Il gasdotto Tap “si deve fare”. Il Governo fa le sue verifiche, quella più importante è la valutazione di impatto ambientale e poi da l’ok alla realizzazione di una infrastruttura destinata dal 2020 a portare 10 miliardi di metri cubi di gas l’anno dall’ Azerbajian alla Puglia. Il premier Giuseppe Conte ci mette la faccia, subito, su questa decisione. “Abbiamo fatto tutto quello che potevamo, non lasciando nulla di intentato. Ora però è arrivato il momento di operare le scelte necessarie. Prometto un’attenzione speciale alle comunità locali perché meritano tutto il sostegno”, ha spiegato Conte che già alla sua prima visita di Stato all’estero, la scorsa estate negli Usa, aveva ammesso che l’opera era “strategica”.
Rivolgendosi ai sindaci pugliesi, incontrati a settembre quando si impegnò a valutare in profondità il dossier, il premier ha giustificato il mancato blocco del Tap – promesso in campagna elettorale dai Cinque Stelle – con il rischio concreto di dover essere costretti a pagare in caso di interruzione dei lavori “costi insostenibili, pari a decine di miliardi di euro”. Numeri da “manovra economica”: la stima “non ufficiale” tra risarcimenti e penali sarebbe di circa 20 miliardi. Conte elenca tutti gli sforzi fatti: c’è una analisi costi-benefici, abbiamo dialogato con il territorio, abbiamo ascoltato le istanze e studiato i documenti presentati dalle autorità locali e ad oggi non è più possibile intervenire sulla realizzazione di questo progetto che è stato pianificato dai governi precedenti con vincoli contrattuali già in essere”. Insomma non ci sarebbe più “via d’uscita”.
Il sì al Tap è per la Lega che da sempre sostiene l’opera una buona notizia. Per Matteo Salvini “avere l’energia che costerà meno a famiglie e imprese è fondamentale, quindi avanti coi lavori”. La linea del premier Conte, però, non è quella entusiastica di Salvini. “Abbiamo le mani legate” è il mantra di Conte. La base pugliese del M5S ha mal digerito la decisione. Ancor di più c’è rabbia per il freddo comunicato di Palazzo Chigi.
Sergio Costa. Il ministro dell’Ambiente ha detto che non ci sono profili di illegittimità, il gasdotto si farà
Deputati e senatori cinque stelle pugliesi hanno contestato con fermezza la nota del ministro dell’ Ambiente Sergio Costa sulla correttezza della valutazione ambientale dell’opera. Tanto che si sono rincorse anche voci di possibili dimissioni chieste tra l’altro dal Movimento No Tap: “È chiaro – ha detto il leader Gianluca Maggiore – che la nostra battaglia continuerà, come è chiaro che tutti i portavoce locali del M5S che hanno fatto campagna elettorale qui e che sono diventati addirittura ministri (il riferimento è alla ministra per il Sud Barbara Lezzi, ndr) grazie ai voti del popolo del movimento No Tap, si devono dimettere adesso”. Durissimo anche il sindaco di Melendugno, Marco Potì: “Conte avalla una follia ingegneristica e la distruzione di un intero territorio. Nel Salento se lo ricorderanno bene”. Per l’ opposizione è stato gioco facile accusare i grillini di propagandare “menzogne” e “bufale” e di “prendere in giro” i cittadini. Difficile dimenticare la promessa dell’allora deputato grillino Alessandro Di Battista di bloccare l’opera “in due settimane” con i M5S al Governo.
No Tap. Il movimento che si oppone al gasdotto chiama tutti alla mobilitazione in Puglia
L’ultima speranza per chi voleva fermare l’opera – che vale 4,5 miliardi nel tratto del progetto tra Grecia, Albania e Italia – era affidata al possibile stop sulla “Via” del ministero dell’Ambiente. Che però ieri ha riferito ai giornalisti:”Abbiamo ascoltato tutte le osservazioni provenienti dal territorio e abbiamo valutato se tutte le autorizzazioni fossero state emesse a norma di legge”. E allora siccome la legge non consente di fermare un opera e la politica non conta un granché, il Tap si farà. Una valutazione tutta tecnica che “esula dal mio pensiero personale e dal mio convincimento politico” sull’opera, ha volut
o sottolineare Costa, dalla quale “non sono emersi profili di illegittimità”. L’unico spiraglio sul progetto resta solo – ricorda Costa – quello di possibili “adattamenti in fase esecutiva” . Che più o meno significa l’opera, in ogni caso, si farà. Il Movimento No Tap è di tutt’altro parere e dice che darà filo da torcere a chiunque vorrà realizzare il gasdotto. “Questo Governo, come i precedenti vuole favorire la gigantesca lobby transnazionale che sta dietro a TAP, per questo incontrerà una durissima opposizione da parte delle comunità locali, sia nelle piazze che nelle aule dei tribunali, compresi quelli internazionali” scrivono in un lungo post sui social, chiamando alla mobilitazione. Domani primo atto della mobilitazione. Alle ore 10:00 a San Foca, presso Lungomare Matteotti, manifestazione contro il Governo. Salvini prepari le ruspe.
Queste sono le ultime immagini riprese dalle telecamere di sorveglianza della Stazione Centrale di Milano in possesso della Procura della Repubblica di Lecco diffuse dai Carabinieri che ritraggono Edoardo Galli mentre cammina sul binario dove è giunto il treno proveniente da Morbegno e mentre transita in uscita dai tornelli di sicurezza lo scorso 21 marzo.
Dopo questi istanti – spiega la nota della Procura- non ci sono, al momento, ulteriori riprese che lo ritraggono dialogare o in compagnia di altre persone ovvero nei pressi di esercizi commerciali.
Le donne ‘camici bianchi’ della Sanità italiana ancora oggi sono spesso davanti ad un bivio, quello di dover scegliere tra famiglia e carriera. Accade soprattutto al Sud e la ragione sta essenzialmente nella mancanza di servizi a sostegno delle donne lavoratrici. A partire dalla disponibilità di asili aziendali: se ne contano solo 12 nel Meridione contro i 208 del Nord. E’ la realtà che emerge da un’indagine elaborata dal Gruppo Donne del sindacato della dirigenza medica e sanitaria Anaao-Assomed, coordinato dalla dottoressa Marlene Giugliano. “Al Sud le donne che lavorano nel Servizio sanitario nazionale devono scegliere tra famiglia e carriera e per le famiglie dei camici bianchi non c’è quasi nessun aiuto. Una situazione inaccettabile alla quale occorre porre rimedio”, denuncia il segretario regionale dell’Anaao-Assomed Campania Bruno Zuccarelli.
Nelle strutture sanitarie italiane, afferma, “abbiamo 220 asili aziendali, di cui 208 sono al Nord (23 solo in Lombardia). In Campania gli asili nido su 16 aziende ospedaliere sono solo 2: Cardarelli e Azienda Ospedaliera Universitaria Federico II. Il Moscati di Avellino aveva un asilo nido che è stato chiuso con la pandemia e ad oggi il baby parking dell’Azienda Ospedaliera dei Colli è chiuso. Una condizione vergognosa e desolante”. Ma i dati raccolti dal sindacato dicono anche altro: se si guarda al personale del servizio sanitario nazionale, il 68% è costituito da donne, quasi 7 operatori su 10, con un forte sbilanciamento verso il Nord dove le donne sono il 76%, mentre al Sud solo il 50%. Un divario tra Nord e Sud, quello della sanità, che “si lega alle condizioni di difficoltà che le donne devono affrontare – aggiunge Giugliano – del resto in Campania il costo medio della retta mensile di un asilo è di 300 euro, con cifre che in alcuni casi arrivano anche a 600 euro.
E nella nostra regione c’è un posto in asili nido solo ogni 10 bambini”. Per questo le donne campane dell’Anaao chiedono di essere ascoltate dalle Istituzioni regionali, così come dalle Aziende ospedaliere e Sanitarie. Tre i punti chiave sui quali intervenire, sottolineano: “creazione di asili nido aziendali che rappresentano una forma di attenzione per le esigenze dei propri dipendenti e consentono una migliore conciliazione dei tempi casa-lavoro; sostituzione dei dirigenti in astensione obbligatoria per maternità o paternità e applicazione delle norme già esistenti, come flessibilità oraria; nomina, costituzione e funzionamento dei Comitati unici di garanzia”. Sono organismi che “prevedono compiti propositivi, consultivi e di verifica in materia di pari opportunità e di benessere organizzativo per contribuire all’ottimizzazione della produttività del lavoro pubblico, agevolando l’efficienza e l’efficacia delle prestazioni e favorendo l’affezione al lavoro, garantendo un ambiente lavorativo nel quale sia contrastata qualsiasi forma di discriminazione”, spiega Giugliano. In regioni come la Campania, “questi organismi hanno solo un ruolo formale, cosa – conclude l’esponente sindacale – che non siamo più disposte ad accettare”.
È costituzionalmente illegittima la previsione dell’automatica rimozione dall’ordinamento giudiziario dei magistrati finiti in vicende penali culminate con la condanna, a loro carico, a una pena detentiva non sospesa. Lo ha deciso la Consulta – esaminando il caso di un giudice coinvolto in aspetti ‘secondari’ del cosiddetto ‘sistema Saguto’ – che ha accolto una questione sollevata dalle Sezioni Unite della Cassazione alle quali si è rivolto l’ex giudice Fabio Licata.
L’ex magistrato è stato condannato in via definitiva alla pena non sospesa pari a due anni e quattro mesi per falso materiale per aver apposto la firma falsa della presidente del collegio, Silvana Saguto, con il consenso di quest’ultima, ed è stato rimosso dalla magistratura. Per effetto della decisione della Consulta, il Csm “potrà ora determinare discrezionalmente la sanzione da applicare” a Licata, compresa ancora l’opzione della rimozione, “laddove ritenga che il delitto per cui è stata pronunciata condanna sia effettivamente indicativo della radicale inidoneità del magistrato incolpato a continuare a svolgere le funzioni medesime”. Saguto, anche lei radiata dalla magistratura, e ora reclusa a Rebibbia, è stata condannata in via definitiva a 7 anni e dieci mesi di reclusione per aver gestito in modo clientelare le nomine degli amministratori giudiziari dei beni confiscati alla mafia, ottenendo in cambio anche denaro.
La Corte costituzionale – con la sentenza n. 51 depositata – ha ricordato che, secondo la propria costante giurisprudenza, la condanna penale di un funzionario pubblico o di un professionista non può, da sola, determinare la sua automatica espulsione dal servizio o dall’albo professionale. Sanzioni disciplinari fisse, come la rimozione, sono anzi indiziate di illegittimità costituzionale; e in ogni caso deve essere salvaguardata la centralità della valutazione dell’organo disciplinare nell’irrogazione della sanzione che gli compete. La norma dichiarata incostituzionale, invece, ricollegava la sola sanzione della rimozione alla condanna per qualsiasi reato, purché la pena inflitta dal giudice penale superasse una certa soglia quantitativa, finendo così per spogliare il Csm di ogni margine di apprezzamento sulla sanzione da applicare nel caso concreto.
Nel caso che ha dato luogo al giudizio, il giudice penale – rileva la Consulta – aveva irrogato una severa pena detentiva non sospesa, senza poter considerare gli effetti che tale pena avrebbe necessariamente prodotto nel successivo giudizio disciplinare. In conseguenza poi dell’automatismo creato dalla norma, neppure nel giudizio disciplinare era stato possibile vagliare “la proporzionalità di una tale sanzione rispetto al reato da questi commesso, dal peculiare angolo visuale della eventuale inidoneità del magistrato a continuare a svolgere le proprie funzioni”. E ciò pur “a fronte dell’entità delle ripercussioni che l’espulsione definitiva dall’ordine giudiziario è suscettibile di produrre sui diritti fondamentali, e sull’esistenza stessa, della persona interessata”.