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Salute

Trapianto cuore rivitalizzato e trasportato dopo l’arresto

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Un arresto cardiaco in un ospedale lontano dal luogo del trapianto ha rischiato di rendere inutilizzabili gli organi. La collaborazione dei medici dell’ospedale di Cuneo, dove è avvenuto il decesso, e l’esperienza dei colleghi delle Molinette della Città della salute di Torino, corsi a Cuneo, hanno permesso invece per la prima volta in Italia, viene riferito, di rivitalizzare il cuore, tenuto in vita fino all’arrivo nel capoluogo piemontese per il trapianto. Identico lavoro è stato fatto per il fegato. In entrambi i casi gli organi non sono stati tenuti fermi in ghiaccio, bensì al di fuori del corpo in macchine di perfusione.

Le particolarità di quanto accaduto, secondo quanto spiega l’ospedale, sono molteplici ed è la loro concomitanza il fatto straordinario. La prima è la modalità di donazione, avvenuta dopo la morte cardiaca. Non per la prima volta, ma da sommare al fatto che donatore e trapiantato non erano nella stessa struttura, ma a un centinaio di chilometri, che moltiplicano il tempo di attesa. Ci sono inoltre le tecnologie impiegate per la preservazione degli organi, da aggiungere al trasferimento di un’équipe dedicata a questo particolare tipo di donazione in un ospedale non di Torino, con conseguente trasporto degli organi. In particolare il cuore è l’organo che più risente della cosiddetta ischemia, ovvero dell’assenza di sangue. Per questo l’équipe di cardiochirurghi e cardioanestesisti torinesi ha posizionato il cuore nell’Ocs (Orgaan Care System), un sistema portatile di perfusione ex-vivo a temperatura fisiologica, per poterlo trasportare in sicurezza fino a Torino, irrorato dal suo sangue e battente fuori dal corpo umano. Si è trattato in pratica di attivare procedure complesse in un ospedale non sede di trapianti, per utilizzare poi gli organi a Torino per quattro diversi trapianti alle Molinette, con l’organizzazione del Centro regionale trapianti del Piemonte (diretto da Federico Genzano Besso) e del Centro regionale prelievo (coordinato da Anna Guermani), con la collaborazione di decine tra medici, infermieri, coordinatori, tecnici e autisti, sia delle Molinette che dell’ospedale di Cuneo.

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Via libera negli USA al primo esame del sangue per diagnosticare l’Alzheimer: diagnosi precoce e cure più tempestive

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Un passo avanti decisivo nella lotta contro l’Alzheimer: la Food and Drug Administration (FDA) degli Stati Uniti ha approvato il primo esame del sangue capace di identificare precocemente la malattia. Il test è stato sviluppato da Fujirebio Diagnostics e si basa sull’analisi del rapporto tra due proteine presenti nel sangue, utili per intercettare i segnali della neurodegenerazione in fase iniziale.

Diagnosi più rapida per avviare subito le terapie

Il nuovo esame rappresenta un’innovazione cruciale per la diagnosi precoce dell’Alzheimer, poiché consentirà di iniziare prima la somministrazione di farmaci capaci di rallentare la progressione della malattia. Fino a oggi, l’identificazione dell’Alzheimer avveniva con metodi più complessi e invasivi, come la PET o la puntura lombare. Con un semplice prelievo di sangue, ora sarà possibile intervenire in anticipo.

Allarme Alzheimer: i numeri negli Stati Uniti

Secondo i dati diffusi dalla FDA, negli Stati Uniti il 10% delle persone con più di 65 anni è affetto da Alzheimer. Una cifra destinata a raddoppiare entro il 2050, sottolineando l’urgenza di strumenti diagnostici più efficienti. Marty Makary, rappresentante dell’agenzia sanitaria americana, ha dichiarato:

«L’Alzheimer colpisce troppe persone, più del cancro al seno e del cancro alla prostata messi insieme».

La speranza è nella prevenzione

Il test di Fujirebio potrebbe trasformare radicalmente l’approccio alla malattia, rendendo possibile una strategia di prevenzione più efficace, con controlli regolari nella popolazione a rischio. La comunità scientifica internazionale accoglie con interesse questa approvazione, che potrebbe presto cambiare anche i protocolli diagnostici europei.

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Salute

Diabete ‘oscuro’, una persona su tre non sa di averlo

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In Italia una persona con diabete su tre non sa di averlo, mentre altri 3,5 milioni di italiani presentano prediabete non ancora diagnosticato. Numeri preoccupanti quelli anticipati dalla Società italiana di diabetologia (Sid) in occasione di ‘Panorama Diabete’, il congresso nazionale della Sid che si apre a Riccione il 18 maggio. In Molise, secondo alcuni dati dell’Istituto superiore di sanità (Is) riferiti al biennio 2022-2023, ne soffre quasi il 5 per cento della popolazione adulta, valore comunque in linea con quello nazionale (4,8 per cento).

“I trend di crescita della patologia – commenta Riccardo Bonadonna, Presidente eletto Sid – impongono un aumento delle strutture specialistiche, che devono agire in costante collegamento e sinergia con il territorio. Servono un servizio diabetologico in tutti gli ospedali e un team diabetologico in ciascuna casa di comunità, oltre ad un incremento dei posti per la formazione specialistica in endocrinologia e malattie del metabolismo”.

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Primo paziente al mondo trattato con editing genetico su misura

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E’ un bambino di pochi mesi di vita, affetto da una rara malattia metabolica, il primo paziente al mondo trattato con una nuova terapia personalizzata basata sull’editing genetico con tecnologia Crispr: sottoposto a tre infusioni tra febbraio e aprile, ha già mostrato alcuni miglioramenti senza gravi effetti collaterali, anche se servirà un monitoraggio più lungo per verificare appieno gli esiti della terapia. Il risultato, che apre nuovi scenari per le malattie genetiche rare, è pubblicato su New England Journal of Medicine da un team del Children’s Hospital di Philadelphia e della Penn Medicine negli Stati Uniti. I

l piccolo paziente, KJ, è nato con una rara malattia metabolica dovuta al deficit di un enzima del fegato, la carbamil fosfato sintetasi 1 (CPS1): questa condizione provoca l’accumulo di ammoniaca nel sangue, anche fino a livelli tossici, con pesanti conseguenze per organi cruciali come il cervello. Solitamente il trattamento consiste nel trapianto di fegato, ma vi possono accedere solo pazienti clinicamente stabili che hanno un’età sufficiente per affrontare una procedura così importante.

KJ era ancora troppo piccolo e così i ricercatori hanno provato ad aiutarlo sviluppando una terapia di editing genetico personalizzata, mirata alla specifica variante del gene CPS1 identificata nel bambino subito dopo la nascita. La terapia è stata messa a punto in soli sei mesi ed è stata somministrata tramite nanoparticelle lipidiche al fegato, infuse in tre dosi a febbraio, marzo e aprile 2025. “Sebbene KJ dovrà essere monitorato attentamente per il resto della sua vita, i nostri risultati iniziali sono piuttosto promettenti”, afferma Rebecca Ahrens-Nicklas, direttrice del Gene Therapy for Inherited Metabolic Disorders Frontier Program presso il Children’s Hospital di Philadelphia e professoressa associata di pediatria dell’Università della Pennsylvania.

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