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Ambiente

E la scienza approva il cibo sintetico, tanti vantaggi

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Sostenibilità ambientale, sicurezza alimentare, benessere animale e disponibilità di cibo a prezzi accessibili: per il mondo scientifico sono tanti i vantaggi del cibo coltivato in laboratorio, che per il momento è però solo una possibilità per il futuro. All’indomani dell’approvazione del Ddl sul cibo sintetico arrivano critiche anche da parte del mondo politico, come Alleanza Verdi e Sinistra, gruppo delle Autonomie e +Europa, che ha promosso una raccolta di firme contro il disegno di legge. E’ invece soddisfatto il mondo agricolo, dalla Coldiretti alla Confeuro e alla Cia-Agricoltori Italiani, che cita un rapporto di Nomisma dal quale emerge che il mercato mondiale di carne sintetica ha già registrato investimenti pari a 1,3 miliardi, con aziende e startup che dal 2016 al 2022 sono aumentare da 13 a 117 e una stima di produzione per il 2030 pari a 2,1 milioni di tonnellate. Dati che, per il mondo scientifico, fotografano una realtà ancora sperimentale. Per questo, affermano i ricercatori, il Ddl sul cibo sintetico è prematuro: “ci si sta preoccupando troppo presto” e “si è arrivati a definire delle regole quando mancano ancora elementi per decidere”, dice il genetista Michele Morgante, dell’Università di Udine e membro dell’Accademia Nazionale dei Lincei.

“Si ha l’impressione – aggiunge – che la decisione non sia stata presa sulla base di elementi scientifici, ma sulla base di una valutazione di interesse economici”. Una posizione comprensibile, ma “chiamiamo le cose con il loro nome: si può proteggere l’attività degli allevatori italiani senza allarmare l’opinione pubblica”, dice Morgante. “Non ci sono, a priori, motivi per cui prodotti da colture cellulari potrebbero presentare rischi diversi rispetto a quelli da allevamento tradizionale. Al contrario – prosegue l’esperto – ci sono molte ragioni per dire che le carni coltivate sono più sicure in quanto non contengono ormoni né antibiotici, non c’è il rischio di contaminazione da parte di organismi patogeni. La coltivazione avviene infatti in un ambiente sterile e controllato”. Senza contare, aggiunge, che “in Europa abbiamo un sistema preposto a valutare i rischi: l’Efsa tratterebbe anche questi prodotti come novel foods, come è accaduto per le farine di insetti, li sottoporrebbe a valutazioni”. I ricercatori tengono inoltre a precisare che è tecnicamente un errore chiamare ‘cibo sintetico’ la carne coltivata in laboratorio: il nome corretto è, appunto, ‘carne coltivata’, oppure ‘agricoltura cellulare’, rileva Roberto Defez, dell’Istituto di Bioscienze e Biorisorse del Consiglio Nazionale delle Ricerche (Cnr) di Napoli e membro del comitato etico della Fondazione Umberto Veronesi, che già nel 2019 aveva pubblicato un documento a favore di queste tecniche, intitolato “Dagli allevamenti intensivi all’agricoltura cellulare”. Defez precisa che “è sintetico quello che è il risultato di processi in cui si utilizzano composti e reazioni chimiche”, aggiunge, ma nel caso della carne coltivata si utilizzano “cellule staminali che in laboratorio vengono fatte differenziare per produrre muscolo”. Dal mondo scientifico si rileva poi che nel ddl, si cita solo la produzione di carni di vertebrati, cosa che lascerebbe via libera alla produzione polpa di granchio, aragosta e gamberi, e che alcuni cibi coltivati sono già in vendita: è il caso di probiotici, come i batteri aggiunti negli yogurt e l’alga spirulina.

Quanto alla produttività, i ricercatori osservano che bastano poche cellule per produrre tonnellate di carne: “non è necessario prelevare cellule e tessuti da tanti animali, ma è sufficiente utilizzarne un numero limitato”, dice Defez. La carne coltivata “non ha alcuna ragione di derivare dall’uccisione di animali”. Per quanto riguarda i costi, “sebbene siano ancora poco competitivi, si sono ridotti notevolmente. Basti pensare che negli ultimi 4-5 anni il prezzo al chilo è sceso da 300.000 dollari a 20-30 dollari”.

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Ambiente

La politica sull’Amazzonia sotto attacco in Brasile

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Prima resa dei conti in Parlamento a Brasilia, dove le politiche per l’Ambiente e per i Popoli indigeni dell’Amazzonia si trovano sotto attacco, nel silenzio assordante del presidente progressista Luiz Inacio Lula da Silva. Nel mirino del Congresso – dove l’esecutivo non ha la maggioranza, ed il cosiddetto Centrão (un insieme di partiti minori) rappresenta l’ago della bilancia – sono finiti i portafogli di Marina Silva e Sonia Guajajara. I poteri delle due ministre, note a livello internazionale per il loro impegno, e volti credibili dell’inversione di rotta delle politiche del Paese sull’Amazzonia, potrebbero essere presto ridimensionati in virtù di un provvedimento sulla riorganizzazione dei ministeri, presentato da un deputato del Movimento democratico brasilero (partito del cosiddetto Centrão), che ha già ottenuto un primo via libera dalla commissione mista Camera-Senato. Il testo, che ora deve essere approvato in plenaria, sottrae a Silva – tra le altre – la competenza sull’Agenzia nazionale per l’acqua, per trasferirla allo Sviluppo regionale, guidato da Waldez Góes, vicino al Centrão. E le conseguenze dell’iniziativa sul neonato ministero dei Popoli Indigeni sono anche più preoccupanti, poiché lo svuota della funzione di riconoscere e delimitare le terre protette, passando questa attribuzione al Ministero della Giustizia, presieduto da Flavio Dino, braccio destro di Lula, e sicuramente più politico nelle sue scelte.

Un progetto, quello sul ministero degli Indigeni, da leggere anche in combinazione con un primo via libera ad una votazione d’urgenza su una norma che limita la demarcazione delle terre indigene a quelle che erano già state occupate dai popoli nativi prima dell’entrata in vigore della Costituzione del 1988, rispolverando il cosiddetto ‘Marco temporal’. Manovre che strizzano l’occhio ai latifondisti dell’agribusiness (zoccolo duro delle politiche dell’ex presidente Bolsonaro) che non hanno mai fatto mancare il proprio dissenso per le politiche delle due ministre. Stanno “smantellando la politica indigena” ha reagito Guajajara. “Il trasferimento della competenza per la delimitazione delle terre è un errore pericoloso. Questa misura – ha spiegato – mette a rischio i diritti delle popolazioni native e apre spazio affinché le influenze politiche e gli interessi economici prevalgano”. Sulla stessa linea i commenti di Silva, che ha definito gli affari dei latifondisti agricoli come un ‘agrobusiness’ (un ‘business di mostri’). Mancate politiche per mitigare le emissioni di carbonio nel settore – ha avvertito – potrebbero deragliare gli accordi internazionali del Paese. Intese come quella Ue-Mercosur, per intenderci. “L’immagine internazionale di Lula non è sufficiente” – ha ammonito – per “garantire investimenti e chiudere accordi internazionali”. Intanto il presidente, che si era fatto promotore del soccorso agli indigeni Yanomami (accusando Bolsonaro di genocidio) resta in silenzio, mentre dai vertici del suo partito, il Pt, si grida “vittoria”, perché la “Commissione mista ha approvato un parere favorevole all’organizzazione dei ministeri”.

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Ambiente

L’Italia contro il regolamento sulle auto per l’Euro 7

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Chiuso un fronte, per la mobilità Ue a zero emissione se ne apre un altro. Guidato sempre dall’Italia. Dopo la travagliata ratifica dei Ventisette sullo stop alle auto inquinanti a partire dal 2035, raggiunta senza il consenso di Roma, ad agitare la scena europea è la nuova proposta di regolamento presentata da Bruxelles sui target Euro 7 per alzare l’asticella dei tagli alle emissioni nocive già nei prossimi quattro anni.

Uno sforzo “irragionevole” per un’alleanza a otto che promette battaglia in un negoziato che, avverte il ministro per le Imprese e il Made in Italy, Adolfo Urso, è “solo agli inizi”. E che si intreccia con l’auspicio mai sopito da parte del governo di riuscire nei prossimi mesi a strappare una norma ad hoc a Palazzo Berlaymont per mantenere in vita i biocarburanti – al pari dei già approvati e-fuels sospinti da Berlino – anche dopo la fine del motore a diesel e benzina. Con un non paper inviato alla Commissione Ue, alla presidenza di turno della Svezia e alle altri capitali, Italia, Bulgaria, Repubblica ceca, Francia, Polonia, Romania, Slovacchia e Ungheria hanno messo nero su bianco le loro riserve comuni sul disegno di regolamento svelato dal commissario europeo Thierry Breton nel novembre scorso dopo non pochi mesi di attesa. E che, se approvato così com’è, richiederebbe alle case automobilistiche ingenti investimenti sui motori termici per tagliare ulteriormente gli inquinanti come ossidi d’azoto e particolato, a fronte però di quello stop all’immatricolazione di auto a benzina e diesel previsto nel 2035 che ne renderebbe di fatto vani gli sforzi di finanziamento.

La proposta, è la posizione netta delle otto capitali, “non appare realistica e rischia di avere degli effetti negativi sugli investimenti nel settore già impegnato nella transizione verso l’elettrico”. E per questo i nuovi target dovrebbero perlomeno essere “prorogati” per dare più tempo ai costruttori di adeguarsi. Ma, soprattutto, dovrebbero essere ripensati per “riflettere” l’intero contesto legislativo comunitario e “l’attuale sviluppo dei metodi di misurazione” delle emissioni nocive in seno alle Nazioni Unite, tenendo conto “delle proprietà dei veicoli elettrici”. Un fronte comune che, al contrario di quanto accaduto nel braccio di ferro sui biocarburanti, trova al fianco dell’Italia una nutrita alleanza. E, pur dietro le quinte, anche il sostegno della presidenza Ue di Stoccolma. Per Roma, si tratta di una battaglia comune di “ragionevolezza e pragmatismo” per “conciliare gli obiettivi della sostenibilità ambientale con la possibilità effettiva delle imprese e dei lavoratori di potersi adattare alle nuove esigenze”. Ma il punto per Bruxelles resta blindare la transizione verso la mobilità a zero emissioni, seppur – è la concessione di Breton – “in democrazia”. Nel tentativo di scongiurare una nuova impasse.

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Ambiente

Chef in campo per la candidatura all’Unesco di Vico Equense

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Vico Equense cala gli assi dell’alta Cucina a sostegno della candidatura a Città Creativa del Gusto Unesco. Antonino Cannavacciuolo, Gennaro Esposito e Peppe Guida, vicani Doc e chef pluristellati hanno espresso il loro assoluto appoggio per la candidatura. Un sogno che pian piano, con il passo giusto, può diventare realtà. A candidarsi non una sola città, ma una comunità diffusa e coesa negli intenti, di luoghi e persone che, nei secoli, hanno saputo custodire e voluto tramandare patrimoni materiali e immateriali, incanti paesaggistici ed eccellenze enogastronomiche di livello assoluto.

“C’è chi vede nella candidatura un’impresa ardua – ha scritto lo chef Antonino Cannavacciuolo sulle sue pagine social – Io ci vedo le radici della mia cucina, il profumo dei suoi limoni dolci e succosi come fonte primaria di ispirazione e una bellezza unica al mondo difficile da dimenticare. Sono sicuro che l’eccellenza e la tradizione culinaria della terra dove sono cresciuto, saranno le carte vincenti per aggiudicarsi un riconoscimento così importante e ambito”. Proprio per tenere vivo il legame con la sua terra d’origine, lo chef Cannavacciuolo due anni fa ha aperto nella borgata di Ticciano il Laqua Countryside. Ora sposa in pieno l’aspirazione della comunità locale a ricevere il prestigioso riconoscimento dell’Unesco, del quale in Italia possono fregiarsi solo tre città: Alba, Bergamo e Parma.

Sulla stessa lunghezza d’onda anche Gennaro Esposito che ha rilanciato il lavoro dell’Amministrazione Comunale: “Non c’è gusto senza creatività. Vico Equense è una matrioska di sapori, una tradizione culinaria che nasce nei borghi e arriva nei piatti più preziosi. Appoggiare la candidatura di Vico Equense a città creativa UNESCO per la gastronomia significa promuovere l’innovazione e l’importanza di prodotti sani e genuini, insieme possiamo fare della nostra città una destinazione culinaria di fama mondiale”. Vico Equense è fucina di prodotti meravigliosi (olio, vino, confetture, formaggi, etc), di una creatività incredibile in tutti i campi, ma soprattutto nel settore turistico e gastronomico. “Viviamo in uno dei posti più belli del mondo – ha dichiarato Peppe Guida, altro chef stellato vicano -. Questa candidatura mi emoziona ed inorgoglisce.

Cielo, mare e montagne si fondono in un paesaggio unico che incanta chiunque lo osservi e che non mi stancherà mai. Questa terra ci regala prodotti preziosi ed straordinari che, tutti dalla casalinga nella sua cucina di casa ai cuochi più titolati, cercano di esaltare al meglio. Perché questo è il nostro compito: rispettare la nostra immensa cultura e tradizione gastronomica, e tramandarla senza mai stancarci, perché è dalla nostra storia culturale, paesaggistica e gastronomica che possiamo costruire un futuro migliore per tutti. “Vico Equense è da sempre patria dell’enogastronomia – ha concluso il sindaco Peppe Aiello -. Un progetto ambizioso, certo, ma che poggia su basi solide, incarnate dalle nostre eccellenze e da una tradizione enogastronomica unica al mondo. Abbiamo un’occasione straordinaria di fare della creatività e dell’enogastronomia il centro del piano di sviluppo del territorio, puntando con ancora più forza verso un turismo di qualità. Vico Equense da questo punto di vista ha tutto: cultura, gastronomia e paesaggi. Se continuiamo a valorizzare le nostre eccellenze, che ci invidia tutto il mondo, riusciremo a raggiungere l’obiettivo a cui stiamo puntando dall’inizio della consiliatura: essere nell’olimpo del Gusto”.

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