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Cronache

Coronavirus, ecco le carte del dossier segreto che prevedeva migliaia di morti

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Il documento riservato consta di 40 pagine. In questo rapporto riservato vengono tratteggiati tre scenari di rischio. Ci sono grafici e tabelle. C’è la richiesta di mettere a punto le misure di quello che poteva o doveva essere un piano contro l’ epidemia da coronavirus che poteva arrivare. Sul frontespizio c’è scritto “Piano Sanitario nazionale per la risposta a un’eventuale pandemia da Covid-19”.  Un piano che il governo ha secretato. Un Piano che il ministro della Salute Roberto Speranza ha continuato a smentire l’esistenza fino a due giorni fa. Speranza lo definiva “studio in itinere”  dove c’erano valutazioni “ipotetiche, aleatorie”. In effetti si parla di “eventuale pandemia”.

Il Piano è stato scritto il 19 febbraio. Consegnato nella sia stesura finale il 22 febbraio 2020. Ed aveva come scopo  quello di “garantire un’adeguata gestione dell’ infezione in ambito territoriale e ospedaliero senza compromettere la continuità assistenziale, razionalizzando l’accesso alle cure, per garantire l’uso ottimale delle risorse. L’ erogazione di cure appropriate ridurrà la morbilità e la mortalità attenuando gli effetti della pandemia”. E fin  qui siamo ai possibili effetti di una pandemia che vengono descritti. Poi però chi ha redatto il dossier ha anche fissato le priorità per ridurre l’impatto della eventuale pandemia da coronavirus. Si raccomandano scorte adeguate di mascherine, tute e guanti, ma soprattutto maggiore disponibilità di posti in terapia intensiva. Erano tutti i punti deboli dell’Italia davanti alla pandemia virale poi arrivata. Purtroppo all’inizio, nelle settimane più difficili, davanti alla mancanza di queste dotazioni, l’Italia si è trovata impreparata. E sappiamo quanto è stato difficile affrontare i covid sia da parte del personale sanitario che dei malati.
Questo Piano pandemico nazionale era stato secretato “per non spaventare la popolazione”. Perchè i numeri dei contagi e dei decessi erano drammatici.

Elaborando le cifre della riproduzione del virus in Cina in base all’indice di contagio R0, il piano simula il possibile andamento dell’ epidemia in Italia. Il “livello di rischio 1 è quasi un caso di scuola ed avrebbe provocato pochi problemi al Paese.
Nel ”livello di rischio 2” si dà atto di una”diffusa e sostenuta trasmissione locale con aumentata pressione sul Ssn che risponde attivando misure straordinarie preordinate”. “Livello di rischio 3: diffusa e sostenuta trasmissione locale con aumentata pressione sul Ssn che risponde attivando misure straordinarie che coinvolgono anche enti e strutture non sanitarie”. Questi ultimi due scenari – con indice di contagio rispettivamente a 1,15 e 1,25 – sono quelli che in proiezione producono il gap più ampio di posti in terapia intensiva. L’Italia non poteva affrontare questo rischio perchè non aveva posti sufficienti in terapia intensiva. Insomma, se fossimo arrivati in questa fase, avrebbe contato morti. Perchè? È spiega sempre in questo rapporto riservato spesso negato dal ministro Speranza.

Dall’analisi dell’offerta assistenziale-ospedaliera riferita alla terapia intensiva, è emersa una dotazione complessiva nazionale di posti letto pari a 5324 (di cui 687 in isolamento semplice e a pressione negativa) con un tasso di occupazione dell’ 85%. Ipotizzando di poter fruire del 15% dei posti letto disponibili con una riduzione dell’attività di chirurgia elettiva del 50% (come previsto negli scenari 2 e 3), si potrebbero liberare progressivamente fino a 1597 posti letto in TI di cui 103 in isolamento”. Insomma quello che si prefigurava, a febbraio, dunque quando gli italiani erano quasi all’oscuro del rischi pandemico e facevano una vita normale, era uno scenario drammatico. La domanda è: perchè non  ci si è attrezzati per tempo, subito? Perchè non  abbiamo dato seguito anche alla proclamazione dello Stato di emergenza nazionale il 31 gennaio?

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Vincenzo Nibali: «Ero un carusu dannificu. La bici mi ha salvato dalla strada»

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Messina, la Sicilia, la fatica, la gloria. Vincenzo Nibali si racconta al Corriere della Sera, tra ricordi di un’infanzia ribelle, il riscatto sulla bicicletta e la consapevolezza maturata solo dopo il ritiro. Un’intervista intensa, autentica, a cuore aperto.

Una giovinezza a rischio: «Compagni con la pistola nello zaino»

«Ero un carusu dannificu», dice Nibali, usando l’espressione siciliana per “bambino disastroso”. Uno che attirava guai: sassate alle vetrate, petardi nelle cassette postali, motorini lanciati contro i muri. Una giovinezza vissuta in un quartiere difficile di Messina, dove alcuni compagni portavano la pistola a scuola. Nessuna mafia organizzata, ma il pizzo sì: «Colpì anche la cartoleria dei miei genitori».

La salvezza arriva su due ruote: «Sempre in salita, come da Messina»

La svolta arriva con la bici, a 12 anni, grazie al padre e ai suoi amici cicloturisti. Le prime gare, l’ammiraglia della Cicli Molonia, il traghetto per Villa San Giovanni che diventava un passaggio simbolico verso il sogno. A 15 anni vince a Siena e non torna più: «Mai avuto nostalgia. I miei genitori mi dissero: se ti impongono cose sbagliate torna, qui avrai sempre un lavoro. Mi ha aiutato a non cedere al doping».

L’ascesa, la gloria, il peso della vittoria

Nibali è uno dei pochi ciclisti ad aver vinto tutti e tre i grandi Giri. Il Tour de France del 2014 è stato l’apice, ma anche l’inizio di un incubo: «Non potevamo camminare con la carrozzina di nostra figlia senza essere assaliti. Solo adesso che ho smesso, vivo davvero». E confessa: «Mai provato e mai pensato di doparmi. Ma ho pagato il sospetto solo perché vincevo ed ero italiano».

La caduta che fa crescere: l’Olimpiade sfumata

Nel 2016 era lanciato verso l’oro olimpico, ma cadde in curva. «Scelsi io di rischiare, e sbagliai. Nessuna scusa». Parla anche del secondo posto alla Liegi-Bastogne-Liegi, “scippato” da un dopato, ma senza rancore: «Non mi chiedo mai quanto ho perso per colpa del doping».

Il ritorno da turista: «Messina è ‘u megghiu postu nto munnu’»

Oggi Nibali è ambasciatore del Giro e padre presente. Ha visitato la Sicilia con le figlie per farla conoscere da turista: «Antonello da Messina, i templi di Agrigento, i boschi dei Peloritani… È il posto più bello del mondo». Un campione che, a distanza di anni, può guardarsi indietro con orgoglio: «A testa alta, sempre».

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Guerra dei cassonetti ai Parioli: scompaiono i bidoni davanti a casa Castellitto

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Nel quartiere elegante e silenzioso dei Parioli esplode una singolare guerra urbana, fatta di strisce gialle, rifiuti e cortili privati. Oggetto del contendere: un set di cassonetti della raccolta differenziata, misteriosamente spariti dalla carreggiata davanti alla villa dell’attore Sergio Castellitto.

I cassonetti finiscono nel cortile dell’attore

La miccia si accende nella notte tra il 20 e il 21 aprile. I bidoni che servivano i residenti della zona vengono spostati oltre il cancello della villa in cui vive Castellitto, allineati ordinatamente nel cortile. Una rimozione anomala che di fatto priva della raccolta l’intero isolato. Le strisce gialle, predisposte per accogliere i cassonetti, rimangono desolatamente vuote.

Secondo indiscrezioni, l’attore avrebbe più volte manifestato il suo malcontento per la presenza dei contenitori davanti all’ingresso della sua abitazione, considerandoli poco decorosi. I vicini, al contrario, li ritengono un servizio essenziale, invocandone semmai una manutenzione più frequente.

Denuncia in arrivo e reazione dei residenti

A seguito dell’episodio, il quartiere insorge. I residenti, costretti a girovagare per il quartiere con buste e cartoni, scattano foto e si interrogano sul destino dei contenitori. Tra loro anche il regista premio Oscar Paolo Sorrentino, recentemente trasferitosi nella zona.

Dopo poche ore, i cassonetti scompaiono anche dalla visuale del villino: né davanti al cancello né sul marciapiede. Ma non vengono ricollocati nella loro sede originaria. La vicenda, lungi dal concludersi, potrebbe ora avere conseguenze legali.

Ama pronta a sporgere denuncia

La municipalizzata dei rifiuti, Ama (foto Imagoeconomica), non intende lasciar cadere il caso. I vertici dell’azienda starebbero preparando una denuncia ai carabinieri per la scomparsa dei contenitori. Anche l’assessore al Verde del Municipio, Rosario Fabiano, si è attivato per fare luce sull’accaduto.

Il comitato Le Muse: “I cassonetti tornino al loro posto”

Dal comitato di zona Le Muse l’appello è chiaro: «Speriamo che quei cassonetti tornino al più presto al loro posto. Sarebbe grave se così non fosse. Si tratta di oggetti che appartengono alla collettività, ricordiamolo».

Intanto, nel quartiere ovattato dei Parioli, il decoro urbano si trasforma in una guerra di nervi, tra privacy e servizio pubblico, in attesa che si ristabilisca un fragile equilibrio tra rifiuti e rispetto.

 

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La madre del 17enne condannato per l’omicidio di Santo Romano: «Non è lui l’autore dei post provocatori»

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Ha deciso di rivolgersi alla polizia postale la madre del 17enne condannato a 18 anni e 8 mesi per l’omicidio di Santo Romano, ucciso nella notte tra l’uno e il due novembre scorsi a San Sebastiano al Vesuvio. Lo fa per chiedere chiarezza su una vicenda che – a suo dire – rischia di danneggiare ulteriormente il figlio.

La denuncia: «Quei post non li ha scritti mio figlio»

«Mio figlio è detenuto ad Airola, non ha accesso ai social e non è stato mai segnalato per l’uso di telefoni cellulari in modo clandestino», spiega la donna, assistita dall’avvocato Luca Raviele. E chiarisce: «Non può essere lui l’autore dei messaggi comparsi in rete dopo la sentenza». Messaggi che – accompagnati da immagini del ragazzo risalenti a mesi fa – contengono frasi provocatorie e offensive, come: «Io 18 anni e 8 mesi me li faccio seduto su un cesso».

Una pioggia di messaggi offensivi

Quei post, circolati in modo virale sui social, hanno fatto riesplodere le tensioni tra i familiari delle due fazioni coinvolte nella tragica vicenda. E la madre del minore condannato prende le distanze: «Non c’entriamo nulla. Né io, né parenti o conoscenti abbiamo scritto o condiviso quei contenuti. Spero che la polizia postale indaghi per risalire ai veri responsabili».

La notte dell’omicidio: una lite per una scarpa sporca

Tutto è iniziato in piazza Capasso, cuore della movida di San Sebastiano. Un banale litigio per una scarpa pestata ha innescato lo scontro tra due gruppi di ragazzi. Dopo un primo alterco, la situazione sembrava rientrata, ma secondo quanto ricostruito dagli inquirenti – anche grazie a un video – Santo Romano sarebbe tornato indietro rivolgendosi all’auto dove si trovava L.D.M. Un gesto, forse un lancio, e poi il dramma: due colpi di pistola al petto, esplosi dal 17enne. Santo muore sul colpo.

Un processo doloroso e una sentenza pesante

Martedì scorso è arrivata la condanna in primo grado: 18 anni e 8 mesi di reclusione per omicidio, tentato omicidio e detenzione di arma da fuoco. L’indagine è stata condotta dal pm Ettore La Ragione della Procura per i Minori. Una sentenza che ha alimentato il dolore dei familiari di Santo Romano, un ragazzo di 19 anni, portiere di una squadra di calcio, noto nel suo gruppo per essere sempre un paciere.

Il timore di nuove tensioni

I post emersi nelle ultime ore rischiano di avvelenare ulteriormente il clima. «Non voglio neanche ripetere il contenuto di certi messaggi – spiega la madre del ragazzo – sono offensivi, gratuiti, e danneggiano mio figlio. Non possiamo permettere che a una tragedia come questa si aggiungano nuove ingiustizie». Per questo è stata sporta una formale denuncia contro ignoti: sarà ora compito degli investigatori della polizia postale stabilire chi si nasconde dietro quegli account.

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