici che potrebbe avere dopo la brutale uccisione del giornalista Jamal Khashoggi. Parliamo della scomparsa di due sorelle di nazionalità saudita, Rota e Tala Farea, 23 e 16 anni, ritrovate morte la sera del 24 ottobre sulla riva del fiume Hudson, a New York, in un punto dal quale si arriva facilmente all’acqua e che è anche molto frequentato da chi va a fare jogging o a passeggiare. Le due ragazze indossavano abiti scuri ed erano legate alla vita e alle caviglie da una corda di nastro adesivo. Un testimone ha raccontato di averle viste pregare sul lungofiume quello stesso giorno e poco prima che entrassero in acqua ( vive, secondo la polizia di New York). Sui corpi non c’erano segni di violenza e il detective Dermot Shea ha detto ai giornalisti che si è trattato di un suicidio.

Suicidio. Il luogo del fiume Hudson dove han trovato i cadaveri delle sorelle saudite

Shea ha rivelato anche che fonti ascoltate in Virginia, dove vive la famiglia che dice di non avere più avuto notizie delle due sorelle dal dicembre del 2017, hanno raccontato che le ragazze “si sarebbero suicidate piuttosto che tornare in Arabia Saudita”. Rota e Tala avevano trascorso alcuni mesi in un centro per vittime di violenza domestica prima di arrivare a New York ad agosto, dove sono state fino al giorno della morte, alloggiando in alberghi di fascia alta. Secondo il New York Times avevano appena chiesto asilo politico negli Usa. Nei giorni scorsi alcuni media locali hanno rivelato anche che l’ ambasciata saudita a Washington aveva contattato la madre dopo la scomparsa per ordinare alla famiglia di lasciare il Paese. Il portavoce dell’ambasciata, però, Fatimah Baeshen, ha smentito nettamente.

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Caos Israele, Netanyahu rinvia la riforma della giustizia

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Benyamin Netanyahu posticipa la riforma della giustizia fino alla prossima sessione della Knesset dopo la Pasqua ebraica in nome della “responsabilità nazionale” e per evitare “una guerra civile”. Al tempo stesso lascia la legge sul tavolo, invitando al dialogo l’opposizione per “gli aggiustamenti” necessari. Al termine delle 24 ore più convulse della storia recente di Israele, il premier – dopo aver rinviato per tutto il giorno il suo intervento – si è deciso infine a parlare in serata ad un Paese paralizzato da uno sciopero generale che ha fermato tutto il possibile, compresi i voli in partenza al Ben Gurion e gli uffici delle ambasciate israeliane in giro per il mondo. La miccia alle proteste, dopo settimane di tensione, era stata accesa domenica sera dal licenziamento del ministro della Difesa Yoav Gallant, reo di aver chiesto un pausa nell’iter della riforma pur condividendone i contenuti. Una mossa che ha scatenato, a partire dalla notte, le maggiori manifestazioni di protesta degli ultimi giorni, culminate nel pomeriggio con circa centomila persone davanti la Knesset a Gerusalemme.

Una prova di forza a cui la destra ha risposto convocando una contromanifestazione sempre davanti al Parlamento. Il rischio che la situazione precipitasse nell’irreparabile è stato palpabile tutto il giorno e per questo si sono infittiti i colloqui all’interno della maggioranza di governo, visto che il premier ha dovuto innanzitutto convincere i riottosi alleati di ultradestra della necessità di far sbollire gli animi. Dopo il discorso di Netanyahu in tv il sindacato ha subito revocato lo sciopero mentre l’opposizione si è detta disponibile ad accettare la mano tesa del premier. Netanyahu ha dovuto mediare prima con il suo ministro della Sicurezza nazionale Itamar Ben Gvir (Potenza ebraica), pronto ad aprire la crisi di governo. Con lui – secondo quanto annunciato dallo stesso leader di estrema destra – ha concordato la pausa della riforma in cambio dell’esame, nella prossima seduta di governo, della creazione di una Guardia nazionale civile di volontari alle dirette dipendenze del ministro. Un pallino fisso di Ben Gvir, da lui avanzato al momento della formazione del governo e rispolverato per l’occasione. “Ho accettato di rimuovere il mio veto – ha scritto Ben Gvir – in cambio di questo impegno”.

Una concessione giudicata dagli analisti quantomeno problematica vista la presenza già di polizia, della guardia di frontiera, dello Shin Bet (Sicurezza interna) e dello stesso esercito. Ancora più complicato il rapporto con il ministro delle Finanze e leader di Sionismo Religioso Bezalel Smotrich, che non intende mollare. “Non dobbiamo fermare per alcun motivo la riforma. Siamo la maggioranza – ha affermato annunciando la sua presenza alla manifestazione della destra alla Knesset -, non dobbiamo arrenderci alla violenza, all’anarchia, agli scioperi selvaggi, alla disobbedienza. Non consentiremo che ci rubino i nostri voti e il nostro Stato”. Del resto lo stesso Netanyahu nel suo intervento ha detto di aver convinto “la maggior parte dei suoi alleati di governo”, non tutti. Resta dunque un disallineamento nelle posizioni, anche se la scelta sembra fatta. Dalla parte opposta, il leader centrista Benny Gantz – evocato dallo stesso Netanyahu nel discorso – ha detto che si presenterà al dialogo, nella residenza del capo dello Stato Isaac Herzog, “con cuore aperto e anima sincera”. “Dobbiamo opporci ad una guerra civile”, ha aggiunto, “dire no alla violenza e sì agli accordi e al dialogo”. Un richiamo contro la violenza su cui ha insistito lo stesso Netanyahu, denunciando “una minoranza di estremisti” e invitando i capi dell’esercito ad usare la mano pesante contro i riservisti contrari a presentarsi in nome della disobbedienza civile contro la riforma. “Sosterrò ogni iniziativa giusta di dialogo ma – ha sottolineato Gantz – non faremo compromessi sui principi della democrazia”. E lo stesso ha fatto Yair Lapid, dichiarandosi disposto ad intavolare un dialogo sotto l’egida di Herzog, tra i primi a salutare l’apertura di Netanyahu.

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Ucraina: attacco droni russi su Kiev, esplosioni e incendi

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Esplosioni e incendi si sono verificati ieri sera a Kiev, causati da un attacco di droni russi. Lo hanno reso noto le autorità locali, citate dal Kyiv Independent. L’amministrazione militare dell’oblast della capitale ucraina ha comunicato di aver abbattuto tutti i velivoli senza pilota usati dalle forze di Mosca per l’attacco, avvenuto poco dopo le 22 ora locale (le 21 in Italia) I vigili del fuoco sono intervenuti nei distretti di Sviatoshynskyi e Obolonskyi, a Kiev. Non si segnalano vittime o feriti, secondo il sindaco Vitalii Klitschko.

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Argentina: ex presidente Macri non si candiderà nel 2023

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L’ex presidente argentino Mauricio Macri (2015-2019) ha annunciato di avere deciso di non candidarsi per l’opposizione nelle prossime elezioni presidenziali previste in Argentina il 22 ottobre 2023. “Lo faccio – ha sostenuto in un video postato ieri nel suo account Twitter – convinto che dobbiamo allargare lo spazio politico che abbiamo costruito”, e in questo ambito “confido che l’area in cui mi riconosco (la coalizione Pro, ndr.) saprà scegliere la persona che meglio possa rappresentarci”.

Abbandonando l’ambiguità di dichiarazioni dei giorni scorsi che potevano far pensare ad una nuova partecipazione alla contesa elettorale, Macri, 64 anni, ha ora chiarito il suoi pensiero, non senza criticare duramente la coalizione governativa peronista Frente de Todos (FdT) che sostiene il presidente Alberto Fernández. Sottolineando che per colpa del FdT “siamo alla deriva, senza guida, isolati dal mondo, soli”, Macri ha però messo in guardia dal pericolo che esiste “nelle situazioni difficili da cui molti credono di uscire guardando a una personalità messianica che dia sicurezza”, come potrebbe essere il leader dell’estrema destra Javier Milei con ambizioni presidenziali.

Gli analisti locali sottolineano che l’annuncio di Macri, che peraltro non appariva in buona posizione nei sondaggi, lascia spazio ad altri candidati del Pro che ambiscono a candidarsi alla Casa Rosada: l’attuale governatore di Buenos Aires, Horacio Rodríguez Larreta, l’ex ministra della Sicurezza del precedente governo, Patricia Bullrich, e la ex governatrice della provincia di Buenos Aires, María Eugenia Vidal.

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