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Cultura

Domande “americane” di un fotoreporter italiano sulla Costituzione e sulla libertà di stampa

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Quello che penso sui giornalisti puttane, infimi o altri epiteti che sovente vengono riservati alla categoria conta poco o nulla nell’economia di un discorso molto serio che è quello relativo al tasso di moralità che siamo capaci di esprimere pubblicamente. Che cosa intendo dire? Che forse siamo molto più onesti di quello che sembriamo ma non siamo capaci di comunicarlo. Non si riesce più a percepirlo nel Paese. Siamo considerati una casta al pari della vecchia politica. Siamo giornalisti italiani, abbiamo pregi e vizi italiani, non siamo migliori e manco peggiori di politici e altri esponenti di ordini, albi e caste che vivono o sopravvivono in questo Paese vecchio e malato. A chi si straccia le vesti per le critiche pesanti di Di Maio (che non ha usato il termine puttane ma è stato molto più diretto ed efficace nell’insulto) ricordo che altri, della stessa parte politica che oggi plaudono alla libertà di stampa contro il regime Di Maio, hanno definito i giornalisti non puttane, non pennivendoli che prostituiscono la penna per la pagnotta ma “camorristi”, “delinquenti”, “ricottari”. In alcuni casi, questo assai autorevole esponente politico del Pd, presidente di Regione, ha anche indicato aziende editoriali responsabili di atti di camorrismo giornalistico (la Rai). Ogni giorno, in ogni occasione pubblica e ogni settimana ci sono una caterva di insulti ai giornalisti che nessun Ordine e Fnsi rintuzzano o mettono a tacere con una bella denuncia penale e una bella richiesta di risarcimento dei danni per la categoria con ampia facoltà del diffamatore e calunniatore politico di provare che i giornalisti sono “camorristi”, “delinquenti”, “ricottari”. Perchè questi termini sono sicuramente offensivi e ledono la reputazione della categoria. In ogni caso non mi ricordo (ma forse è colpa mia) flash mob, cortei, proteste vivaci della categoria verso altri e ben più gravi insulti: disoccupazione, equo compenso, tagli alle collaborazioni, contratti di solidarietà a go go, scivoli previdenziali ad libitum, scuole di giornalismo costose, formazione, precariato e schiavizzazione dei giovani giornalisti e altre forme di far west.    
Sulla reazione dei giornalisti agli insulti del vicepremier Luigi Di Maio e a seguire di Alessandro Di Battista (autorevole iscritto al M5S) la categoria però ha ricevuto applausi a scena aperta da quei politici che ieri (e pure oggi) ci hanno dipinto anche peggio. E poi i titoli e le foto sui giornali della protesta. Ma nel Paese la gente ci ha sostenuto? Dei 100mila e passa iscritti all’ordine quanti erano quelli scesi in piazza? Per la protesta, tanto rispetto e ovviamente considerazione. Quello che segue è uno scambio epistolare tra un fotoreporter italiano (Mario Laporta) e una giornalista italiana (Angela Vitaliano) che vive e lavora a New York.  Me l’hanno inviato loro questo carteggio, e mi hanno invitato a pubblicarlo. Lo faccio volentieri perché può essere un utile contributo al dibattito che occorre aprire sulla libertà di stampa nella categoria. Sono due punti di vista che esprimono la grande libertà intellettuale e professionale di due giornalisti che vengono da esperienze e luoghi diversi ma che hanno una visione della libertà di stampa molto bella, molto fresca, molto vera, sincera. Mario Laporta viene da Reuters, AFP/France Press ed oggi è a capo di Kontrolab. Lo conosco personalmente, abbiamo lavorato e spesso lavoriamo assieme, forse perché non condivido quasi nulla della sua visione politica del mondo ma è uno dei colleghi che stimo di più perchè l’ho incontrato sempre in zone di guerra per lavoro (Palestina, Afghanistan, Iraq) ed ha un concetto di libertà di stampa che gli invidio. Angela Vitaliano corrisponde dagli Usa per molte testate e riviste italiane e scrive per giornali newyorkesi. Non la conosco personalmente ma leggo quello che scrive e mi piace.   I due ci offrono due punti di vista sullo stesso argomento. Trovo molto belle le reazioni a Di Maio della Fnsi e quella dei giornalisti americani alla bislacca iniziativa di Trump di voler cacciare un giornalista dalla Casa Bianca.

Casa Bianca. Donald Trump vuole ritirare le credenziali a Jim Acosta della Cnn e sbatterlo fuori dalla White House con uno stratagemma

 

Lettera di Mario Laporta ad Angela Vitaliano

Ciao Angela, 

come ti ho sempre detto, New York e in generale gli States non mi hanno mai attratto, pur avendo girato abbastanza, mai sono stato folgorato da quella scintilla che avesse la forza di farmi comprare un biglietto e venire a conoscere quella città e quell’enorme paese, con tante anime diverse, che tu adori e hai scelto come seconda/prima casa. 

Non conosco i motivi di questa mia scelta, forse, anzi, sicuramente insana, ma cosi è stato e cosi è, anche se si cambia e prima o poi mi vedrai passeggiare nella 5° strada con la stessa disinvoltura da elefante con la quale passeggio in Via Monte Napoleone a Milano… sarà che non mi piace il capitalismo, sarà che ho vissuto, si vissuto, sulle portaerei americane per quasi due anni, sarà che ho sempre pensato di non essere gradito perché di idee politiche diverse, ma non ho mai messo piede sul suolo nordamericano. 

Ho sempre pensato, però, che benché sia una giovane nazione, quel melting pot di razze, pensieri, ideologie, colori, nazionalità, storie vissute, background siano la grande forza dell’America, di quella America che in tutti i casi sa, quando vuole difendere i diritti principali del vivere comune e del bene comune. 

Non so cosa scatti negli americani, quando si trovano di fronte a soprusi costituzionali, quindi soprusi che offendono e tentano di cancellare gli elementari diritti costituzionali decisi da tutti in tempi lontano, ma preveggenti, molto preveggenti,  rispetto a ciò che il futuro avrebbe potuto riservare.

Anche noi, sai bene,  abbiamo una bellissima Costituzione, il problema è che da noi, pochi se ne fregano, e prima di tutto, nessuno la difende, mai, se non quando per ragioni politiche e di convenienza non si ergono giustamente muri a sua difesa, ma sono solo ragioni puramente opportunistiche, non intimamente sentite, anche perché in pochi in Italia conoscono la costituzione, sai bene che nelle scuole si arriva al massimo al 6° articolo sui 12 dei principi fondanti. 

Cara Angela, vorrei chiederti il perché succede questo, perché c’è questa diversità di consapevolezza tra questi due popoli e queste due nazioni, noi abbiamo la Cultura, quella millenaria e come è possibile che un popolo, formato da etnie diverse, un popolo che ha massacrato i nativi di quella terra, un popolo che è pronto ad entrare sempre in guerra, sia cosi coeso, quando i principi fondamentali ed elementari della libertà e del diritto personale sono anche minimamente attaccati. Come è possibile che invece al contrario nel mio/nostro paese, si possa dire e fare di tutto senza avere la benché minima opposizione coesa e cosciente delle conseguenze.

Spiegami perché da voi nelle Americhe un giornalista, uno solo, venga offeso, zittito e allontanato dal suo posto di lavoro dalla più alta carica dello Stato con modalità che non si vedevano da tempo nemmeno nelle peggiori dittature mondiali, spiegami il perché questo sopruso scatena una reazione di tutti i colleghi, ma tutti, di destra, sinistra, centro, apolitici, imparziali, e chi più ne ha più ne metta, una reazione di difesa del collega che come una sola voce intima al Presidente degli Stati Uniti d’America “i Giornalisti accreditati non li scegli tu”, mentre invece qui da noi, un Ministro, si va bene, anche VicePrimoMinistro e un perfetto sconosciuto appellano tutta la categoria come Sciacalli, (infimi) , pennivendoli e puttane sputando anche nel piatto nel quale mangiano essendo pubblicisti entrambi e la categoria cosa fa? Si spacca, chi dice che forse è vero, chi dice che bisogna far chiarezza, altri che in fondo manifestare e ribellarsi non risolve il problema, (che è prima di tutto interno….) altri invece agiscono come la politica agisce ultimamente: Si, Va bene, Ma prima? Non abbiamo mai manifestato, fino a sentir dire che il miglior modo per respingere le accuse è lavorare, lavorare bene… lavorare, si, ma dove? E a quali tariffe? 

Ecco cara Angela, spiegami come è possibile questo differente sentire. E dimmi come è bello vivere in un posto dove le libertà individuali sono difese ancora da tutti, insieme. 

A proposito,  qui ci pensa il Presidente Mattarella a difendere la categoria, che fosse anche lui un giornalista?

 

La risposta di Angela Vitaliano a Mario Laporta

Caro Mario

prima di tutto grazie per questa bellissima mail che mi ha molto commosso. Sento allo stesso tempo l’inevitabile lusinga per la stima che mi dimostri e la responsabilità di provare a rispondere, in maniera spero non troppo parziale, alle tue domande.

Comprendo quando parli della scintilla che ti manca. Sono cresciuta in una famiglia di comunisti e l’America faceva parte di tutto ciò che “dovevamo” odiare. O almeno da cui dovevamo prendere le distanze. Ancora oggi, spesso, sento che la mia scelta di vivere proprio qui e, soprattutto, il mio amore per questo Paese crei molta delusione persino in chi mi vuol bene. Come se avessi tradito qualcosa. Come se fossi diventata cieca e sorda. Perché’ sfuggono due cose, prima di tutto: che l’America non e’ solo ciò che abbiamo imparato (giustamente) a disprezzare e che il tempo qui passa e cambia le cose. Prima differenza con l’Italia in cui, citando il super abusato Tomasi di Lampedusa, non cambia mai nulla.

Io sono arrivata qui per una sfida: sopravvivere all’infelicità alla quale mi aveva consegnata il mio paese, togliendomi una cosa fondamentale come l’aria: la speranza.

Ero morta dentro, ma disperatamente alla ricerca della vita.

Quando sono arrivata qui, nella disperazione, nella paura, nella rabbia, mi colpirono due cose: che vicino Union Square c’era stata per molti anni una sede del partito comunista e che c’era questo senatore che correva per la presidenza, un certo Barack Obama, che ripeteva ossessivamente una frase: “si noi possiamo”.

Un giorno, qui a NY, durante una presentazione del documentario di Veltroni su Berlinguer, gli chiesi come facevano a dormire la notte sapendo di averci derubato di quell’afflato di speranza, di visione del futuro, di determinazione che il partito comunista ci aveva dato.

Caro Mario, ti sembrerà strano ma io mi ero fermata a quella telefonata di mio fratello che paralizzò mio padre, perché Enrico era morto e sono tornata a vivere qui. Ad avere speranza qui. A credere nel cambiamento qui. E a credere in me stessa.

Si è vero, questo paese ha fatto cose orribili: ha ridotto i nativi al nulla privandoli di tutto eppure martedì scorso DUE donne native  – di cui una lesbica – sono state elette alla Camera; questo paese è razzista ma ha eletto un afro americano alla Casa Bianca; questo paese è antislamico ma ha eletto una donna musulmana; questo paese è misogino, ma ha sostenuto il movimento #metoo che sta cambiando e rivoluzionando tutto. Questo paese ha fatto il Vietnam, ma ha distrutto chi il Vietnam lo aveva perpetuato.

Questo paese impara dai suoi errori e li combatte perché’ crede in se’ stesso.

E in alcuni principi fondamentali: la liberta di espressione prima di tutto. E devi averci le palle – scusa il termine – per difenderla perché significa difendere il diritto di una donna ad andare in giro con il burqa se vuole farlo e di un pazzo di entrare in un cinema e urlare “al fuoco” (si, è legale farlo)

Perché’ la liberta di espressione non si decide o basa su quello che ci piace.

E poi ci sta l’informazione. Che della libertà di espressione è la forma più alta.

Perché, mi chiedi, qui fra un giornalista e un presidente si sceglie un giornalista? Perché si sceglie l’America e i suoi principi fondamentali. E un presidente che attacca la liberta di espressione non è un buon americano.

Per avere il coraggio, però, di difendere i principi della Costituzione (quella americana come quella italiana) devi essere libero. Solo i liberi possono essere disposti a tutto per difendere la libertà

E noi non siamo liberi e di tutto, questo, credo, sia il nostro limite più invalicabile. L’elemento che ci impedisce di essere all’altezza di ciò che potremmo raggiungere.

I giornali non sono liberi perché i giornalisti sono quasi sempre  legati al potere: i potenti raccomandano e i giornalisti devono poi “proteggerli”; lo so si offenderanno molti colleghi ma questa è la realtà. O, peggio, i giornali sono di proprietà o finanziati da potenti che poi’ chiedono di pagare un prezzo.

E questo vale purtroppo in tutti i luoghi decisionali in cui non si è liberi perché si è legati a doppio giro di corda al potere. Pensa alla televisione pubblica. Pensa a quella privata. Pensa….. Mi viene una tristezza.

E se non c’è libertà non si può essere ribelli. Non si può chiedere o pretendere rispetto. Non si può difendere la Costituzione.

Noi non siamo liberi e in più siamo cinici caro Mario. La corruzione e l’abuso di potere ci hanno resi incapaci di credere che la nostra voce conti qualcosa. Ormai chiediamo un favore “all’amico” pure per ottenere un loculo al cimitero.

Ma se non pensi di poter avere una voce, di poter cambiare qualcosa, se sei convinto che tanto nulla cambia perché cosi sei abituato a vedere, allora credi che il tuo paese sia cosi e che chi, come me, la pensa diversamente è un povero illuso.

Vorrei davvero che venissi qui un giorno, con me cammineresti poco per la quinta strada. E capiresti non solo che NY è davvero la città meno nemica al mondo per i comunisti 🙂 ma che l’America sopravvive a tutto perché crede in se stessa. Perché qua quando dici “we, the people” significa qualcosa.

E gli americani, quando gli fai notare una loro porcheria non dicono MAI “vabbè ma anche voi italiani”. Loro ti dicono “eh sì, questo paese è un disastro” e provano costantemente ad aggiustarlo. Noi ci crediamo perfetti, sempre migliori degli altri. O, nella peggiore delle ipotesi, uguali agli altri.

Sai chi difenderà la CNN che ha fatto causa a Trump per aver sospeso le credenziali a Jim Acosta? Ted Olson. Un avvocato repubblicano, per la precisione quello che difese George Bush nel ri-conteggio dei voti contro Al Gore. Olson è anche colui che ha sfidato la Corte Suprema, con David Boies, avvocato democratico, per abolire il divieto di matrimonio fra persone dello stesso sesso in California.

Perché quando si tratta di difendere ciò su cui si basa la grandezza di questo paese si annullano i partiti: si è solo americani.

Noi, italiani, non lo siamo diventati mai.

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Valentina Alferj ricorda Andrea Camilleri: “Mi manca il suo senso civile, le parole erano pietre”

L’ex assistente di Camilleri, Valentina Alferj, racconta il loro legame umano e professionale, dal metodo di scrittura condiviso fino al ruolo civile della parola.

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Valentina Alferj, per sedici anni accanto ad Andrea Camilleri (foto Imagoeconomica), oggi guida una sua agenzia letteraria. È reduce dalla prima edizione del Festival di Teatro della Biennale di Venezia, realizzata insieme a Willem Dafoe. In una lunga intervista al Corriere della Sera, racconta il suo legame con il grande scrittore siciliano.

L’ultimo saluto e una promessa di vita

«Lo salutai al telefono il giorno prima che perdesse conoscenza. Ero a Ischia, rientravo a Napoli in barca. Mi disse: sarà un viaggio bellissimo». Un saluto che Valentina ha trasformato in un impegno a celebrare ogni giorno l’esperienza condivisa con lui.

Una bottega di scrittura condivisa

Alferj incontrò Camilleri nel 2003 al Festival di Massenzio. Fu lui a cercarla il giorno dopo: «Hai degli occhi intelligenti, mi piacerebbe lavorare con te». Da allora, un rapporto professionale e umano che si è trasformato in una vera e propria “bottega” letteraria. Dopo la perdita della vista, Camilleri le chiese di scrivere con lui, dettando i romanzi. «Facevo da tubo catodico tra lui e la pagina bianca», racconta Alferj.

Il metodo Camilleri: rigore e musicalità

Ogni libro di Montalbano obbediva a una “gabbia narrativa”: numero fisso di capitoli, righe per pagina, ritmo preciso. Anche da cieco, Camilleri chiedeva: “Siamo a riga 15, vero?” La padronanza del ritmo narrativo era totale. Il vigatese, lingua in progress, era appreso da Valentina “leggendo e ascoltando”, per comprenderne evoluzioni e sonorità.

I personaggi di Camilleri erano reali

«I romanzi non nascevano da invenzione, ma da occasioni reali. Mio figlio Andrea e mia figlia Gilda, i problemi scolastici, la mia migliore amica: tutto diventava racconto». Camilleri trasformava ogni aneddoto quotidiano in letteratura.

L’eredità morale di un autore civile

Ciò che più le manca non è solo l’amico, ma la sua “responsabilità civile”. «Negli anni di pandemia e di guerre mi sono spesso chiesta cosa avrebbe detto lui». Per Camilleri, nato nel 1925, la parola “pace” aveva un valore assoluto. «Le parole erano pietre – afferma Alferj – le costruiva con il corpo, la voce, il silenzio. Non si poteva non ascoltarlo».

L’incontro con Willem Dafoe e la Biennale

L’incontro con Willem Dafoe, voluto da Pietrangelo Buttafuoco, l’ha portata a collaborare con la Biennale Teatro. «Dafoe sapeva dei miei trascorsi teatrali. E uno dei momenti più belli è stato il “Pinocchio” di Davide Iodice, anche lui allievo di Camilleri all’Accademia».

Il passaggio del testimone

Dalla bottega con Camilleri, alla creazione della sua agenzia letteraria, oggi con Lorenza Ventrone e Carmela Fabbricatore. «Mi ha insegnato che la peculiarità umana delle persone con cui lavoriamo è più importante di qualsiasi successo».

Alla fine, tutto torna a lui: «Vedo il disegno che i puntini compongono. E in quel disegno, intravedo il sorriso di Andrea Camilleri».

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Cultura

Riccardo Muti, 84 anni di musica e vita: «La mia giovinezza tra Napoli, il podio e un naufragio con Liliana Cavani»

Il Maestro racconta ricordi, passioni e visioni: dai compleanni senza fuochi alla fuga da Salisburgo, dalla difesa di Totò alla sua tenuta ai piedi di Castel del Monte

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«Un compleanno è solo un altro anno che passa. Vorrei togliermene uno alla volta». Riccardo Muti compirà 84 anni il 28 luglio e sceglie di vivere quel giorno con sobrietà, come ha sempre fatto, anche quando — racconta in una lunga intervista al Corriere della Sera — una notte di festa per i suoi 40 anni finì in un naufragio nel golfo di Napoli, in compagnia di Liliana Cavani, Ezio Frigerio e altri amici illustri.

Naufragio nel Golfo: «Ci salvò un rimorchiatore»

Era il 1981. Dopo una cena a Sorrento e una serata tra musica e amici, la traversata in motoscafo verso Capri si trasformò in un incubo: nebbia, luci confuse, una virata all’ultimo secondo per evitare un rimorchiatore. «L’acqua entrò a fiotti, ci salvarono i marinai». L’episodio finì sulla prima pagina del Mattino. E il Maestro ride ancora ricordando Verde Visconti che nel caos chiese un decaffeinato con lo zucchero.

Il circo del podio e le derive del politicamente corretto

Per Muti, il gesto sul podio deve servire la musica, non diventare uno show. «Siamo diventati una società che vede più che ascoltare. E molti direttori usano il podio come se fosse un palcoscenico personale». Come quando a Carlos Kleiber, alla Scala nel 1976, dal loggione gridarono “Povero Verdi”. Lui, da allora, non tornò più a Londra.

Il politicamente corretto lo preoccupa: «Cambiare i nomi di Ping, Pang e Pong in Jim, Bob e Bill è razzismo al contrario. Bisogna contestualizzare, non riscrivere». E sulla cultura popolare, non ha dubbi: Totò, Eduardo, Sordi erano sorgenti d’arte pura, non figli dell’Accademia.

Il legame con Napoli e la delusione per il San Carlo

Napoli è nel cuore di Muti, ma spesso delude: «Il San Carlo ha una storia gloriosa, ma nel mondo si parla di Napoli per ben altro». Nei suoi cinque anni al Festival di Pentecoste a Salisburgo ha portato la scuola musicale napoletana: «Le vie della città ricreate per raccontare la nostra bellezza». Eppure, continua, De Simone è stato dimenticato in vita, salvo poi essere celebrato a morte avvenuta.

Puglia, olio e un sogno ottagonale

Oltre a Napoli, c’è la Puglia: Castel del Monte, il castello ottagonale di Federico II, è per Muti una fonte di ispirazione. Ai suoi piedi ha comprato un terreno e lo coltiva, con la famiglia, a olivo. Ne nasce l’olio “Il Trionfo dell’ottagono”, omaggio anche a Philip Glass, che gli dedicò un brano.

La musica, la pace e il rimpianto più grande

«Cantare è proprio di chi ama», dice citando sant’Agostino. Di recente ha diretto a Ravenna 3.316 coristi da tutta Italia, e sogna di rifarlo. Ma l’ultimo pensiero è dedicato alla pace: «Quando vediamo bambini affamati nei telegiornali, non possiamo restare indifferenti». E ricorda che l’ultima parola della Messa in fa minore di Bruckner — che dirigerà a Salisburgo — è “pace”.

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Cultura

Riccardo Muti a Pompei: “Ogni ritorno in Campania è un tuffo nel mio passato. La cultura del Sud va difesa”

Riccardo Muti si racconta al Mattino: l’amore per Napoli, la formazione al San Pietro a Majella, l’omaggio a Rota e la difesa della cultura del Sud con la musica.

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Riccardo Muti torna in Campania e si lascia avvolgere dalla memoria. «Ogni ritorno a Napoli o a Pompei è un ritorno all’infanzia, all’adolescenza, alla nostalgia di un passato meraviglioso, di luoghi magici», racconta in una lunga intervista al Mattino. E lo fa alla vigilia del concerto che il 24 luglio dirigerà nell’anfiteatro degli scavi di Pompei con l’Orchestra Giovanile Cherubini.

Nel ricordo di quel ragazzo che a Pompei fece la Prima Comunione nella Basilica del Rosario e che a Napoli, tra il liceo Vittorio Emanuele e il conservatorio San Pietro a Majella, pose le basi di una carriera leggendaria, c’è tutta l’intensità di un uomo che continua a difendere la cultura del Sud.

Un programma per tutti, ma non semplice

Nel programma della serata, nell’ambito della rassegna “Beats of Pompeii”, brani popolari ma non banali: Bellini, Verdi, Rota e Ravel. «Sì, è musica che tutti conoscono, ma non per questo è semplice. È un repertorio che mostra diverse sfumature della grande musica sinfonica», spiega Muti.

In particolare, “Le quattro stagioni” di Verdi da I Vespri siciliani è un passaggio che il Maestro difende con forza: «È uno dei brani sinfonici più importanti di Verdi. Eppure viene spesso tagliato a teatro: è un errore. È un delitto tagliarlo».

L’omaggio a Nino Rota, il maestro dimenticato

Nel programma anche la celebre colonna sonora de Il Padrino di Nino Rota, di cui Muti parla con affetto e riconoscenza: «Fu lui a riconoscere il mio talento e ad indicarmi il percorso da seguire. È grazie a lui se ho fatto la strada che ho fatto».

Ma aggiunge con amarezza: «In Italia Rota non è ancora considerato come merita. È stato molto di più che un autore di colonne sonore: ha scritto musica sinfonica, operistica, da camera. Tutta da scoprire».

San Pietro a Majella: promesse ancora non mantenute

Il Maestro non nasconde la delusione per lo stato del Conservatorio di Napoli dove si formò: «L’ultima volta che sono passato da lì sono rimasto molto colpito negativamente. So che la Regione ha stanziato fondi importanti e che i lavori dovrebbero partire a novembre, ma in Giappone in questo tempo avrebbero costruito un grattacielo. Basta progetti infiniti. San Pietro a Majella è un patrimonio mondiale, non solo napoletano».

Pompei e i luoghi della cultura del Sud

Il concerto a Pompei è la tappa finale di un tour iniziato a Udine e passato da Lucca. Un ritorno, due anni dopo l’esibizione nel Teatro Grande degli Scavi in occasione delle “Vie dell’Amicizia”. Ma è anche una dichiarazione d’amore per la cultura meridionale.

«Pompei, Paestum, Agrigento… sono luoghi che raccontano la bellezza e la storia millenaria del Sud», dice. E ricorda l’emozione di suonare davanti al Tempio della Concordia o al Tempio di Nettuno, mentre si alzava la luna.

La missione di un uomo del Sud

«Vorrei che questi eventi non fossero episodi isolati, ma parte di un percorso culturale forte», afferma Muti con passione. E aggiunge: «Io, napoletano da parte di madre e pugliese da parte di padre, sento il dovere di difendere i valori della cultura meridionale, tanto più attraverso la musica, che è un linguaggio universale capace di unire i popoli».

La musica, per Muti, è un ponte verso la pace, uno strumento per rendere l’uomo migliore, un messaggio rivolto soprattutto ai giovani: «Devono amare le loro radici e la loro terra. Io continuo a farlo».

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