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Cinema

È morto a 95 anni Stan Lee, il papà dei super eroi. Aveva creato gli Avengers, X-Men, Uomo Ragno, Fantastici Quattro e incredibile Hulk

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Un genio assoluto che nei decenni ha saputo stimolare la fantasia di grandi e bambini. Stanley Martin Lieber, questo il vero nome di Stan Lee, è stato il creatore di personaggi come l’Uomo Ragno, gli Avengers, gli X-Men, i Fantastici Quattro e l’Incredibile Hulk. Negli anni ’60 insieme a Jack Kirby fondò la Marvel Comics. Oggi è morto all’età di 95 anni a Los Angeles.

Conosciuto anche come L’Uomo (The Man) e Il Sorridente (The Smilin’), ha introdotto per la prima volta personaggi di natura complessa e con personalità sfaccettate all’interno dei comic book di supereroi. Il suo successo permise alla Marvel di trasformarsi da piccola casa editrice in una grande azienda di stampo multimediale. La sua carriera alla Marvel cominciò nel 1941 quando venne pubblicato, come riempitivo, una pagina di testo firmata con lo pseudonimo di Stan Lee. Fu presto promosso dal ruolo di scrittore di riempitivi a quello di sceneggiatore di fumetti completi, diventando così il più giovane editor nel campo, all’età di 17 anni.

Stan Lee è rinomato anche per le sue apparizioni in quasi tutte le produzioni della Marvel. È apparso in film, cartoni animati, serie tv ed anche nei videogiochi. Nel Lego Marvel Super Heroes Stan Lee ha interpretato sè stesso, o meglio la sua minifigura che, costantemente in pericolo o bisognosa di aiuto, darà ai giocatori un mattoncino d’oro ogni volta che essi lo aiuteranno in qualche modo.
Per i fan di tutto il mondo il vero supereroe era lui.

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Cinema

A Venezia vincono i visionari e i migranti: Leone d’oro a Lanthimos, argento a Garrone

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Alla fine era un po’ quello che ci si aspettava, a Poor Things di Yorgos Lanthimos va un Leone d’oro su cui tutti, già alla vigilia, erano d’accordo per un film originale e visionario che unisce estrema innocenza e grande sessualità (e questo anche grazie ad un Emma Stone straordinaria). Vince poi anche la migrazione e sbanca al Lido con ben tre premi: due vanno al nostro Matteo Garrone per Io capitano che si porta a casa il Leone D’Argento per la migliore regia (il terzo premio per importanza) e il Marcello Mastroianni a un giovane attore emergente che va all’esordiente senegalese di 21 anni Seydou Sarr del film di Garrone.

E non finisce qui sul tema migranti, il premio speciale della giuria va infatti a The Green Border di Agnieszka Holland che racconta, a tinte forti, la sporca frontiera tra Polonia e Bielorussia mettendo l’accento sulla violenza sui migranti da parte delle guardie di frontiera polacche. Una cosa, quest’ultima, che ha fatto irritare ben due ministri di Varsavia: quello dell’Interno, Mariusz Kaminski e quello della Giustizia, Zbigniew Ziobro. Scelta poi del tutto cinefila quella di dare il secondo premio, il Leone d’argento – Gran Premio della Giuria, a un film poetico e anti glamour come Evil Does Not Exist a firma del premio Oscar per Drive my car, il giapponese Ryusuke Hamaguchi. Ci sta anche tutto il premio per la miglior sceneggiatura a Guillermo Calderòn e Pablo Larraín per El Conde dello stesso Larraín, un premio su cui deve aver lavorato molto il giurato argentino Santiago Mitre, mentre i problemi nascono con le Coppe Volpi.

Quella femminile andata a Cailee Spaney ovvero la Priscilla di Sofia Coppola, moglie bambina di Elvis Presley, preferita incredibilmente a Emma Stone di Poor Things e anche a una Carey Mulligan da brividi nei panni della moglie di Berstein in Maestro di Bradley Cooper. Altrettanto incomprensibile poi dare la Coppa Volpi maschile a Peter Sarsgaard per il film Memory di Michel Franco in cui, tra l’altro, la vera protagonista è Jessica Chastain. Una coppa Volpi sicuramente più meritata dallo stesso Bradley Cooper e ancor di più dal luciferino Caleb Landry Jones protagonista di Dogman di Luc Besson. E va detto che sia Maestro, Dogman e Ferrari sono tra i grandi sconfitti di questa edizione che aveva una giuria presieduta da Damien Chazelle e composta da Saleh Bakri, Jane Campion, Mia Hansen-L›ve, Gabriele Mainetti, Martin McDonagh, Santiago Mitre, Laura Poitras e Shu Qi.

Comunque Matteo Garrone con Io capitano meritatamente si porta a casa un Leone d’argento, il primo riconoscimento da Venezia dopo che con Gomorra aveva vinto il Grand Prix Speciale della Giuria a Cannes, cinque European Film Awards e sette David di Donatello. Una considerazione finale: peccato per Enea di Pietro Castellitto, trentenne di talento che racconta la sua generazione, cosa rara, e forse anche un po’ peccato per il cinema italiano che con ben sei film in corsa forse meritava qualcosa di piu.

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È morto il regista Giuliano Montaldo

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Con Giuliano Montaldo scompare uno degli ultimi di quella grande generazione di registi che ha fatto grande il cinema italiano a partire dagli anni Sessanta. Si è spento con a fianco l’amatissima moglie, Vera Pescarolo, la figlia Elisabetta e i suoi due nipoti Inti e Jana Carboni nella sua casa a Roma che nel tempo era diventata casa per questo genovese navigatore e spericolato, che ha sempre schivato ritualità troppo solenni perché tra le sue moltissime doti c’era l’arte dell’autoironia dispiegata da sempre a piene mani. L’eterno ragazzo di Cinecittà nasce a Genova il 22 febbraio del 1930; fin da ragazzo ha l’occhio del navigatore come Colombo, la voce di un Gino Paoli dai toni baritonali, la passione militante del giovane Calvino partigiano, il piacere dello scherzo di Paolo Villaggio e la leggerezza poetica di Lele Luzzati, tutti liguri come lui, tutti un po’ saggi e un po’ matti come lui.

A guerra finita da un po’, come tanti provinciali col sogno del cinema, il ventenne Giuliano scende alla scoperta di Roma. È alto, bello, dotato di magnetici occhi azzurri e modi eleganti da conquistatore. Ma non è per questo che l’esordiente regista Carlo Lizzani lo chiama al suo fianco nel 1951 per Achtung, Banditi!. Il film sarà girato in Liguria, i soldi scarseggiano (sarà prodotto in cooperativa col sostegno dei partigiani) e serve un aiuto-regista pratico dei luoghi. Sul set sono praticamente tutti alle prime armi e Montaldo si fa notare anche come attore. Con Lizzani è amicizia vera e durerà tutta la vita: nel film successivo Cronache di poveri amanti del ’54 c’è ancora una particina per lui ma intanto il ragazzo genovese si impratichisce da regista rubando a tutti i segreti del mestiere: per Gillo Pontecorvo (con cui divide la casa a Roma insieme a Franco Giraldi e Callisto Cosulich) doppia perfino un cane nel documentario Cani dietro le sbarre e poi canterà in russo per doppiare un prigioniero nel lager di Kapo; Citto Maselli e Luciano Emmer gli insegnano la tecnica, Elio Petri per cui recita ne L’assassino del 1961 lo spinge a debuttare a sua volta dietro la macchina da presa.

Con Tiro al piccione dello stesso anno, il cinema italiano scopre un nuovo talento ma basta il soggetto scelto (l’amaro destino di un soldatino della Repubblica Sociale negli ultimi giorni del fascismo) per capire che Montaldo non ama le scelte facili. Infatti il film (come il successivo Una bella grinta del ’65) non gode dei favori della critica di sinistra e anche all’interno del Pci Giuliano dovrà difendersi da qualche processo sommario di troppo. Come del resto dalle accuse di oltraggio al pudore che piovono sul documentario Nudi per vivere sulla Parigi del sesso che firma nel ’63 insieme a Petri e Giulio Questi col bizzarro acronimo Elio Montesti che i tre non sveleranno per molti anni. Testardo, metodico, incoraggiato da colleghi che resteranno amici veri tutta la vita (Lizzani e Pontecorvo sopra tutti) Montaldo capisce che è attraverso un uso intelligente dei generi popolari che può fare il “suo” cinema e che il vento internazionalista degli anni ’60 può assecondare il suo gusto dell’avventura e del viaggio. Ecco allora thriller di buona fattura come Ad ogni costo con Edward G.Robinson e Gli intoccabili con John Cassavetes che gli conquistano la fiducia dei produttori.

Infatti il successivo Gott mit uns del 1970 ha ben altra ambizione: ambientato al crepuscolo della Germania nazista, il film dà l’avvio a una trilogia sulle aberrazioni del potere che dopo l’esercito prenderà di mira la giustizia (Sacco e Vanzetti, 1971) e la chiesa (Giordano Bruno, 1973). Anche grazie alla perfetta sintonia con Gian Maria Volontè che ne è memorabile eroe, i due film sono grandi successi popolari, ma non distolgono il regista dalla sua vocazione militante. Adesso vuole recuperare la storia partigiana e il copione di Franco Solinas per L’Agnese va a morire sembra perfetto per emozionare il pubblico. Invece una serie di difficoltà produttive costringono Montaldo a lavorare in economia, proprio come ai tempi di Achtung, Banditi!. E come allora è la gente comune, ieri i liguri adesso gli emiliani, a salvare le sorti del film che grazie a una intensa e inattesa Ingrid Thulin non deluderà le attese. Siamo alla fine degli anni ’70 e anche per Montaldo si aprono le porte della Rai e del cinema per la tv.

Ma dopo la bella sperimentazione di Circuito chiuso (1978) la nuova sfida è il kolossal, la biografia di un viaggiatore che molto gli assomiglia. Con sua moglie Vera, Giuliano fa le valigie e parte per la Cina con Il Milione sottobraccio. Gli otto episodi del suo Marco Polo (1982-1983) sono un fiore all’occhiello per la tv e segnano la prima vera apertura della Cina comunista alle troupes occidentali dopo i viaggi pionieristici di Carlo Lizzani (1958) e Michelangelo Antonioni (1973). Negli anni successivi sono ancora tante le avventure dell’eterno ragazzo del nostro cinema: le battaglie politiche all’interno dell’Anac (l’associazione degli autori), il cinema letterario (“Gli occhiali d’oro”, 1987 e “Tempo di uccidere”, 1989), Il documentario militante (fin da “L’addio a Berlinguer” del 1984), le incursioni da attore (memorabile l’incontro con Nanni Moretti ne “Il caimano”, 2006), perfino la presidenza del David di Donatello nel 2017. Ma per gli spettatori di oggi il volto e la voce di Giuliano sono familiari come se si trattasse di uno zio bonario. Merito di Francesco Bruni che lo ha voluto protagonista di “Tutto quello che vuoi” del 2017 con si è conquistato un David di Donatello. Con il ruolo del poeta Giorgio Gherarducci, ha svelato la calda umanità che conoscono tutti quelli che lo hanno incontrato negli anni, la passione per l’aneddoto cui personaggio e interprete attingono a piene mani, lo sguardo lontano e subito dopo lucido e ironico.

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Sollima, padri e figli in un gangster movie sentimentale

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Un “film intimo e sentimentale”: detto da Stefano Sollima, il regista delle serie Romanzo Criminale e Suburra, di Acab e Sicario, non c’è granchè da stare tranquilli, ma è il suo nuovo mood ed arriva fino a Venezia 80 in concorso. È Adagio, una storia scritta con Stefano Bises, piena di azione, inseguimenti, sangue in una Roma senza Colosseo, tutta periferia mentre sullo sfondo dei Castelli brucia. “Un gangster movie, un noir – dice il regista – che ha al centro la paternità, tutte le forme possibili di amore filiale, di rapporto tra padri e figli biologici e non. E però tra vecchi banditi e nuovi criminali che si muovono solo per denaro, tra polizia corrotta, avanza un cuore puro, un ragazzo diverso, sensibile, come quelli delle nuove generazioni, che saranno pure svagati, fluidi ma sono la nostra speranza e io da padre ci credo davvero”.

Una produzione The Apartment, Vision, Alterego (in collaborazione con Sky e Netflix) su cui talmente si punta da uscire con Vision Distribution per Natale, il 14 dicembre. Merito all’appeal di questo regista figlio d’arte, cresciuto a set e cinepresa, di una storia avvincente e in un cast all star con Pierfrancesco Favino, Toni Servillo, Valerio Mastandrea, Adriano Giannini – tutti fisicamente quasi irriconoscibili per esigenze di copione – al servizio del protagonista, il giovane debuttante Gianmarco Franchini. Per i magnifici quattro “una chiamata irresistibile” vista la fama di Sollima “di fare cinema cinema, con set impegnativi, faticosi, ma potenti” dicono in coro.

“Con Sollima ho già lavorato tanto – dice Favino – mi preoccupa che consideri Adagio la fine della sua trilogia su Roma perchè noi attori non aspettiamo altro”. Una Roma apocalittica e realistica al tempo stesso, “vista ad altezza strade, via Prenestina, via Casilina, il Mandrione, la stazione Tiburtina, senza monumenti, cinematograficamente poco vista”, osserva Sollima, un set protagonista in cui richiamare all’opera reduci della Banda della Magliana che erano stati potentissimi e oggi invecchiano male, il cieco Mastandrea, il mezzo pazzo Servillo, il disperato Favino. “Non cercano redenzione perchè per quei criminali è impossibile ma provano a salvare il ragazzo”, aggiunge Favino che ogni giorno sul set per trasformarsi anche come aspetto fisico nel rabbioso, rancoroso, affranto criminale che ha perso il figlio sulle sue orme, impiegava cinque ore.

“Avevo voglia di girare una storia a Roma, chiudere un cerchio ideale – spiega Sollima evocando Romanzo Criminale e Suburra – ma questa volta c’è sentimento e speranza. A me piace raccontare gli esseri umani, non li giudico, li amo tutti ma qui nella Roma vista come Los Angeles, tre leggende criminali si muovono braccati dal poliziotto corrotto Adriano Giannini, andando alla fine in una direzione, l’amore per un figlio, in cambio di niente. A mio modo sono diventato sentimentale”. Per Servillo (che recita in un inedito romanesco), è la prima volta con Sollima, “affascinato dalla storia e da questi compagni di viaggio”: è il padre di Manuel, “un personaggio dal destino segnato ma che se la gioca fino all’ultimo”. Scherza Valerio Mastandrea: “i film di Sollima sono potenti, sui suoi set è sospeso lo stato di diritto, sei immerso lì dentro e non puoi fare altro nè vedere la tua famiglia”.E ha parole di lodi per Adriano Giannini, che nel film copre gli occhi blu con lenti scure, per entrare ancor più nella parte, “per me – dice l’attore che interpreta un poliziotto premuroso con la famiglia, spietato fuori – il personaggio è un lupo affamato e senza scrupoli”.

In Adagio di Sollima, una Roma senza luce

Uno Stefano Sollima, regista di film d’azione, fuori dalla sua comfort zone e che si avventura in prospettive più autorali, introspettive, ma sempre piene di ritmo e adrenalina. È quello che accade in ‘Adagio’ che approda legittimamente in concorso in questa Ottantesima Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica. Di scena una Roma distopica, sporca, rumorosa, caotica, inedita per location (con una tangenziale che la fa da padrona) e con un orizzonte sempre in fiamme, di un rosso incendio che non promette niente di buono. Una Capitale a cui ogni tanto manca la luce, si spegne tutto aggiungendo caos al caos. In questo scenario finis mundi si agitano personaggi caricaturali, spettrali, da fumetto Sin City, che Sollima mette in campo rispolverando anche il mito della Banda della Magliana. E questo attraverso tre rappresentanti: Pierfrancesco Favino, del tutto pelato e spettrale, nei panni di Cammello; un Valerio Mastandrea cieco nei panni di Paul Niuman e, infine, un Toni Servillo, a corrente alternata come lucidità, che interpreta Daytona. Ed è proprio da questo stagionato criminale, ancora però capace di sorprese, che parte tutto, o meglio da suo figlio adolescente di sedici anni Manuel che a un certo punto si mette in un grosso guaio. Un giorno gli viene infatti chiesto di scattare alcune foto a un misterioso individuo durante un mega party en travesti, ma Manuel capisce di essere stato raggirato, che c’è qualcosa di molto grosso dietro, e decide così di darsi alla fuga. Subito però si mettono sulle sue tracce persone che non scherzano, che sanno bene chi è la persona che si vuole buttare in mezzo, insomma brutti ceffi capeggiati da un Giancarlo Giannini mai visto in un ruolo così da balordo. Ad aiutarlo sarà proprio il padre e i suoi amici di banda, ma riusciranno questi vecchi criminali a proteggerlo? Dopo il successo internazionale di Soldado e Senza rimorso, Stefano Sollima è tornato con Adagio a lavorare in Italia. Il film è stato scritto insieme a Stefano Bises proprio con l’intento di raccontare la sua Roma e di realizzare così l’ultimo capitolo della sua trilogia criminale romana iniziata con A.C.A.B nel 2012 e proseguita con Suburra nel 2015.

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