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Cronache

Una bimba di 11 anni molestata all’uscita di scuola

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“Un bacio al nonno”. Così, l’uomo di 72 anni della provincia Barletta-Andria-Trani arrestato in flagranza dalla polizia con l’accusa di violenza sessuale ai danni di minore, sarebbe stato solito dire alla bambina di 11 anni che ogni mattina gli passava accanto.

Lei, zaino in spalla e grembiule, è solita comprare qualcosa per la merenda scolastica prima di entrare in classe. E per farlo, raggiunge un panificio, passando proprio davanti a quel signore seduto alla panchina che non è lontana dalla scuola elementare frequentata dalla piccola. E così, quella richiesta apparentemente innocente non le è sembrata qualcosa di scabroso. Qualcosa poi, è cambiato: il 72enne l’avrebbe molestata. E lei, spaventata, è corsa via per rifugiarsi nel negozio dove compra panini, focacce e dolcetti. Sono stati i titolari dell’attività a comporre il 113 e ad allertare i poliziotti. Che ci hanno messo un attimo a raggiungerli.

E lì, nel profumo del pane appena sfornato, hanno trovato la bimba ancora in lacrime ed hanno arrestato l’anziano. I poliziotti hanno tranquillizzato l’undicenne e hanno subito avviato gli accertamenti coordinati dalla Procura di Trani. Hanno raccolto quanto era possibile cercare lì dove la piccola ha riferito di essere stata molestata. Gli agenti hanno guardato i filmati registrati dalle telecamere di videosorveglianza della zona e ascoltato chi aveva accolto la paura e le lacrime della bimba.

Nei racconti di chi era in quel negozio, si parla di una bambina impaurita, inquieta e agitata da quel “nonno” che avrebbe chiesto un bacino per poi allungare le mani. Chi per primo ha provato a calmarla, ha vissuto l’impotenza di riuscire a tranquillizzarla. Dopo poco, anche il papà della bambina ha raggiunto il panificio e ha stretto a sé la sua piccolina. Che nelle ore successive, è stata ascoltata in commissariato.

Agenti specializzati nell’affrontare reati a sfondo sessuale, le hanno posto domande discrete e gentili, e lei ha dettagliato quanto le era successo descrivendo chi era il presunto responsabile. L’uomo è comparso dinanzi al gip del tribunale di Trani, Domenico Zeno, che dopo l’interrogatorio di garanzia ha convalidato l’arresto (rigettando la richiesta dei domiciliari avanzata dal pm) ed ha disposto per l’indagato l’obbligo di dimora con il divieto di uscire da casa prima delle 14.30.

“La misura cautelare decisa dal giudice conferma che la versione fornita dalla presunta vittima e da chi era con lei non è esattamente corrispondente alla realtà”, commenta il legale del pensionato che parla di “un uomo che forse, ha potuto dare uno scappellotto alla bambina perché era in ritardo rispetto all’avvio delle lezioni. Nessuna molestia”. “Non ci sono altre presunte vittime del mio assistito che è una persona perbene”, conclude l’avvocato.

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Cronache

Dalla strage del Rapido 904 alle bombe contro Ferlaino, il boss pentito Giuseppe Misso racconta la sua verità con un libro

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A quarant’anni dalla tragica strage del rapido 904 Napoli-Milano, il collaboratore di giustizia Giuseppe Misso, oggi 77enne, condivide la sua versione dei fatti nel suo secondo libro, “Quel rapido 904” (Milieu Edizioni, p. 304, euro 17,90). Con nomi e cognomi, Misso narra oltre trent’anni di vicende, mettendo al centro la strage del 904, un episodio ancora avvolto da molti misteri, causato da una bomba che esplose sul treno, provocando 16 vittime durante gli anni della strategia della tensione.

L’inchiesta sulla strage fu condotta dal procuratore Pierluigi Vigna, con Misso accusato di aver fornito l’esplosivo ai mafiosi di Pippo Calò per distogliere l’attenzione investigativa da Cosa Nostra. Misso trascorse anni in carcere, anche in isolamento a Pianosa, prima di essere assolto. Nel suo libro, egli elenca tutte le vittime della strage, sottolineando che raccontare la verità è l’unico modo per commemorare degnamente le vittime di un attentato così vile.

Il libro è arricchito da verbali e articoli dell’epoca, tra cui uno di Peppe D’Avanzo su Repubblica, che costò a Misso l’arresto per violazione del segreto istruttorio. Misso racconta anche il suo passato politico, inclusa l’iscrizione al Msi e il sostegno elettorale ai candidati missini. Tra i suoi aneddoti, un incontro con Giorgio Almirante in un bar di piazza Vanvitelli al Vomero, durante una campagna elettorale.

Misso ha sempre rigettato l’etichetta di capoclan, riconoscendosi piuttosto come omicida coinvolto in una guerra feroce contro la famiglia Giuliano di Forcella, ma non come estorsore o trafficante di droga. “I nostri guadagni erano le rapine miliardarie, il lotto e il toto clandestino,” scrive, ricordando le audaci incursioni nei sottosuoli e nelle fogne di Napoli.

Tra le rapine più famose, Misso racconta quella in cui venne sottratto anche il Pallone d’oro di Maradona. Il libro cerca di confrontare verità reale e verità costruita, sottolineando il dolore che questa storia ha inflitto a familiari delle vittime e a chi ne fu ingiustamente coinvolto.

Il capo della “banda Misso” subì una grave perdita nel giorno della sua assoluzione: la sua compagna, Assunta Sarno, fu uccisa in un agguato di camorra, insieme ad altre persone tra cui Nino Galeota, un fervente tifoso del Napoli. Misso ricorda anche la stagione delle bombe contro Corrado Ferlaino e la società azzurra, una protesta feroce organizzata con Galeota per il ritorno di Juliano e per costruire una squadra competitiva.

Misso racconta per la prima volta in prima persona come, nell’ottobre 1982, organizzarono un attentato contro Ferlaino, con bombe esplose sotto casa sua e allo stadio San Paolo. La campagna culminò con manifesti e striscioni aerei che chiedevano le dimissioni di Ferlaino, che si dimise nel 1984, anno in cui Juliano acquistò Maradona con l’aiuto di José Alberti.

“Quel rapido 904” offre una nuova prospettiva su un capitolo oscuro della storia italiana, raccontato da uno dei protagonisti che, dopo anni di silenzio e sofferenza, decide di condividere la sua versione dei fatti, cercando di fare luce su una tragedia che ha segnato profondamente il Paese.

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Nel 2024 già 43 suicidi in cella, 16 aspettavano sentenza

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Quattro detenuti suicidi in due giorni, 43 dall’inizio dell’anno. “Numeri pazzeschi, indegni di un Paese civile”, denunciano i sindacati carcerari, mentre l’opposizione attacca il governo e chiede di ricorrere ad amnistia ed indulto. Dei 43 che si sono tolti la vita, 16 erano in attesa di giudizio, secondo i numeri del Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà. Sugli ultimi casi l’Autorità sta svolgendo approfondimenti assumendo informazioni per capire le modalità dei gesti.

Ogni caso, sottolineano fonti del Garante, è diverso dall’altro: bisogna tenere conto della storia personale, dell’età, del residuo di pena da scontare. L’Autorità invoca da tempo un uso equilibrato della custodia cautelare in carcere, nonchè misure deflattive. La normativa vigente consente ad esempio la liberazione anticipata speciale.

Bisogna però tenere conto dell’articolo 4 bis della legge sull’ordinamento penitenziario che vieta la concessione di benefici per determinati reati. Due dei 4 suicidi del fine settimana avrebbero concluso la pena nel 2026. Walter Verini, del Pd, mette nel mirino proprio l’ufficio del Garante, presieduto da Maurizio D’Ettore. “Da quando il nuovo Ufficio si è insediato – accusa – non risultano pubblicamente sopralluoghi e monitoraggi nelle carceri nelle quali avvengono queste tragedie. Una inerzia totale, degna del resto di un Governo che in un anno e mezzo è stato irresponsabilmente latitante e solo in questi giorni annuncia provvedimenti tutti da vedere e verificare”.

Per un altro dem, Filippo Sensi, “le soluzioni da mettere in campo non sono più differibili. L’indulto è una risposta? Facciamolo. La depenalizzazione? Lavoriamoci. Le misure alternative? Che aspettiamo?”. Anche Osvaldo Napoli, di Azione, cita amnistia ed indulto. “Trovo però orribile che le inadempienze dello Stato siano pagate con la vita dai carcerati”, spiega. Mentre Ilaria Cucchi (Alleanza Verdi e Sinistra), parla di “situazione insostenibile nel silenzio generale. Il ddl Sicurezza proposto dalla destra non affronta minimamente il sovraffollamento anzi, tutta la legislazione del governo Meloni è tesa ad aggiungere reati, aggravare le pene fino al nuovo reato di rivolta penitenziaria. Il contrario di quello che serve”.

Sul piede di guerra anche i sindacati. I detenuti, lamenta il segretario del Sappe, Donato Capece , “sono vittime innocenti di un disagio individuale a cui non si riesce a fare fronte nonostante gli sforzi e l’impegno degli operatori, in primis le donne e gli uomini della polizia penitenziaria che il carcere lo vivono nelle sezioni detentive”. Secondo il segretario generale della Uilpa Polizia penitenziaria, Gennarino de Fazio, “si notano due grandi essenti, il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, e il governo Meloni. Suicidi, omicidi, risse, aggressioni, stupri, traffici illeciti, ma cos’altro deve accadere affinché l’esecutivo prenda atto dell’emergenza in essere e vari misure consequenziali?”.

Al governo si rivolge anche Antigone, l’associazione che si batte per i diritti nelle carceri, invitandolo a ritirare il ddl sicurezza “che va verso una strada che è l’opposto di quanto servirebbe”. Uno degli ultimi 4 suicidi, detenuto nel carcere di Teramo, aveva 74 anni ed era malato da tempo. Scontava da 7 anni una condanna a 18 anni per l’omicidio dell’ex moglie. L’avvocato aveva chiesto una misura alternativa, ma dopo tre rinvii l’uomo ha deciso di farla finita. “È stato ammazzato dallo Stato italiano, dalle lungaggini processuali e dall’incuria ed inadeguatezza dell’istituto carcerario”, le parole della sua legale, Federica Di Nicola. Gli altri 3 casi recenti si sono registrati nei carceri di Sassari, Biella e Ariano Irpino

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Ucciso a fucilate, era cognato di un collaboratore di giustizia

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Un uomo, Bartolomeo Pio Notarangelo, di 36 anni, è stato ucciso a colpi di fucile questo pomeriggio a Mattinata, nel Foggiano. L’agguato è stato compiuto in località Tagliata. Sul posto sono intervenuti i carabinieri.

Bartolomeo Pio Notarangelo, il 36enne ucciso oggi a colpi di fucile a Mattinata, in una zona impervia del Gargano, aveva legami di parentela con la famiglia Quitadamo, ritenuta vicina ad ambienti criminali. Antonio e Andrea Quitadamo – soprannominati Baffino – collaborano con la giustizia da alcuni anni. E Notarangelo era il cognato di Andrea, il più giovane dei due fratelli. La vittima, inoltre, era il cugino di Angelo Notarangelo, ex boss di Vieste ucciso nel 2015. I carabinieri sono al lavoro per individuare gli assassini.

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