L’accusa per ora è “simulazione di reato”. Relativamente ai tre colpi di pistola esplosi contro la casa sua il 5 maggio scorso. Con questo fatto oggetto d’inchiesta della procura di Napoli, cala il sipario su un altro “presunto” protagonista (forse totalmente inventato) dell’anticamorra napoletana, Mario De Michele. Il giornalista casertano, se è vero che si è confezionato l’attentato contro casa, perderà non solo la scorta (che non serve) ma anche la credibilità. Ed è la credibilità che fa un giornalista, non lo stipendio o le ospitate in tv. Quegli uomini armati dello Stato che tutelavano Mario De Michele erano diventati semplicemente il segno distintivo della sua appartenenza ai “giornalisti antimafia”.
Mario De Michele così spiegava l’attentato del 5 maggio contro casa sua
C’è una inchiesta delicata di Fabrizio Vanorio, pm del pool anticamorra, che porta in altre direzioni. Una inchiesta iniziata dopo un gravissimo episodio denunciato nel novembre scorso da De Michele. Il cronista all’epoca riferì di essere stato inseguito da uomini armati a bordo di una vettura che aveva incrociato in una strada della periferia di Gricignano di Aversa che avevano crivellato la sua macchina di proiettili. Furono esplosi dieci colpi – riferì ai carabinieri il cronista De Michele – e nessuno lo centrò. L’auto di De Michele, esaminata dal Ris di Roma, era stata effettivamente ridotta come un colabrodo ed era persino incredibile che questo giornalista ne fosse uscito indenne. Ma tant è! La ricostruzione dei fatti era quella del cronista. L’auto era oggettivamente sforacchiata. Sicuramente qualcuno l’aveva ridotta in quel modo. Lui aveva raccontato con sempre maggiore dovizia di particolari (prima ai carabinieri, poi al magistrato e quindi a giornali e telegiornali d’italia e del mondo) questo attentato dal quale usciva miracolosamente illeso. L’inchiesta per tentato omicidio del giornalista, come sempre accade nell’ufficio inquirente napoletano, viene presa e seguita in maniera serissima. Napoli è da sempre uno dei più importanti uffici inquirenti d’Italia. E gli inquirenti ascoltano telefoni, controllano tabulati, fermano e interrogano persone, avviano accertamenti. E che cosa succede? Accade che vengono a galla, dopo l’ultima denuncia, quella dei colpi di pistola contro casa, molte cose che non hanno aderenza con la realtà dei fatti. Quello che si profila è una caso di attentati inventati per costruire l’immagine del giornalista antimafia da scortare. Una cosa di una tristezza inaudita per l’intera categoria e per quei cronisti minacciati dalle mafie che vivono sotto scorta (non solo in Italia ma nel mondo) perché illuminano gli affari di mafia e per questo vengono uccisi. Questo Mario De Michele, direttore di Campanianotizie.com, evidentemente fa parte di qualche altra categoria di giornalisti.
Così invece si congeda e ammette errori imperdonabili commessi
Per ora a dire che De Michele ha mentito in relazione all’attentato contro la sua abitazione, quello del 5 maggio, c’è il rapporto informativo dei carabinieri del Gruppo di Aversa ai magistrati dell’Antimafia di Napoli. Non ne conosciamo il contenuto perchè i Carabinieri sono una istituzione seria. Ma sappiamo che le contestazioni sono gravi al giornalista che ha denunciato non solo l’attentato – fasullo – del 5 maggio ma anche quello del novembre del 2019. Si vedrà. Sono indagini. De Michele ha diritto a difendersi in ogni stato e luogo di questo procedimento. Intanto che la giustizia farà il suo corso, perchè come sempre la giustizia italiana è sì lumaca ma arriva sempre alla meta, Mario De Michele, non potrà più fare il giornalista che per qualche mese ha “goduto” dello status del cronista scortato ed ha viaggiato in lungo e in largo a portare il verbo dell’antimafia. Ora pare sia stanco di questo vestito di antimafioso che s’era costruito ed ha deciso di levare il disturbo. Ha pubblicato sul suo giornale on line un editoriale d’addio ai lettori. Ovviamente tocca per la tangente quello che gli sta capitando e i rischi che correrà. Rischi gravi, perchè è lo Stato che ora gli chiede il conto. Lui dice che deve pensare alla sua famiglia. Sostiene di aver avuto un crollo fisico e mentale. E dice tante altre cose in questo lunghissimo, laborioso articolo in cui passa il “testimone” a due suoi colleghi. Ed è qui che questo Mario De Michele spiega che lui come “giornalista anticamorra, giornalista scortato… in quei panni mi trovavo sempre più a mio agio e a causa di quel vestito da supereroe ho commesso qualche errore. Alcuni gravi, imperdonabili”. Eh sì, i reati non sono perdonabili. Quando si commettono, se si commettono, poi occorre pagarli. E dovrà eventualmente anche scusarsi anche con molti, se verrà accertato che gli attentati subiti erano delle messinscene. Dovrà spiegare tutto a Le Iene, a Storie Italiane, al viceministro dell’Interno Mauri che l’ha tutelato inutilmente. S’era spinto, Mario De Michele, a chiedere che gli fosse assegnata un’auto blindata oltre la scorta. Ah, Mario De Michele dovrà raccontare ancora una volta, e dovrà essere preciso, l’attentato di novembre. Quello dei 10 colpi di pistola, nessuno dei quali lo centrò, per fortuna. Su quell’attentato Fabrizio Vanorio, il pm, ha sul suo tavolo non solo la versione raccontata agli inquirenti, ma tantissime altre fornite a tv, giornali, siti web. Ed ogni versione ha un colorito diverso, dettagli diversi. Non sappiamo un granché su questa indagine ma abbastanza per dire che è venuto il momento di smetterla di creare e beatificare giornalisti antimafia prima di averne accertato con sicurezza lo status. E questo dovrebbero capirlo certi giornalisti antimafia e certi organismi di categoria che sprecano fiato e comunicati stampa di solidarietà che oggi suonano come ridicoli. Non solo per De Michele.
Questo che leggete sotto è il nostro articolo qualche giorno dopo l’attentato di novembre. Nulla invece abbiamo scritto sul presunto attentato del 5 maggio passato. Non ci convinceva. Non ci convince.
Messina, la Sicilia, la fatica, la gloria. Vincenzo Nibali si racconta al Corriere della Sera, tra ricordi di un’infanzia ribelle, il riscatto sulla bicicletta e la consapevolezza maturata solo dopo il ritiro. Un’intervista intensa, autentica, a cuore aperto.
Una giovinezza a rischio: «Compagni con la pistola nello zaino»
«Ero un carusu dannificu», dice Nibali, usando l’espressione siciliana per “bambino disastroso”. Uno che attirava guai: sassate alle vetrate, petardi nelle cassette postali, motorini lanciati contro i muri. Una giovinezza vissuta in un quartiere difficile di Messina, dove alcuni compagni portavano la pistola a scuola. Nessuna mafia organizzata, ma il pizzo sì: «Colpì anche la cartoleria dei miei genitori».
La salvezza arriva su due ruote: «Sempre in salita, come da Messina»
La svolta arriva con la bici, a 12 anni, grazie al padre e ai suoi amici cicloturisti. Le prime gare, l’ammiraglia della Cicli Molonia, il traghetto per Villa San Giovanni che diventava un passaggio simbolico verso il sogno. A 15 anni vince a Siena e non torna più: «Mai avuto nostalgia. I miei genitori mi dissero: se ti impongono cose sbagliate torna, qui avrai sempre un lavoro. Mi ha aiutato a non cedere al doping».
L’ascesa, la gloria, il peso della vittoria
Nibali è uno dei pochi ciclisti ad aver vinto tutti e tre i grandi Giri. Il Tour de France del 2014 è stato l’apice, ma anche l’inizio di un incubo: «Non potevamo camminare con la carrozzina di nostra figlia senza essere assaliti. Solo adesso che ho smesso, vivo davvero». E confessa: «Mai provato e mai pensato di doparmi. Ma ho pagato il sospetto solo perché vincevo ed ero italiano».
La caduta che fa crescere: l’Olimpiade sfumata
Nel 2016 era lanciato verso l’oro olimpico, ma cadde in curva. «Scelsi io di rischiare, e sbagliai. Nessuna scusa». Parla anche del secondo posto alla Liegi-Bastogne-Liegi, “scippato” da un dopato, ma senza rancore: «Non mi chiedo mai quanto ho perso per colpa del doping».
Il ritorno da turista: «Messina è ‘u megghiu postu nto munnu’»
Oggi Nibali è ambasciatore del Giro e padre presente. Ha visitato la Sicilia con le figlie per farla conoscere da turista: «Antonello da Messina, i templi di Agrigento, i boschi dei Peloritani… È il posto più bello del mondo». Un campione che, a distanza di anni, può guardarsi indietro con orgoglio: «A testa alta, sempre».
Nel quartiere elegante e silenzioso dei Parioli esplode una singolare guerra urbana, fatta di strisce gialle, rifiuti e cortili privati. Oggetto del contendere: un set di cassonetti della raccolta differenziata, misteriosamente spariti dalla carreggiata davanti alla villa dell’attore Sergio Castellitto.
I cassonetti finiscono nel cortile dell’attore
La miccia si accende nella notte tra il 20 e il 21 aprile. I bidoni che servivano i residenti della zona vengono spostati oltre il cancello della villa in cui vive Castellitto, allineati ordinatamente nel cortile. Una rimozione anomala che di fatto priva della raccolta l’intero isolato. Le strisce gialle, predisposte per accogliere i cassonetti, rimangono desolatamente vuote.
Secondo indiscrezioni, l’attore avrebbe più volte manifestato il suo malcontento per la presenza dei contenitori davanti all’ingresso della sua abitazione, considerandoli poco decorosi. I vicini, al contrario, li ritengono un servizio essenziale, invocandone semmai una manutenzione più frequente.
Denuncia in arrivo e reazione dei residenti
A seguito dell’episodio, il quartiere insorge. I residenti, costretti a girovagare per il quartiere con buste e cartoni, scattano foto e si interrogano sul destino dei contenitori. Tra loro anche il regista premio Oscar Paolo Sorrentino, recentemente trasferitosi nella zona.
Dopo poche ore, i cassonetti scompaiono anche dalla visuale del villino: né davanti al cancello né sul marciapiede. Ma non vengono ricollocati nella loro sede originaria. La vicenda, lungi dal concludersi, potrebbe ora avere conseguenze legali.
Ama pronta a sporgere denuncia
La municipalizzata dei rifiuti, Ama (foto Imagoeconomica), non intende lasciar cadere il caso. I vertici dell’azienda starebbero preparando una denuncia ai carabinieri per la scomparsa dei contenitori. Anche l’assessore al Verde del Municipio, Rosario Fabiano, si è attivato per fare luce sull’accaduto.
Il comitato Le Muse: “I cassonetti tornino al loro posto”
Dal comitato di zona Le Muse l’appello è chiaro: «Speriamo che quei cassonetti tornino al più presto al loro posto. Sarebbe grave se così non fosse. Si tratta di oggetti che appartengono alla collettività, ricordiamolo».
Intanto, nel quartiere ovattato dei Parioli, il decoro urbano si trasforma in una guerra di nervi, tra privacy e servizio pubblico, in attesa che si ristabilisca un fragile equilibrio tra rifiuti e rispetto.
Ha deciso di rivolgersi alla polizia postale la madre del 17enne condannato a 18 anni e 8 mesi per l’omicidio di Santo Romano, ucciso nella notte tra l’uno e il due novembre scorsi a San Sebastiano al Vesuvio. Lo fa per chiedere chiarezza su una vicenda che – a suo dire – rischia di danneggiare ulteriormente il figlio.
La denuncia: «Quei post non li ha scritti mio figlio»
«Mio figlio è detenuto ad Airola, non ha accesso ai social e non è stato mai segnalato per l’uso di telefoni cellulari in modo clandestino», spiega la donna, assistita dall’avvocato Luca Raviele. E chiarisce: «Non può essere lui l’autore dei messaggi comparsi in rete dopo la sentenza». Messaggi che – accompagnati da immagini del ragazzo risalenti a mesi fa – contengono frasi provocatorie e offensive, come: «Io 18 anni e 8 mesi me li faccio seduto su un cesso».
Una pioggia di messaggi offensivi
Quei post, circolati in modo virale sui social, hanno fatto riesplodere le tensioni tra i familiari delle due fazioni coinvolte nella tragica vicenda. E la madre del minore condannato prende le distanze: «Non c’entriamo nulla. Né io, né parenti o conoscenti abbiamo scritto o condiviso quei contenuti. Spero che la polizia postale indaghi per risalire ai veri responsabili».
La notte dell’omicidio: una lite per una scarpa sporca
Tutto è iniziato in piazza Capasso, cuore della movida di San Sebastiano. Un banale litigio per una scarpa pestata ha innescato lo scontro tra due gruppi di ragazzi. Dopo un primo alterco, la situazione sembrava rientrata, ma secondo quanto ricostruito dagli inquirenti – anche grazie a un video – Santo Romano sarebbe tornato indietro rivolgendosi all’auto dove si trovava L.D.M. Un gesto, forse un lancio, e poi il dramma: due colpi di pistola al petto, esplosi dal 17enne. Santo muore sul colpo.
Un processo doloroso e una sentenza pesante
Martedì scorso è arrivata la condanna in primo grado: 18 anni e 8 mesi di reclusione per omicidio, tentato omicidio e detenzione di arma da fuoco. L’indagine è stata condotta dal pm Ettore La Ragione della Procura per i Minori. Una sentenza che ha alimentato il dolore dei familiari di Santo Romano, un ragazzo di 19 anni, portiere di una squadra di calcio, noto nel suo gruppo per essere sempre un paciere.
Il timore di nuove tensioni
I post emersi nelle ultime ore rischiano di avvelenare ulteriormente il clima. «Non voglio neanche ripetere il contenuto di certi messaggi – spiega la madre del ragazzo – sono offensivi, gratuiti, e danneggiano mio figlio. Non possiamo permettere che a una tragedia come questa si aggiungano nuove ingiustizie». Per questo è stata sporta una formale denuncia contro ignoti: sarà ora compito degli investigatori della polizia postale stabilire chi si nasconde dietro quegli account.