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Il ricatto del grano, Putin mette fine all’accordo

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La Russia ha deciso di non rinnovare l’accordo sul grano. L’annuncio è arrivato stamattina dal Cremlino, nell’ultima giornata prima della scadenza dell’intesa che un anno fa scongelò le esportazioni via mare di cereali dall’Ucraina in guerra. Ma anche – e potrebbe non essere un caso anche se Mosca nega – poche ore dopo l’attacco al ponte di Crimea. “Sfortunatamente la parte di questi accordi relativa alla Russia non è stata ancora attuata, quindi la sua validità è terminata”, ha dichiarato il portavoce di Putin, aggiungendo però anche che “non appena la parte russa degli accordi sarà soddisfatta, la Russia ritornerà immediatamente all’attuazione dell’intesa”. Da tempo Mosca minacciava di ritirarsi dal patto sul grano sostenendo che “gli ostacoli” alle sue esportazioni di cereali e di fertilizzanti non fossero stati rimossi come concordato in un accordo parallelo a quello sul grano ucraino. Ora l’annuncio del Cremlino preoccupa il mondo intero, aumentando i timori per la sicurezza alimentare globale.

“A pagare il prezzo saranno centinaia di milioni di persone che affrontano la fame e i consumatori che stanno affrontando una crisi globale del costo della vita”, ha avvertito il segretario generale dell’Onu Antonio Guterres. Dure critiche a Mosca sono arrivate anche da Londra, Parigi, Berlino, da Washington – che ha parlato di “un atto di crudeltà” – e dall’Ue, con la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen che ha definito “cinica” la decisione del governo russo. “Il tema sarà affrontato al vertice sulla sicurezza alimentare a Roma il 24 luglio”, ha detto il ministro degli Esteri Antonio Tajani, mentre secondo il capo della diplomazia ucraina Dmytro Kuleba “i prezzi in tutto il mondo aumenteranno di nuovo”. Zelensky ha sostenuto che Kiev è pronta a continuare a esportare cereali via mare anche senza la Russia. “Non abbiamo paura. Siamo stati contattati da società che possiedono navi. Hanno detto di essere pronte”, ha dichiarato il presidente ucraino. Ma la situazione ora pare ovviamente più complicata, anche se Erdogan, gran mediatore dell’intesa, ha cercato di mostrare ottimismo: “Nonostante la dichiarazione di oggi, credo che il presidente della Federazione Russa, il mio amico Putin, voglia la continuazione di questo ponte umanitario”, ha detto l’autoritario leader turco, aggiungendo che intende parlare di questa questione con Putin in un incontro ad agosto in Turchia. Le conseguenze di questa mossa del Cremlino potrebbero essere potenzialmente molto gravi.

L’accordo, siglato un anno fa da Mosca e Kiev con la mediazione delle Nazioni Unite e, appunto della Turchia, ha infatti consentito all’Ucraina di riprendere le esportazioni di cereali dopo il blocco dei suoi porti da parte proprio della Russia. Nei primi cinque mesi di guerra gli scali ucraini sul Mar Nero sono rimasti completamente fermi, ma l’intesa siglata la scorsa estate aveva sbloccato la situazione consentendo di esportare via mare quasi 33 milioni di tonnellate di cereali ucraini. L’intesa aveva permesso di ristabilizzare i prezzi dei cereali dopo mesi di pericolosi rincari e aveva anche l’obiettivo di alleviare la crisi alimentare mondiale venutasi a creare.

L’Ucraina è infatti uno dei maggiori produttori di cereali al mondo, prima della guerra produceva circa un decimo del grano mondiale, e l’anno scorso l’Onu aveva avvertito del rischio di carestie in alcune zone dell’Africa e del Medio Oriente se Kiev non avesse potuto esportare via mare i suoi cereali. La decisione di Mosca ha fatto subito aumentare di un modesto 4% il prezzo del grano a Chicago, anche se dall’entrata in vigore dell’accordo, un anno fa, il prezzo è sceso di oltre il 23%. Il segretario generale dell’Onu Guterres ha affermato di aver proposto a Putin di riconnettere al sistema bancario internazionale Swift una sussidiaria della principale banca agricola russa. Ma non è bastato. E la stessa missione russa alle Nazioni Unite ha fatto sapere che al momento non sono previsti ulteriori negoziati.

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Effetto Trump anche in Australia, vince il governo Labor

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L”effetto Trump’, dirompente, dopo il Canada si estende anche all’Australia dove il primo ministro di centro-sinistra, Anthony Albanese, si è aggiudicato il suo secondo mandato con una schiacciante vittoria sull’opposizione, il cui leader di destra, Peter Dutton, ha pagato paragoni e associazioni al presidente americano e ha perso il suo seggio dopo 24 anni. Il costo della vita e le incertezze economiche sono state al centro della campagna elettorale australiana durata cinque settimane, con sullo sfondo le turbolenze globali e la guerra dei dazi innescata da Donald Trump, e partita con sondaggi a sfavore per il governo in carica.

Poi la rimonta a sorpresa, in un lasso di tempo così breve, che non solo ha riconsegnato il Paese alla guida Labor ma ha anche conferito al governo in carica una maggioranza più ampia del previsto. Per la conferma dei dati definitivi ci vorranno alcuni giorni, ma le proiezioni danno indicazioni inequivocabili: secondo quelle dell’emittente nazionale Abc la vittoria dei laburisti è chiarissima, con 85 seggi assicurati sui 150 in palio alla Camera bassa. Uno scenario che è andato delineandosi fin dall’inizio dello spoglio, al punto che il conservatore Peter Dutton ha ammesso la sconfitta quando lo scrutinio non era nemmeno al 50% dei voti.

“Poco fa ho chiamato il primo ministro per congratularmi con lui per il suo successo”, ha detto, per poi assumersi appieno la responsabilità dell’esito elettorale: “Non abbiamo fatto abbastanza bene in questa campagna, questo è evidente e me ne assumo la piena responsabilità”. Eppure il leader del Liberal Party of Australia si era reso conto già in corso d’opera dell’errore commesso nel dichiarare la sua vicinanza a Donald Trump: nei mesi scorsi aveva descritto il presidente degli Stati Uniti come un “grande pensatore”, prima di cambiare idea. “Oggi il popolo australiano ha votato per i valori australiani: per l’equità, l’aspirazione e le opportunità per tutti; per la forza di mostrare coraggio nelle avversità e gentilezza verso chi è nel bisogno”, ha affermato Albanese nel discorso della vittoria.

Eppure nei mesi scorsi il partito laburista era in difficoltà nei sondaggi, ma l’ombra di Domald Trump è stata fatale per il partito conservatore australiano la cui sconfitta ha così rispecchiato quella delle recenti elezioni in Canada, dove il partito liberale di centro-sinistra guidato da Mark Carney si è aggiudicato un quarto mandato nonostante fosse molto indietro nei sondaggi pre-elettorali. E come Dutton in Australia, il leader conservatore canadese Pierre Poilievre ha perso il seggio che deteneva dal 2004. Secondo gli analisti sulla scelta degli elettori hanno pesato più i timori legati alle mosse di Washington, a cominciare dai dazi, che i dossier interni. Gli osservatori avevano previsto del resto che il voto si sarebbe basato sui temi economici, i migranti e le influenze straniere, compresa quella cinese che vede Canberra da sempre in tensione nei rapporti con il Dragone. Alla vigilia del voto Albanese aveva lanciato un appello agli elettori a “spostare le montagne”.

Gli australiani hanno risposto confermandogli la fiducia: hanno votato anche in costume da bagno, chi ancora con la tavola da surf sotto braccio (il voto è obbligatorio pena una multa da 11 euro), mentre un terzo degli aventi diritto (18,1 milioni) ha partecipato al voto anticipato, ampiamente utilizzato nel Paese dato il vasto territorio australiano con diverse zone remote. E’ la seconda impresa che riesce ad Anthony Albanese: il figlio di un marinaio di Barletta cresciuto da una madre single in una casa popolare, ha conosciuto il padre solo nel 2011 in un viaggio in Puglia. Primo premier di origini italiane a guidare l’Australia, era già stato l’unico che fosse riuscito a portare il partito laburista alla vittoria dopo quasi dieci anni di dominio dei liberali. Questa volta Donald Trump ha fatto il resto.

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Zelensky: i leader in pericolo il 9 maggio a Mosca

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Nessuno è immune alla guerra se si trova a Mosca, nemmeno i leader mondiali invitati alla parata del Giorno della Vittoria del 9 maggio. Perché l’Ucraina “non può garantire la sicurezza” degli ospiti di Vladimir Putin per gli 80 anni della vittoria sovietica nella Seconda Guerra Mondiale: le parole sono di Volodymyr Zelensky e aprono l’ennesimo fronte di scontro con il Cremlino. Perché se da una parte Kiev respinge la proposta russa di tregua di tre giorni, segnalando il pericolo di episodi ‘false flag’ russi agli eventi della prossima settimana per poter incolpare gli ucraini, dall’altra i russi accusano il leader ucraino di una “minaccia diretta” alla parata.

Promettendo, “nel caso di una vera provocazione nel Giorno della Vittoria, che nessuno può garantire che il 10 maggio arriverà a Kiev”, ha tuonato il superfalco di Putin, Dmitry Medvedev. Quest’anno si prevede che i leader di circa 20 Paesi saranno ospiti di Putin per le celebrazioni del 9 maggio, tra cui il presidente cinese Xi Jinping, quello brasiliano Luiz Inacio Lula da Silva, oltre a quelli dei tradizionali alleati di Mosca, come il Kazakistan, la Bielorussia, Cuba e il Venezuela. Per il presidente ucraino la questione “è molto semplice: non possiamo assumerci la responsabilità di ciò che sta accadendo sul territorio della Federazione Russa”, perché in quel caso “sono loro a garantire la vostra sicurezza”. E “non si sa cosa Mosca intenda fare in quella data. Potrebbe prendere varie misure come incendi o esplosioni, per poi accusare noi”, ha detto il leader ucraino che è tornato a respingere la proposta di cessate il fuoco di 72 ore, rilanciando quella di 30 giorni di tregua promossa dagli Usa.

L’Ucraina infatti “non intende giocare, creando un’atmosfera piacevole per permettere a Putin di uscire dall’isolamento il 9 maggio”. Le dichiarazioni di Zelensky hanno trovato la reazione velenosa di Mosca. Dopo Medvedev, anche per la portavoce del ministero degli Esteri Maria Zakharova Kiev “sta minacciando l’incolumità fisica dei veterani che parteciperanno alle parate e alle celebrazioni in quel giorno sacro”. Più misurate le parole del portavoce del Cremlino Dmitry Peskov, per il quale Mosca “aspetterà dichiarazioni definitive, anziché ambigue, e, soprattutto, azioni volte alla de-escalation del conflitto” in quei giorni. Perché la reazione ucraina al cessate il fuoco di 72 ore “rappresenta un test della disponibilità di Kiev a cercare percorsi verso una pace duratura tra Russia e Ucraina”.

Ma visti i risultati della tregua di Pasqua, con centinaia di violazioni e nessun cambiamento sul terreno, Kiev insiste sulla necessità di un vero cessate il fuoco duraturo. Ed è forte anche di un miglioramento dei rapporti con Washington, culminato con la sigla dell’accordo sui minerali e che fa seguito all’incontro con Trump nella Basilica di San Pietro, dove “abbiamo avuto la migliore conversazione tra tutte quelle che l’hanno preceduta”, ha detto Zelensky, come per archiviare definitivamente lo scontro dello Studio Ovale a febbraio. Dopo il colloquio a due del Vaticano, infatti il tycoon “ha iniziato a vedere le cose in modo un po’ diverso”, ha aggiunto il leader di Kiev.

Un segnale in questa direzione è sicuramente l’approvazione da parte dell’amministrazione Usa della potenziale vendita di parti ed equipaggiamenti del caccia F-16 all’Ucraina per 310 milioni di dollari. Per l’Ucraina resta infatti vitale il sostegno militare occidentale, mentre il fronte da tempo è a favore dei russi e continuano i bombardamenti su tutte le città. Nella notte, i raid su Kharkiv hanno provocato 51 feriti, con la procura regionale che ha denunciato l’uso di droni e anche di micidiali bombe termobariche contro il capoluogo. Da parte sua, l’Ucraina ha rivendicato un nuovo successo sul fronte del Mar Nero, dove ha annunciato di aver abbattuto “per la prima volta nel mondo” un caccia russo Su-30 utilizzando un drone marino, il Magura V5.

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Morta turista italiana in un incidente a Yellowstone: sette vittime nello scontro tra pick-up e van

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Una turista italiana, originaria di Milano, è rimasta uccisa in un grave incidente stradale avvenuto giovedì 1° maggio nei pressi del parco di Yellowstone, al confine tra l’Idaho e il Montana. A confermare la notizia è la Farnesina. Secondo quanto riferito, la donna viaggiava su un van turistico coinvolto in uno scontro frontale con un pick-up nella zona di Henry’s Lake, una delle porte d’accesso al parco.

Sette delle quattordici persone a bordo del pulmino sono decedute: tra loro anche la nostra connazionale, cinque turisti cinesi e l’autista del pick-up. Il consolato italiano a San Francisco è in stretto contatto con i familiari della vittima.

Fiamme e rottami: le immagini della tragedia

Le immagini diffuse dai media statunitensi mostrano la scena devastante dell’incidente: un pick-up rosso completamente accartocciato e un van avvolto dalle fiamme. L’intervento tempestivo di eliambulanze e squadre di soccorso ha permesso di trasportare i feriti più gravi negli ospedali della regione. L’incidente è avvenuto su una strada molto trafficata, frequentata ogni giorno da migliaia di turisti diretti verso l’ingresso ovest di Yellowstone.

Yellowstone, un paradiso naturale e pericoloso

Yellowstone è uno dei parchi nazionali più iconici degli Stati Uniti e attira ogni anno milioni di visitatori da tutto il mondo. Conosciuto per i suoi geyser — tra cui il celebre Old Faithful — le sorgenti termali e i paesaggi spettacolari, si estende tra Wyoming, Montana e Idaho.

Ma la bellezza del parco si accompagna a numerosi rischi. Le strade strette e tortuose, il traffico intenso e le distrazioni causate dai panorami contribuiscono a un alto numero di incidenti stradali. Secondo lo storico del parco Lee Whittlesey, che ha documentato i decessi nel suo libro Deaths in Yellowstone, gli incidenti automobilistici sono la seconda causa di morte nel parco dopo i malori di origine medica. Dal 2007 ad oggi, almeno 17 persone sono morte per cause legate al traffico.

Turismo internazionale in ripresa dopo il Covid

Secondo i dati del Dipartimento del Commercio USA, il 36% dei turisti internazionali arrivati negli Stati Uniti in aereo inserisce la visita ai parchi nazionali tra le attività principali. Yellowstone, in particolare, registra una forte affluenza da Cina, Italia e Canada. Solo nel 2023, il parco ha accolto 4,7 milioni di visitatori, segnando una ripresa significativa dopo il crollo del turismo legato alla pandemia e alle inondazioni del 2022.

Il sindaco di West Yellowstone, Jeff McBirnie, ha sottolineato come i flussi turistici internazionali si concentrino soprattutto nei mesi di primavera e autunno: “Spesso si tratta di familiari di studenti internazionali che frequentano università americane, e approfittano della visita per scoprire le meraviglie naturali del Paese”.

La tragedia di giovedì riaccende l’attenzione sulla sicurezza stradale all’interno e nei pressi dei parchi nazionali americani, dove ogni viaggio può trasformarsi, improvvisamente, in dramma.

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