Sono trascorsi quasi sei mesi da quando il piccolo Alfie Evans è morto. I genitori poche settimane fa hanno dato alla luce un altro figlio. Il “piccolo guerriero” di quasi due anni smise di lottare contro la malattia neurodegenerativa di cui era affetto dalla nascita. A nulla servirono gli appelli della coppia britannica per mantenerlo in vita e anche l’Italia si era spesa per trovare una cura. Su quella storia di sentimenti e risentimenti per quel che si poteva ancora fare, c’è questo commento di Nicola Graziano.
Alfie nasce a Liverpool e a soli sette mesi viene ricoverato nel reparto di terapia intensiva dell’Alder Hey Children’s Hospital di Liverpool perché affetto da una patologia neurologica degenerativa non ancora conosciuta.
Nel dicembre 2017 l’equipe medica stabilisce che la ventilazione artificiale che tiene in vita Alfie deve essere sospesa perché il bambino non ha alcuna possibilità di guarire. L’ospedale Alder Hey, inoltre, dichiara di aver esaurito tutte le opzioni possibili per Alfie e si oppone al desiderio dei genitori di trasferire il piccolo all’ospedale pediatrico Bambino Gesù di Roma per tentare nuove cure sperimentali.
Ma i genitori Kate e Tom non si arrendono alla possibilità che venga staccata la spina dei macchinari che tengono in vita il loro angelo e si oppongono (siamo agli inizi del 2018) da subito alla richiesta: non essendoci accordo tra medici e famiglia, le legge inglese prevede che intervenga un giudice. Il caso, quindi approda all’Alta Corte inglese e il 20 febbraio 2018 il giudice decide in favore dei medici dell’Alder Hey, valutando che la sospensione della ventilazione sia nel migliore interesse del piccolo.
La Corte suprema britannica, a cui spetta l’ultima parola, rifiuta di riaprire il caso, dopo che l’Alta Corte di giustizia, la Corte d’appello e la Corte suprema si erano già pronunciate a favore della scelta dell’ospedale di staccare i supporti vitali al piccolo Alfie.
E’ il 24 aprile 2018 e intorno alle 22.30 (ora locale) vengono staccate le macchine per la respirazione. Dopo il distacco del ventilatore, i medici dell’Alder Hey Hospital di Liverpool, visto che il piccolo continuava a vivere, sono stati costretti dopo alcune ore a idratarlo nuovamente. Il padre dichiara di averlo tenuto in vita, anche attraverso la respirazione bocca a bocca.
L’agonia dura pochi giorni perché alle 2.30 del 28 aprile 2018 il piccolo Alfie muore.
E adesso?
Non è facile dare una risposta all’interrogativo perché è di tutta evidenza che la morte del piccolo Alfie non è una morte silenziosa, tutt’altro!
Essa apre la discussione su temi che vanno oltre il significato profondo del conflitto tra la vita e la morte basato sulla malattia e sulla sofferenza, perché gli interrogativi che si pongono alla nostra attenzione sono ben altri e a dir poco devastanti.
Colpisce, attraverso la decisione di un giudice terreno, quel conflitto tra i genitori del piccolo Alfie ed i medici inglesi chiamati a difendersi nel giudizio per la definitiva scelta di interrompere o meno l’idratazione ovvero di allentarla fino alla morte.
E le parole sono tragiche: tutto questo è scelto e deciso per realizzare il migliore interesse del bambino che prevale anche rispetto alla volontà dei genitori, cui non resta che respirare bocca a bocca con il loro guerriero per accompagnarlo alla inesorabile fine della sua vita, così trasmettendo, oltre che aria nei suoi polmoni, anche brandelli di anima in tempesta.
Ma nonostante ciò negli atti del processo è scolpita a freddo la seguente considerazione: “anche se è improbabile che egli soffra, è evidente che la sua capacità di sentire qualsiasi stimolo vitale, incluso il tocco di sua madre, è ormai distrutta irrimediabilmente”.
Sono parole che fanno sbandare ovvero quasi smarrire la strada maestra dei principi fondamentali della esistenza in vita di ognuno di noi e che relegano nell’angolo più oscuro il valore profondo delle carezze di una madre.
E non alludo solo ai valori della volontà del malato (visto che il piccolo Alfie non aveva la capacità di scelta bisognava far riferimento a quella dei loro genitori) davanti alla scelta di continuare una cura che può significare accanimento terapeutico e nemmeno al valore della dignità, specie se è quella di un malato.
Volontà e dignità, da questo punto di vista, presuppongono la personalissima capacità di scelta del malato che si manifesta nella assoluta libertà, anche di evitare cure palliative che conducono fino alla morte senza alcuna anticipazione attraverso scelte, attive e/o omissive, dell’uomo. Questo, infatti, presuppone una capacità ovvero una scelta in vista della sopravvenuta incapacità che si manifesta in consapevoli disposizione sull’eventuale trattamento sanitario.
Nel caso di Alfie no! In questa vicenda balza drammaticamente agli occhi che è in gioco il sentimento della pietà davanti ad una scelta che per certi versi può sembrare anche distante dal concetto di eutanasia omissiva, se, andando oltre ogni considerazione medica, si dovesse pensare per un solo momento che attraverso quella respirazione bocca a bocca si trasmettessero germi di vita, se la vita a volte è semplice amore infinito e immensa illusoria speranza.
Non mi cimento nel disegnare il profondo confine della pietà ma semplicemente mi interrogo e mentre lo faccio non so più se, davanti a casi come quello del piccolo Alfie, esiste un superiore interesse che, fondendosi con la pietà, diventa la pietà stessa o ci allontana da questo sentimento che non è solo compassione e rispetto ma integra la forma più sublime di amore.
Proprio nell’anno che celebra i 700 anni dalla morte di Marco Polo, è stato ritrovato un manoscritto del Devisement dou monde/Milione presente nei cataloghi, ma ignoto agli studi su Marco Polo (è assente da tutti i censimenti del Milione) che risulta essere l’ultimo dei codici oggi noti in ordine di tempo del testo del grande viaggiatore veneziano. Sono 145 raggruppati in diverse famiglie.
Il ritrovamento, che si inserisce nel più ampio lavoro sul Milione coordinato da Eugenio Burgio, Marina Buzzoni e Samuela Simion dell’Università Ca’ Foscari Venezia e Antonio Montefusco dell’Università di Nancy, riveste notevole interesse perché aggiunge nuove importanti informazioni riguardo alla trasmissione del testo e alle sue varie versioni. La storia della diffusione del Milione è in effetti una delle più intricate e appassionanti della letteratura medievale: il successo dell’opera determinò una fioritura di traduzioni, riscritture, adattamenti, riflesso dei numerosi ambienti in cui il testo fu letto.
Il manoscritto è un testimone quasi ignoto di una traduzione realizzata mentre Marco era ancora vivo, ed è da questa traduzione che derivano le versioni con cui il Milione venne conosciuto e letto. Il manoscritto è conservato nella Biblioteca Diocesana Ludovico Jacobilli di Foligno, con segnatura Jacobilli A.II.9, e trasmette la traduzione che gli studiosi chiamano VA, realizzata entro il primo quarto del Trecento nell’Italia nord-orientale.
L’importanza di questa traduzione risiede soprattutto nell’ampiezza della sua diffusione: il testo di VA venne infatti sottoposto a numerose traduzioni, sia in latino che in volgare, tanto che gran parte dei manoscritti superstiti è, direttamente o indirettamente, una sua emanazione. È quindi la versione in cui il libro di Marco Polo venne più letto e conosciuto in Europa.
Solo nei prossimi mesi si potrà aggiungere qualche informazione sulla posizione del manoscritto all’interno della tradizione manoscritta del Milione, in attesa di uno studio più ampio che sarà pubblicato su una delle riviste principali del settore. Tra le attività dell’anno dedicato a Marco Polo anche la pubblicazione della prima edizione digitale dell’opera di Marco Polo, resa disponibile agli studiosi di tutto il mondo e pubblicata da Edizioni Ca’ Foscari in open access e open source.
John Lennon fa fare l’aeroplanino al figlioletto Sean appena nato e poi lo porta a spasso mentre Yoko Ono gli dà la pappa nella cucina dell’appartamento nel Dakota Building con vista su Central Park: un quadretto familiare tenero che è una delle tante scoperte di ‘One to One: John & Yoko’, il documentario dello scozzese Kevin MacDonald con Sam Rice-Edwards che è una vera e propria immersione negli anni newyorkesi di Lennon ormai separato dai Beatles. Il film è in anteprima mondiale fuori concorso alla Mostra del cinema di Venezia e poi andrà al festival di Telluride.
Il regista ha potuto accedere all’archivio Lennon e alla Lennon’s Estate e ricostruire l’esperienza della coppia che tra musica, concerti benefici, manifestazioni partecipava alla vita culturale della città e soprattutto a quella politica. Erano gli anni della guerra in Vietnam, dei cortei dei giovani che chiedevano stop the war e peace now – scene e frasi drammaticamente attuali – del presidente Nixon da boicottare ma che invece veniva rieletto, del governatore razzista dell’Alabama George Wallace oggetto di un attentato che infiammò l’America.
Cosa non si è detto, visto, scritto dei FabFour, del loro addio – The Beatles: Get Back di Peter Jackson nel 2021 è solo l’ultimo degli approfondimenti – di Yoko Ono rovina Beatles eccetera eccetera? Eppure One to One: John & Yoko getta nuova luce. Innanzitutto il periodo non troppo indagato: siamo nel 1971-1972, la coppia innamoratissima era arrivata dall’Inghilterra, aveva preso casa al 496 di Broome Street a Soho e al 105 di Bank Street al Village, trascorreva giornate a letto, il famoso periodo peace and love, strimpellando, cantando, intervenendo nei programmi tv, ma cominciava di fatto una nuova vita. Fu allora che John e Yoko si impegnarono pesantemente in cause politiche e realizzarono Some Time in New York City, passato alla storia come il peggior album di Lennon e soprattutto il concerto di beneficenza per la famigerata Willowbrook State School per bambini con disabilità intellettive, che un’inchiesta tv aveva svelato come un istituto in pratica di detenzione pediatrica.
Lennon e Ono (la cui figlia Kyoko avuta dall’ex marito Anthony Cox, le era stata sottratta con grande dolore) si buttano con generosità nella realizzazione del concerto così come in altre cause, spesso insieme all’attivista sociale Jerry Rubin e al padre beatnik Allen Ginsburg, tentando di coinvolgere anche un recalcitrante Bob Dylan e quegli slanci sono forse una delle belle scoperte del documentario. One to One ebbe luogo al Madison Square Garden il 30 agosto 1972, l’unico concerto completo che Lennon tenne dopo aver lasciato i Beatles e prima che venne ucciso da un fan squilibrato sotto casa l’8 dicembre 1980. Il film è il racconto di anni irrequieti per l’America, per Lennon e Yoko (femminista della prima ora partecipa alla prima storica riunione, 1971), tra pubblico e privato.
E poi però c’è la musica Imagine, Looking over from my hotel window, Hound Dog, Come together, 39, Mother e tante altre. “L’idea del film – ha detto il regista – è stare con loro, come seduti nella loro casa, c’è intimità, c’è la storia del dolore di Yoko che cercava la figlia e c’è anche la loro vulnerabilità di famosi, ricchi, generosi e idealisti che volevano fare la rivoluzione ma poi disillusi pensarono alle piccole cose da cambiare, come far star meglio i bambini della Willowbrook School”. E poi, se pure è un tema divisivo dagli anni ’60, c’è Yoko Ono “questo film ha dato a Yoko la possibilità di essere vista, uguale a John”.
Fu l’arma letale nella Battaglia delle Egadi, combattuta a nord-ovest dell’isola di Levanzo nel 241 avanti Cristo, che segnò la fine della prima guerra punica con la vittoria dei Romani sui Cartaginesi. Era il rostro a tre fendenti che si allungava a prua dell’imbarcazione. La trireme, lanciata a velocità sulle navi nemiche determinava, con il colpo del rostro, squarci micidiali nelle navi nemiche causandone il loro affondamento. L’ultimo importante reperto archeologico di questo tipo è stato appena restituito dal mare delle Egadi.
La campagna di ricerche di agosto ha, infatti, consentito di recuperare un rostro in bronzo che si trovava su un fondale a circa 80 metri di profondità. Il reperto è stato recuperato dai subacquei della “Society for documentation of submerged sites” (Sdss) con l’ausilio della nave oceanografica da ricerca “Hercules” che negli anni ha permesso, grazie alle sofisticate strumentazioni presenti a bordo, l’individuazione e il recupero di numerosi reperti riguardanti l’importante evento storico del III secolo a.C. Il rostro è stato trasferito nel laboratorio di primo intervento nell’ex Stabilimento Florio di Favignana ed è già al vaglio degli archeologi della Soprintendenza del Mare della Regione Siciliana.
Le sue caratteristiche sono simili a quelle degli altri già recuperati nelle precedenti campagne di ricerca: nella parte anteriore una decorazione a rilievo che raffigura un elmo del tipo Montefortino con tre piume nella parte superiore, mentre le numerose concrezioni marine non consentono ancora di verificare la presenza di iscrizioni. Le attività di ricerca nel tratto di mare tra Levanzo e Favignana sono condotte da circa 20 anni da un team formato dalla Soprintendenza del Mare, dalla statunitense Rpm Nautical Foundation e dalla Sdss.
“I fondali delle Egadi sono sempre una fonte preziosa di informazioni per aggiungere ulteriori conoscenze sulla battaglia navale tra la flotta romana e quella cartaginese. L’intuizione di Sebastiano Tusa continua ancora oggi a ricevere conferme sempre più puntuali, avvalorando gli studi dell’archeologo che avevano consentito l’individuazione del teatro della battaglia” ha commentato l’assessore regionale ai Beni culturali, Francesco Paolo Scarpinato. “Con quest’ultimo rostro – sottolinea l’assessore -, salgono a 27 quelli ritrovati a partire dai primi anni Duemila. Negli ultimi 20 anni sono stati individuati anche 30 elmi del tipo Montefortino, appartenuti ai soldati romani, due spade, alcune monete e un considerevole numero di anfore”. La battaglia delle Egadi, descritta da Polibio e da molti altri storici antichi, concluse la lunga prima guerra punica grazie ad una svolta impressa dall’audace ammiraglio Lutazio Catulo che sbloccò una situazione di stallo anche grazie a un’arma micidiale come quella rappresentata dal rostro.