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Carabiniere in aula, 9 anni dopo, accusa due suoi colleghi: “Cucchi fu pestato con violenza in caserma”. Morì in ospedale 7 giorni dopo l’arresto

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L’udienza sta per iniziare. Alla sbarra degli imputati ci sono cinque carabinieri che rispondono della morte di Stefano Cucchi, il giovane romano con diploma da geometra con problemi di tossicodipendenza arrestato il 15 ottobre del 2009. Stefano Cucchi fu fermato dai carabinieri dopo essere stato visto cedere ad Emanuele Mancini delle confezioni trasparenti in cambio di una banconota. Portato immediatamente in caserma, viene perquisito e trovato in possesso di hashish, cocaina e una pasticca di un medicinale. Forse era un farmaco che assumeva perché epilettico. A causa della quantità di droga viene decisa la custodia cautelare.

Ilaria Cucchi. La sorella del ragazzo ucciso da sempre si batte per la verità

Cucchi non era quel che si dice il ritratto della salute, pur avendo 31 anni. Pesava 43 chilogrammi per 162 cm di altezza. Era malnutrito. Dopo l’arresto, però, cominciò per questo giovane un calvario. All’udienza per la conferma del fermo in carcere non si reggeva in piedi. Non riusciva a camminare e a parlare. Aveva ematomi agli occhi. Era nella mani dello Stato, in custodia. Morì all’ospedale Pertini la settimana dopo. Dall’autopsia risultava essere stato vittima di un violento pestaggio. Chi aveva pestato questo giovane al punto da farlo morire? Non s’è mai riuscito a capire fino in fondo. Troppe reticenze, depistaggi, versioni mai limpide di un arresto. In ogni caso, proprio in apertura dell’ennesima udienza di questo processo, che dura da 9 anni, il carabiniere Francesco Tedesco prende la parola e ammette il pestaggio. E già questo è un elemento di chiarezza. Per la prima volta c’è un carabiniere che ammette c’è stato un brutale pestaggio. Tedesco non si ferma a questa ammissione. No, lui accusa due colleghi, Raffaele D’Alessandro e Alessio Di Bernardo, della violenta aggressione.

“Fu un’azione combinata – racconta il carabiniere – Cucchi prima iniziò a perdere l’equilibrio per il calcio di D’Alessandro poi ci fu la violenta spinta di Di Bernardo che gli fece perdere l’equilibrio provocandone una violenta caduta sul bacino. Anche la successiva botta alla testa fu violenta, ricordo di avere sentito il rumore”. “Spinsi Di Bernardo -aggiunge Tedesco- ma D’Alessandro colpì con un calcio in faccia Cucchi mentre questi era sdraiato a terra”.

“Gli dissi ‘basta, che cazzo fate? Non vi permettete!”. Queste le parole che Tedesco disse ai suoi colleghi carabinieri Di Bernardo e D’Alessandro (anche loro imputati come lui di omicidio preterintenzionale, ndr) mentre uno “colpiva Cucchi con uno schiaffo violento in volto” e l’altro “gli dava un forte calcio con la punta del piede”. Si legge nel verbale di interrogatorio di Tedesco del 9 luglio 2018.

 Non è chiaro, al momento, se negli interrogatori resi davanti al pm, Tedesco abbia ammesso di aver partecipato al pestaggio con i due colleghi, ma quel che è certo è che, per la prima volta, uno degli imputati dichiara che quanto ricostruito dalla procura, a cominciare dal pestaggio del giovane, è realmente accaduto.

Il pm Giovanni Musarò ha reso nota un’attività integrativa di indagine dopo che uno dei carabinieri imputati, Francesco Tedesco, in una denuncia ha ricostruito i fatti di quella notte e ha “chiamato in causa” due dei militari imputati per il pestaggio. E’ stata trovata infatti un’annotazione di servizio in cui Tedesco riferiva del fatto, nota che sarebbe sparita.  Sotto processo ci sono Alessio Di Bernardo, Raffaele D’Alessandro e Francesco Tedesco, tutti imputati di omicidio preterintenzionale e abuso di autorità, Roberto Mandolini di calunnia e falso, e Vincenzo Nicolardi di calunnia.

“Il 20 giugno 2018 – ha detto il pm – Tedesco ha presentato una denuncia contro ignoti in cui dice che quando ha saputo della morte di Cucchi ha redatto una notazione di servizio”. Sulla base di questo atto, il rappresentante dell’accusa ha detto che è stato iscritto un procedimento contro

Le mille battaglie per far riaprire processi e chiedere verità su pestaggi in caserme

ignoti nell’ambito del quale lo stesso Tedesco ha reso tre dichiarazioni.

“In sintesi – ha aggiunto il pm – ha ricostruito i fatti di quella notte e chiamato in causa gli altri imputati: Mandolini, da lui informato; D’Alessandro e Di Bernardo, quali autori del pestaggio; Nicolardi quando si è recato in Corte d’Assise, già sapeva tutto”. I successivi riscontri della procura hanno portato a verificare che “è stata redatta una notazione di servizio – ha detto il pm – che è stata sottratta e il comandante di stazione dell’epoca non ha saputo spiegare la mancanza”.

Era una verità giudiziaria che i magistrati inquirenti avevano inquadrato da una vita ma che non riuscivano a portare nel processo a causa di quel muro di omertà che si era steso come una cappa nella caserma dove Cucchi, a questo punto, sulla base delle dichiarazioni di un carabinieri presente, fu picchiato in maniera così brutale da causarne una morte atroce.  Ilaria Cucchi, la sorella di Stefano, parla di “muro che è crollato”. Il muro è quello dell’omertà che impediva di far conoscere la verità. Una verità che però non deve infangare una intera istituizone, l’Arma dei Carabinieri. Perchè se omertà c’è stata va individuata in quel gruppo di militari che si sono coperti a vicenda per nascondere alla magistratura prove documentali anche di quello che sembra a tutti gli effetti un omicidio. Preterintenzionale? I carabinieri non volevano uccidere Stefano Cucchi? Così sembra. Ma l’hanno ucciso.

Nel procedimento Alessio Di Bernardo, Raffaele D’Alessandro e Francesco Tedesco, rispondono di omicidio preterintenzionale. Tedesco risponde anche di falso nella compilazione del verbale di arresto di Cucchi e calunnia insieme al maresciallo Roberto Mandolini, all’epoca dei fatti a capo della stazione Appia, dove venne eseguito l’arresto. Vincenzo Nicolardi, anche lui carabiniere, è accusato di calunnia con gli altri due, nei confronti degli agenti di polizia penitenziaria che vennero accusati nel corso della prima inchiesta sul caso.

Queste le parole che ha pubblicato sul suo profilo FB Ilaria Cucchi, la sorella di Stefano. Ha speso una vita questa donna per far aprire un processo, per farlo celebrare, per far cadere il muro (così lo chiama lei) che era stato eretto tra la morte del fratello e la verità.

Dal profilo Fb di Ilaria Cucchi.

“Ci chieda scusa chi ci ha offesi in tutti questi anni.
Ci chieda scusa chi in tutti questi anni ha affermato che Stefano è morto di suo, che era caduto.
Ci chieda scusa chi ci ha denunciato.
Sto leggendo con le lacrime agli occhi quello che hanno fatto a mio fratello.
Non so dire altro.
Chi ha fatto carriera politica offendendoci si deve vergognare.
Lo Stato deve chiederci scusa. Deve chiedere scusa alla famiglia Cucchi.”

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Giffone (RC), i Carabinieri scoprono e distruggono la quinta piantagione di marijuana in pochi giorni

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Continuano le operazioni di contrasto alla coltivazione illegale di marijuana nel comune aspromontano di Giffone. I Carabinieri della Compagnia di Taurianova, supportati dallo squadrone eliportato “Cacciatori di Calabria”, hanno scoperto e distrutto un’altra vasta piantagione di marijuana nascosta in una zona boschiva e impervia. Questa è la quinta piantagione individuata nel giro di pochi giorni.

Durante l’ultimo intervento, i militari hanno rinvenuto oltre 2500 piante di marijuana, alcune delle quali superavano i due metri di altezza e si trovavano già in uno stato avanzato di crescita, pronte per essere raccolte. Sul posto, è stato sorpreso un giovane di 21 anni, residente a Giffone, mentre controllava lo stato di maturazione delle piante e gestiva un sofisticato sistema di irrigazione.

L’operazione ha impedito la produzione di oltre 70 mila dosi di marijuana, che avrebbero avuto un valore di mercato di circa 600.000 euro. Grazie all’intervento tempestivo dei Carabinieri, le piante sono state estirpate e sequestrate, prevenendo così l’immissione sul mercato illegale degli stupefacenti.

Attualmente, il procedimento è nella fase delle indagini preliminari. La responsabilità del giovane arrestato sarà valutata nel corso del successivo processo, in base alla fondatezza delle accuse mosse a suo carico. Non si escludono ulteriori sviluppi investigativi e probatori, anche in favore della persona indagata.

L’impegno dei Carabinieri nel contrastare la coltivazione e il traffico di droga continua a dare risultati significativi. La scoperta e la distruzione di queste piantagioni rappresentano un importante passo avanti nella lotta contro il mercato illegale degli stupefacenti, contribuendo a proteggere la salute pubblica e la sicurezza della comunità.

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Magnate asiatico Kwong, mai pagato o conosciuto Boraso

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Il magnate singaporiano Ching Chiat Kwong si chiama ‘fuori’ dalle accuse che lo inseriscono nell’inchiesta di Venezia, sostenendo di non aver “mai pagato, ne’ conosciuto” l’assessore Renato Boraso, in carcere per corruzione. Kwong, indagato dai pm Roberto Terzo e Federica Baccaglini, ha fatto conoscere la sua posizione attraverso il proprio difensore, l’avvocato Guido Simonetti. Nelle carte dell’accusa il miliardario asiatico è chiamato in causa – per l’acquisto dei due palazzi veneziani Donà e Papadopoli, e per la trattativa sui ‘Pili’ – assieme a Luois Lotti, suo plenipotenziario in Italia, e Claudio Vanin, imprenditore prima con loro in affari, ora ingaggiato in una dura lotta legale con Lotti.. A Venezia c’è intanto attesa per capire quali saranno le mosse del sindaco Luigi Brugnaro, a sua volta indagato, che pressato dei partiti della sua maggioranza – in particolare Fdi – ha deciso di anticipare al 2 agosto (prima era il 9 settembre) la data del chiarimento in Consiglio Comunale. Brugnaro continua a lavorare, e non ha intenzione di presentarsi dimissionario.

E se può essere suggestivo accostarvi oggi le dimissioni di Giovanni Toti, suo ex compagno di avventura in ‘Coraggio Italia’, da ambienti vicini a Ca’ Farsetti si fa notare come le due vicende siano “completamente diverse”. Brugnaro è indagato per concorso in corruzione con i due dirigenti dell’ufficio di gabinetto Morris Ceron e Derek Donadini. Quando scoppiò l’inchiesta il Procuratore Bruno Cherchi aveva sottolineato che l’iscrizione del sindaco nel registro era stata fatta solo “a sua tutela”. I chiarimenti veri, tuttavia, non saranno possibili fino a quando i nomi di peso finiti nell’inchiesta non decideranno di presentarsi davanti ai magistrati. Oggi intanto ha provato a chiarire la propria posizione l’uomo d’affari singaporiano “Ching Chiat Kwong – ha dichiarato l’avvocato Simonetti – “non ha mai disposto né effettuato (neppure tramite persone terze) il pagamento di una somma nei confronti dell’assessore Renato Boraso”.

Inoltre “non ha mai neppure conosciuto l’assessore Renato Boraso”. E sulle due operazioni portate a termine da Kwong a Venezia, viene sottolineato che i due edifici citati nell’inchiesta, palazzo Donà e palazzo Papadopoli, “sono stati acquistati attraverso una procedura ad evidenza pubblica e a prezzi in linea (se non superiori) al loro valore di mercato”. Nelle carte dell’inchiesta, l’accusa sottolinea tuttavia che proprio per far abbassare il valore di acquisto di palazzo Papadopoli, da 14 mln a 10,7 mln, Boraso avrebbe ricevuto da Kwong “”per il tramite dei suo collaboratori”, la somma di 73.200 euro, attraverso due fatture da 30.000 euro più Iva, emesse da una società dell’assessore, la Stella Consuting, per una consulenza “in realtà mai conferita, ne’ eseguita”. Quanto all’affare, poi sfumato, dei Pili, l’avvocato di Kwong evidenzia “come la trattativai non si sia in alcun modo mai concretizzata, fermandosi ad uno stadio del tutto embrionale”.

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‘Sgomberate la Vela’, l’ordinanza del 2015 mai eseguita

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Un’ordinanza datata ottobre 2015 metteva in guardia dal pericolo crolli: la Vela Celeste va sgomberata, il succo di una relazione del Comune di Napoli messa nero su bianco. La firma in calce è quella del sindaco dell’epoca, Luigi de Magistris. Un sos che non troverà mai seguito e di cui oggi la città piange le conseguenze dopo il crollo del ballatoio-passerella che lunedì sera ha determinato la morte di tre persone e il ferimento di altre dodici. Dunque, non solo il documento datato 2016 che denunciava la mancata manutenzione dei ballatoi della Vela Celeste di Scampia con relativo rischio crollo, dal passato emerge anche un’altra carta che chiama in causa l’immobilismo delle istituzioni. Perché quell’ordinanza di sgombero coatto non è mai stata presa in considerazione?

E perché si è preferito agire con degli accorgimenti che sanno di palliativo piuttosto che affrontare di petto l’emergenza segnalata da quel documento pubblicato sull’albo pretorio del Comune? Domande in attesa di risposta e sulle quali la procura di Napoli – che ha aperto un’indagine contro ignoti per crollo colposo e omicidio colposo – intende fare chiarezza. L’ordinanza firmata de Magistris – è quanto emerge – era dettata dalla necessità di tutelare l’incolumità di 159 famiglie per un totale di 600 persone residenti nella Vela Celeste. Alla base del provvedimento c’era la relazione di un dirigente comunale che delineava un quadro di pericolo allarmante. Anche la politica chiede di fare chiarezza.

A partire dalla segretaria del Pd Elly Schlein che ne ha parlato al festival di Giffoni: “È un tragedia drammatica – ha detto -. Abbiamo immediatamente espresso tutta la nostra vicinanza alle persone, alle famiglie, al quartiere colpito. C’è da fare luce su quello che è accaduto perché non può succedere una cosa del genere”. Fare luce è quello che intende fare la Procura di Napoli che ha disposto l’ampliamento dell’area sottoposta a sequestro, dal terzo piano fino al piano terra. Le verifiche stanno riguardando anche le posizioni dei residenti nella Vela “incriminata” che, in gran parte, secondo quanto si apprende da fonti qualificate, risulterebbero abusivi. E intanto si sta rivelando più difficoltosa del previsto l’acquisizione della copiosa documentazione amministrativa sulla Vela Celeste. Si tratta in particolare degli atti relativi al progetto di riqualificazione ReStart e alla manutenzione del complesso di edilizia popolare con relative negligenze che oramai sono date per scontate. Fondamentali saranno per gli inquirenti le risultanze del lavoro affidato al perito, un ingegnere strutturista forense. Conferito, infine, l’incarico per gli esami autoptici sui corpi delle tre vittime.

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