Campi accoglienza migranti. Nelle foto di Mario Laporta per Kontrolab un campo di accoglienza
Quattro euro al giorno per ogni migrante assistito. Quattro euro e 10 centesimi solo per fargli avere fino a destinazione, ovvero il centro di accoglienza, colazione, pranzo e cena serviti a tavola. Merendina e latte la mattina. Primo, secondo con contorno, pane, acqua, frutta e posate entro le 13 ed entro le 18 30. I contratti stipulati con le cooperative che gestiscono i centri di accoglienza con aziende che si occupano di ristorazione sono più o meno sempre gli stessi. Possono cambiare le cifre, in alcuni casi a danno della qualità possono spuntare prezzi migliori, ma capirete che parliamo di una cifra già risibile per dare pane e companatico decente ad un essere umano tutto il giorno. Peraltro, in questi contratti di somministrazione forse visionati e collezionati anche dalle prefetture d’Italia, che di fatto hanno in mano la borsa dell’affare accoglienza, si possono prevedere là dove necessario anche pasti per regimi alimentari specifici per questioni di salute (diabetici, iposodici) o religiose (alimentazione per musulmani).
In Campania, alcune importanti aziende che si occupano di ristorazione e che hanno siglato contratti di somministrazione di pasti con le cooperative o società ad hoc che gestiscono i migranti nei centri di accoglienza sparsi su tutto il territorio regionale, da un anno circa (in alcuni casi casi anche di più) non vengono pagate con gravi danni e pericoli anche per le stesse aziende fornitrici di pasti intanto tenute a pagare tasse, dipendenti e prodotti da servire quotidianamente .
Servizio mensa regolarmente svolto. Fatture emesse ma non liquidate. Di conseguenza contenziosi giudiziari per ottenere i dovuti pagamenti dai gestori dei migranti che con il passar del tempo possono anche danneggiare seriamente la migliore azienda fornitrice impossibilitata a rientrare dei propri legittimi crediti .
A view of immigrants slum of San Ferdinando, near Gioia Tauro Harbour, some 300 immigrants live inside the slum. In the last week 16 immigrants died in southern Italy in two serious road accidents. the migrants traveled after work in the fields in vans without the minimum safety requirements.
Non abbiamo accesso alla intera documentazione che riguarda questo servizio in Campania ma parliamo di cifre importanti, milioni di euro, anche perchè sono cifre relative ad un servizio che viene fornito regolarmente a migliaia di persone. Onde evitare di sparare numeri a caso e rendere un cattivo servizio alla verità, prendiamo in esame un caso concreto.
Un problema che può diventare esplosivo e di cui dovrà occuparsi il ministro dell’Interno, Matteo Salvini, proprio domani quando sarà in visita a Napoli, in Prefettura, per presiedere un Comitato per l’ordine e la sicurezza pubblica convocato appositamente per Napoli e Caserta.
Succedono cose strane in questo pezzo Italia in questi mesi. La mafia della monnezza sta bruciando gli impianti per il trattamento dei rifiuti per far ripiombare il sistema nel caos e tornare a fare affari sulla monnezza. Come faceva e continua a are. Ma torniamo all’affare dei migranti.
A view of immigrants slum of San Ferdinando, near Gioia Tauro Harbour, some 300 immigrants live inside the slum. In the last week 16 immigrants died in southern Italy in two serious road accidents. the migrants traveled after work in the fields in vans without the minimum safety requirements.
A fine mese una primaria azienda di ristorazione napoletana che ha in essere contratti di somministrazione di pasti con alcune cooperative e società che gestiscono centri di accoglienza con decine di migranti, come formalmente comunicato ai soggetti inadempienti e per conoscenza alla Prefettura per la delicatezza e serietà della problematica, sarà costretta a sospendere il servizio. Scaduti i termini fissati nelle ingiunzioni di pagamento a carico dei debitori se questi entro 24 ore non pagheranno le fatture emesse per le prestazioni effettuate nell’ultimo anno, i pasti non saranno più erogati e i migranti rischieranno di non potersi nutrire. E si sa, quando c’è fame, è difficile controllare centinaia di persone. Quindi all’orizzonte ci sono certamente questioni economiche da affrontate ma anche problemi di ordine e sicurezza pubblica là dove i pasti non verranno serviti e se non ci saranno piani alternativi per soddisfare i morsi della fame dei migranti accolti.
Intanto, questa azienda di ristorazione di cui parliamo, ha già dato mandato all avvocato Angelo Pisani di depositare decreti ingiuntivi a carico delle cooperative e società debitrici per poi procedere alla procedura esecutiva e pignoramenti presso terzi, ossia alla Prefertura cui si chiede di non pagare tali cooperative ma prima l’azienda che regolarmente ha prodotto e garantito i pasti senza esser pagata , per poter incassare i soldi delle fatture emesse ed ancora ingiustificatamente inevase come dichiara negli atti l’avvocato Pisani. Dagli atti risulta che ci sono almeno due cooperative (Cooperativa sociale Samira, Cooperativa San Martino) e una società “la San Giuseppe Gestioni srl” che riceveranno procedure esecutive o hanno già ricevuto ingiunzioni senza fornire alcun riscontro . La Samira deve pagare 365.522 euro. San Giuseppe Gestioni 217.427 euro; San Martino 71.921 euro. La cifra che questa azienda di ristorazione napoletana vanta da queste tre cooperative che abbiamo citato (ma siamo a conoscenza anche di altri casi e non si sa quanti ancora c’è ne sono in giro ) si aggira intorno ai 700 mila euro.
A partire dal giorno in cui le tre cooperative riceveranno notifica del decreto ingiuntivo, avranno a disposizione giorni altri giorni per pagare ma intanto l’avvocato Pisani ha formalmente avvisato la Prefettura di Napoli delle violazioni contrattuali dei suoi gestori di migranti e del pericolo della sospensione delle forniture pasti per il mancato pagamento che non permette più la produzione ed assistenza .
Ma quanti altri casi come i tre che abbiamo appena citato ci sono in Campania? Quanti altri dello stesso tipo ci sono in Italia? Difficile rispondere a questa domanda perchè la cura e l’assistenza dei migranti in Italia era ed è un affare per pochi. E qui i migranti non sono protagonisti ma vittime di chi sulla loro pelle fa affari. Ci sono troppi improvvisati benefattori che all’improvviso sono diventati imprenditori del sociale, hanno improvvisato on lus, aperto società per gestire, col beneplacito delle prefetture, migranti che in questi anni sono arrivati dall’altra parte del Mediterraneo. Quello che accade tra Prefetture e queste aziende che sono titolari di centri di accoglienza è un terreno minato dove ogniqualvolta un magistrato decide di vederci chiaro finisce in galera qualcuno.
Purtroppo la lista delle illiceità, irregolarità, reati commessi che emergono dagli accertamenti effettuati sono quasi sempre gli stessi, dalle Alpi a Mazara del Valli. Cooperative che per misteriosi motivi riescono a farsi assegnare convenzioni per accogliere migranti fornendo nella richiesta un indirizzo cui non corrisponde alcuna struttura di accoglienza ma case private personali.
Società di servizi che accolgono migranti in centri pubblici ma richiedono affitti come se fossero di loro proprietà, posti che presentano “carenze igienico-sanitarie”, centri in immobili abusivi, senza certificato di agibilità. E potremmo andare avanti all’infinito nel descrivere inchieste già concluse o in via di ultimazione.
Ora però qualcosa si è bloccato. Il Viminale ha chiuso i rubinetti. Non esce più un centesimo. Il ministro ha chiesto accertamenti sul meccanismo di funzionamento della spesa in ogni singola prefettura e a breve spiegherà come e fino a che punto vuole tagliare la retta giornaliera che lo Stato spende per ogni migrante ospitato in Italia. Ad oggi sono 32,50 euro per vitto e alloggio e 2,50 euro per i pocket money. Il ministro Salvini dice che il taglio sarà drastico, intanto ci sono aziende che hanno prestato un servizio (quello dei pasti) che vantano crediti per centinaia di migliaia di euro e rischiano di fallire perchè le cooperative non pagano. Come se ne esce da questa brutta storia?
Pino Daniele, uno dei cantautori più amati della musica italiana, viveva il suo ultimo capitolo sentimentale con Amanda Bonini (foto tratta dal profilo Fb della signora Bonini), maestra elementare, in una relazione che definiva “all’antica”. «Dopo due famiglie, non smetto di credere nell’amore, perché se smetti di crederci, non vivi più», raccontava il cantautore in una delle sue ultime interviste. Con Amanda condivideva una visione della vita fatta di cose semplici, lontane dalle sovrastrutture del successo.
Amanda rappresentava per Pino un ritorno alle sue radici, al valore delle piccole cose. Una relazione che univa due mondi apparentemente lontanissimi: lui, superstar della musica, e lei, una donna normale, immersa nel mondo dell’educazione e della vita quotidiana.
La tragica notte del 4 gennaio 2015
A breve ricorreranno dieci anni dalla scomparsa di Pino Daniele, avvenuta il 4 gennaio 2015, in circostanze che Amanda Bonini ripercorre con emozione nel libro di Pietro Perone, Pino Daniele. Napoli e l’anima della musica. In quella notte drammatica, la coppia era a Magliano, in Toscana, dove avevano scelto di vivere per allontanarsi dal caos della città. Quando Pino accusò un grave malore, insistette per essere portato a Roma, al Sant’Eugenio, convinto che solo il suo cardiologo di fiducia potesse salvarlo.
«Durante il viaggio — racconta Amanda — Pino mi ha tenuto la mano, fino a quell’ultima doppia stretta, il suo ciao». La decisione di non aspettare un’ambulanza è stata oggetto di critiche, ma Amanda spiega: «Avrei provocato la sua ira e peggiorato la situazione. Piuttosto, non mi spiego perché dal Sant’Eugenio non sia partito un mezzo di soccorso cardio-assistito che ci venisse incontro».
Un ritorno alla normalità
Amanda e Pino avevano costruito una vita serena e semplice, fatta di routine e momenti quotidiani. Dopo un periodo a Roma, avevano scelto di trasferirsi a Magliano, un luogo tranquillo e vicino al lavoro di Amanda. «Alle sei e trenta uscivo di casa per andare a scuola, tornavo nel primo pomeriggio», ricorda Amanda. Questa normalità era per Pino un tuffo nelle sue origini, un ritorno al sale della vita di strada.
Pino si interessava al lavoro di Amanda, alle metodologie educative, e in particolare alle difficoltà vissute dalle famiglie con bambini disabili. Questi momenti, fatti di domande e riflessioni, lo riportavano a contatto con una realtà autentica, lontana dai riflettori e dal successo.
La serenità di Magliano e il ricordo di Pino
A Magliano, Pino Daniele aveva trovato un rifugio. Il piccolo paese sulle colline toscane rappresentava per lui un luogo di pace, dove poter vivere lontano dal caos delle metropoli e riscoprire una dimensione più autentica. Oggi, le sue ceneri riposano nel punto più alto del cimitero del paese, un luogo speciale per un artista che aveva scelto di vivere “felice e all’antica” con la sua compagna.
Dieci anni dopo: il ricordo di un grande artista
A dieci anni dalla scomparsa di Pino Daniele, il ricordo del cantautore vive non solo nella sua musica, ma anche nei racconti di chi gli è stato accanto. Amanda Bonini rappresenta un pezzo importante di quel ricordo, un amore che ha saputo riportare Pino alle sue origini e alla bellezza della vita semplice.
«Non sono stato io ad uccidere Emanuele». Così si è difeso F.A., il 15enne indagato per il coinvolgimento nell’omicidio di Emanuele Tufano, avvenuto lo scorso 24 ottobre in una traversa di corso Umberto, nei pressi di piazza Mercato a Napoli (nella foto il lugo del delitto). Durante l’interrogatorio condotto dal pm dei minori Claudia De Luca e dai pm della Procura di Napoli, F.A. ha ammesso di aver fatto fuoco con una pistola ma ha escluso categoricamente di essere l’autore del colpo fatale.
Difeso dall’avvocata Immacolata Spina, il ragazzo ha raccontato che il suo gesto sarebbe stato una reazione al fuoco aperto dal gruppo di cui faceva parte la vittima: «Hanno cominciato a sparare loro».
Il caos della notte del 24 ottobre
Secondo la ricostruzione degli inquirenti, la notte dell’omicidio ha visto contrapporsi due gruppi: uno proveniente dal rione Sanità, guidato da Emanuele Tufano e composto da circa 15 scooter, e l’altro del rione Mercato, con almeno quattro ragazzi a bordo di due moto. Il gruppo di Tufano avrebbe cercato di presidiare la zona di piazza Mercato in una chiara provocazione.
Quando sono partiti i colpi, il caos è stato totale. I ragazzi del rione Mercato hanno abbandonato le moto, cercando riparo dietro bidoni della spazzatura e auto parcheggiate. In quel momento, F.A. avrebbe impugnato una pistola e sparato. Tuttavia, le indagini hanno rivelato che nella sparatoria sono state utilizzate almeno quattro armi, e che in totale sono stati esplosi una ventina di colpi. È possibile che Emanuele sia stato colpito da un proiettile proveniente dal fuoco incrociato.
Le indagini e i punti oscuri
La Squadra Mobile, sotto la guida del primo dirigente Giovanni Leuci, sta lavorando per chiudere il cerchio attorno ai responsabili del conflitto a fuoco. Oltre a F.A., è stato interrogato un altro giovane indagato, un 17enne assistito dall’avvocato Mauro Zollo. Entrambi hanno fornito versioni parziali, contraddistinte da omertà e amnesie: nessuno dei due ha fatto nomi o riconosciuto complici nelle foto mostrate dagli investigatori.
Le indagini si concentrano ora sull’analisi delle immagini delle telecamere di sorveglianza presenti nella zona e sui rilievi balistici per determinare l’arma che ha ucciso Emanuele Tufano.
Un giovane indagato senza prospettive
F.A., al centro dell’inchiesta, ha dichiarato di trascorrere il tempo chiuso in casa, lontano dalle strade del suo quartiere. Non va a scuola, non lavora, e attende gli sviluppi di un’inchiesta che lo ha coinvolto in uno degli episodi di violenza giovanile più gravi degli ultimi mesi a Napoli.
Una città ferita tra silenzi e violenza
L’omicidio di Emanuele Tufano rappresenta l’ennesimo caso di violenza tra giovani nella città partenopea, aggravato da un muro di omertà che complica il lavoro degli inquirenti. Tra video su TikTok, pistole facili e quartieri in tensione, Napoli continua a fare i conti con un problema sociale e criminale che coinvolge adolescenti sempre più giovani, privi di opportunità e abbandonati a una vita senza regole né prospettive.
Le mafie sparano meno, uccidono meno e si mostrano meno, ma mai come oggi hanno avuto tanto potere. Questo è il quadro tracciato dal procuratore di Napoli Nicola Gratteri (foto Imagoeconomica in evidenza) e dall’analista Antonio Nicaso nel libro “Una cosa sola”, pubblicato da Mondadori. Il testo esplora come le organizzazioni criminali si siano integrate nell’economia globale, sfruttando lacune normative, connivenze politiche e tecnologie avanzate.
«Le mafie sono una macchina perfetta di riciclaggio», spiegano gli autori, mettendo in evidenza la loro capacità di mimetizzarsi e infiltrarsi nei settori chiave dell’economia, dalla finanza alle energie rinnovabili, passando per il mercato immobiliare.
Il modello mimetico: mafie e finanza
Uno degli aspetti più preoccupanti emersi dal libro è l’uso sofisticato di strumenti finanziari per riciclare denaro sporco. Tra questi spiccano i “non performing loans” (NPL), ovvero crediti deteriorati acquistati per essere rivitalizzati e utilizzati per legittimare capitali di origine illecita. È il caso di Raffaele Imperiale, ex broker del narcotraffico, che ha svelato come la camorra utilizzi l’ingegneria finanziaria per nascondere proventi illeciti.
Imperiale, famoso per aver custodito due quadri di Van Gogh rubati ad Amsterdam, ha collaborato con la giustizia rivelando dettagli sul riciclaggio tramite debiti deteriorati e l’utilizzo di criptovalute, strumenti sempre più presenti nei circuiti criminali.
Nuove frontiere: dark web e petrolmafie
Le mafie si espandono rapidamente, adattandosi a nuovi strumenti tecnologici e settori economici. Dal dark web alle criptovalute, fino alla commercializzazione fraudolenta di prodotti petroliferi, il loro raggio d’azione si amplia continuamente.
Il caso delle petrolmafie, indagato nel 2021 da quattro Procure italiane, ha evidenziato la capacità delle cosche di collaborare per gestire un business miliardario nella distribuzione di prodotti petroliferi. Clan come i Moccia, i Mancuso e i Piromalli hanno costruito un sistema complesso e integrato, dimostrando quanto le organizzazioni criminali siano ormai un attore economico rilevante.
Una risposta legislativa insufficiente
Secondo gli autori, l’attuale normativa antimafia, basata sul 416bis del codice penale, appare sempre più inadeguata per affrontare le mafie del nuovo millennio. Come sottolinea il procuratore nazionale antimafia Giovanni Melillo, il radicamento territoriale, elemento cardine della legislazione attuale, non basta più a descrivere organizzazioni che operano a livello globale e si integrano perfettamente nell’economia legale.
Le nuove tecnologie, come i criptofonini e i droni, offrono alle mafie strumenti per mantenere contatti tra boss detenuti e affiliati liberi, complicando ulteriormente il contrasto alle attività criminali.
Una sfida politica e legislativa
Le mafie si evolvono e si adattano più rapidamente delle risposte politiche e legislative. Gratteri e Nicaso lanciano un monito: per contrastare efficacemente il crimine organizzato serve un ripensamento radicale delle strategie di lotta, che tenga conto della crescente integrazione delle mafie nell’economia globale e del loro uso avanzato delle tecnologie.
«Non si può più ignorare il carattere sistemico del fenomeno», concludono gli autori, sottolineando che il contrasto alle mafie richiede non solo un aggiornamento delle leggi, ma anche una maggiore consapevolezza dell’opinione pubblica.