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Terrore sul bus per Linate, i pm: Sy voleva fare una strage sulla pista di Linate

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E’ stato recuperato nelle indagini dei carabinieri, coordinate dal capo del pool antiterrorismo Alberto Nobili e dal pm Luca Poniz, il video “proclama” di 37 minuti di Ousseynou Sy, l’autista che il 20 marzo ha tenuto in ostaggio 50 bambini, due insegnanti e una bidella e poi ha dato fuoco al bus, a San Donato Milanese. “Viva il panafricanesimo, combattiamo i governi corrotti e critichiamo la politica europea che sfrutta l’Africa”, diceva il senegalese. Gli inquirenti ritengono non sia pubblicabile per rischi di “emulazione e odio”.

Il video di quasi 40 minuti, che Sy mise sul suo canale privato di Youtube e poi tento di inviare ad alcuni suoi contatti ma senza riuscirci (era troppo pesante), è stato recuperato dai carabinieri e grazie anche alla collaborazione con gli inquirenti da parte di Google. Per i pm “non e’ pubblicabile per ragioni di buon senso, perche’ si rischiano segnali di emulazione o all’opposto anche di odio verso gli africani e quindi per noi la diffusione e’ inopportuna e inutile”. Nelle immagini, in cui Sy si riprende frontalmente con un telefonino, il senegalese, che era da 15 anni in Italia e da 10 anni lavorava regolarmente e ha due figli, lancia un “proclama” pochi giorni prima di quello che lui stesso ha chiamato negli interrogatori (l’ultimo di ieri davanti ai pm) “un gesto eclatante”. Non fa riferimenti diretti all’azione che avrebbe compiuto, ma fornisce con calma e in modo lucido (lo stesso atteggiamento che ha avuto anche ieri davanti ai pm) il ‘contesto programmatico’ in cui si e’ inserita la sua azione. L’uomo dimostra anche una certa cultura perche’ cita le origini del “panafricanesimo”, parla di Nelson Mandela e di altri ideologi del riscatto dell’Africa, ma poi spiega che non e’ piu’ il momento che quell’ideologia sia legata al pacifismo. Come ha spiegato anche davanti ai pm, infatti, “in questo momento il panafricanesimo vive una fase di torpore e serviva un gesto eclatante di cui si parlasse nel mondo per risvegliarlo”. Non ha piu’ fatto riferimento a quelle “voci” nella sua testa di bambini morti in mare di cui aveva parlato nel primo interrogatorio davanti al gip e i pm ritengono che fosse perfettamente capace di intendere e di volere (nessuna perizia o consulenza e’ stata fatta), che il suo fu un gesto premeditato e studiato che si doveva chiudere con un strage sulla pista di Linate. Lo dimostrano, tra le molte altre cose, quei dieci litri di benzina con cui aveva cosparso il bus. L’Africa, era l’idea di Sy, “deve essere autonoma, via tutti gli occidentali, ciascuno nel suo continente e mai piu’ stragi nel Mediterraneo”.

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Dalle indagini dei carabinieri si e’ rafforzata l’idea che Ousseynou Sy, l’autista che il 20 marzo ha tenuto in ostaggio 50 bambini, due insegnanti e una bidella e poi ha dato fuoco al bus, a San Donato Milanese, volesse fare una strage sulla pista di Linate. Da imputazione l’uomo aveva “l’intento di condizionare i pubblici poteri in relazione alle politiche in materia di accoglimento degli stranieri, di intimidire la popolazione”. I pm inoltreranno nei prossimi giorni al gip Tommaso Perna la richiesta di processo immediato (si salta la fase dell’udienza preliminare) per Sy, difeso dal legale Richard Ostiante e che ha una serie di imputazioni, tra cui la strage aggravata dalle finalita’ terroristiche, per le quali rischia l’ergastolo. Chiedera’ verosimilmente il rito abbreviato e la difesa potrebbe giocarsi anche la carta di una richiesta di perizia psichiatrica. Nei due mesi di indagini gli investigatori hanno sentito a verbale i 50 ragazzini (il 51esimo era assente quel giorno) con l’assistenza di uno psicologo e dall’esito complessivo degli accertamenti gli inquirenti si sono convinti sempre di piu’ che Sy volesse arrivare a Linate per compiere la strage, anche se lui ha continuato a sostenere fino a ieri che non voleva “fare male a nessuno”. Aveva cosparso il bus di benzina, aveva un accendino (ha continuato a dire che era scarico, ma non era cosi’), aveva chiuso le porte del bus con delle catene, aveva legato le mani dei bambini e degli accompagnatori con delle fascette e aveva preso loro i cellulari (tranne quelli di due alunni che riuscirono a dare l’allarme). Ha impostato anche la scritta ‘fuori servizio’ sul bus, ha oscurato i finestrini, aveva con se’ un coltello mentre la pistola, di cui hanno parlato alcuni testi, non e’ stata trovata e i pm ipotizzano fosse una pistola giocattolo che si e’ sciolta nel rogo, appiccato, sempre secondo l’accusa, mentre i ragazzini stavano fuggendo dal bus aiutati dai carabinieri. Anche nell’ultimo interrogatorio ha chiesto “scusa, perdono”, mentre gli investigatori hanno accertato che il giorno prima aveva riempito due taniche di 50 litri ciascuna di benzina. Nessun contatto, nessuna rete e’ stata individuata e Sy, per i pm, ha agito da “lupo solitario”. Nel suo video messaggi contro i governi africani e europei, Italia compresa, e pure ieri davanti ai pm ha citato ancora il nome del vicepremier Di Maio il quale, a suo dire, “come altri politici europei, anche lui sostiene di farla finita con queste politiche migratorie, non sono io che deliro”.

Ci sono anche le lesioni a 17 bambini, non solo per ferite ma anche per traumi da “stress” e psichici da “violenza emotiva”, tra le imputazioni contestate, assieme alla strage aggravata da finalita’ terroristiche, sequestro di persona, incendio e resistenza, a Ousseynou Sy, l’autista che il 20 marzo ha tenuto in ostaggio 50 bambini, due insegnanti e una bidella e ha dato fuoco al bus, a San Donato Milanese. I pm Alberto Nobili e Luca Poniz sono pronti a chiedere il processo immediato, dopo aver interrogato ieri l’uomo.

Gli inquirenti hanno contestato a Sy anche la resistenza con “violenza e minaccia” per avere speronato un’auto dei carabinieri e per aver mostrato il coltello agli otto carabinieri che, a bordo delle vetture di servizio, stavano cercando di bloccare la sua corsa verso l’aeroporto di Linate. I pm Nobili e Poniz imputano al 47enne senegalese anche le lesioni a 7 militari intervenuti per salvare i ragazzini e per spegnere le fiamme a bordo del bus. Come si legge in uno dei sei capi di imputazione, i militari sono rimasti intossicati dal fumo dell’incendio e alcuni hanno riportato ferite e traumi giudicate guaribili in 25 giorni. Tra gli altri reati contestati al 47enne, poi, c’e’ anche il sequestro di persona aggravato dal terrorismo. I pm accusano l’uomo di avere privato della liberta’ personale i ragazzini a bordo del bus da lui condotto, costringendoli “a seguirlo verso la destinazione a lui prefissata, ossia l’aeroporto di Linate, ove sarebbe stata compiuta una invasione della pista dello scalo”. Il tutto, dopo avere attivato il pannello luminoso con la scritta ‘Fuori servizio’, e dietro la minaccia “di un’arma da fuoco (di natura che non si e’ potuta accertare) e un coltello della lunghezza complessiva di 23,5 centimetri di cui 13 centimetri di lama e poi versando sul pavimento dell’autobus e su alcuni stracci presenti sul mezzo, il contenuto di due taniche di gasolio”. L’accusa principale resta la strage aggravata dalle finalita’ terroristiche, reato punito con pena fino all’ergastolo.

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Magnate asiatico Kwong, mai pagato o conosciuto Boraso

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Il magnate singaporiano Ching Chiat Kwong si chiama ‘fuori’ dalle accuse che lo inseriscono nell’inchiesta di Venezia, sostenendo di non aver “mai pagato, ne’ conosciuto” l’assessore Renato Boraso, in carcere per corruzione. Kwong, indagato dai pm Roberto Terzo e Federica Baccaglini, ha fatto conoscere la sua posizione attraverso il proprio difensore, l’avvocato Guido Simonetti. Nelle carte dell’accusa il miliardario asiatico è chiamato in causa – per l’acquisto dei due palazzi veneziani Donà e Papadopoli, e per la trattativa sui ‘Pili’ – assieme a Luois Lotti, suo plenipotenziario in Italia, e Claudio Vanin, imprenditore prima con loro in affari, ora ingaggiato in una dura lotta legale con Lotti.. A Venezia c’è intanto attesa per capire quali saranno le mosse del sindaco Luigi Brugnaro, a sua volta indagato, che pressato dei partiti della sua maggioranza – in particolare Fdi – ha deciso di anticipare al 2 agosto (prima era il 9 settembre) la data del chiarimento in Consiglio Comunale. Brugnaro continua a lavorare, e non ha intenzione di presentarsi dimissionario.

E se può essere suggestivo accostarvi oggi le dimissioni di Giovanni Toti, suo ex compagno di avventura in ‘Coraggio Italia’, da ambienti vicini a Ca’ Farsetti si fa notare come le due vicende siano “completamente diverse”. Brugnaro è indagato per concorso in corruzione con i due dirigenti dell’ufficio di gabinetto Morris Ceron e Derek Donadini. Quando scoppiò l’inchiesta il Procuratore Bruno Cherchi aveva sottolineato che l’iscrizione del sindaco nel registro era stata fatta solo “a sua tutela”. I chiarimenti veri, tuttavia, non saranno possibili fino a quando i nomi di peso finiti nell’inchiesta non decideranno di presentarsi davanti ai magistrati. Oggi intanto ha provato a chiarire la propria posizione l’uomo d’affari singaporiano “Ching Chiat Kwong – ha dichiarato l’avvocato Simonetti – “non ha mai disposto né effettuato (neppure tramite persone terze) il pagamento di una somma nei confronti dell’assessore Renato Boraso”.

Inoltre “non ha mai neppure conosciuto l’assessore Renato Boraso”. E sulle due operazioni portate a termine da Kwong a Venezia, viene sottolineato che i due edifici citati nell’inchiesta, palazzo Donà e palazzo Papadopoli, “sono stati acquistati attraverso una procedura ad evidenza pubblica e a prezzi in linea (se non superiori) al loro valore di mercato”. Nelle carte dell’inchiesta, l’accusa sottolinea tuttavia che proprio per far abbassare il valore di acquisto di palazzo Papadopoli, da 14 mln a 10,7 mln, Boraso avrebbe ricevuto da Kwong “”per il tramite dei suo collaboratori”, la somma di 73.200 euro, attraverso due fatture da 30.000 euro più Iva, emesse da una società dell’assessore, la Stella Consuting, per una consulenza “in realtà mai conferita, ne’ eseguita”. Quanto all’affare, poi sfumato, dei Pili, l’avvocato di Kwong evidenzia “come la trattativai non si sia in alcun modo mai concretizzata, fermandosi ad uno stadio del tutto embrionale”.

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‘Sgomberate la Vela’, l’ordinanza del 2015 mai eseguita

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Un’ordinanza datata ottobre 2015 metteva in guardia dal pericolo crolli: la Vela Celeste va sgomberata, il succo di una relazione del Comune di Napoli messa nero su bianco. La firma in calce è quella del sindaco dell’epoca, Luigi de Magistris. Un sos che non troverà mai seguito e di cui oggi la città piange le conseguenze dopo il crollo del ballatoio-passerella che lunedì sera ha determinato la morte di tre persone e il ferimento di altre dodici. Dunque, non solo il documento datato 2016 che denunciava la mancata manutenzione dei ballatoi della Vela Celeste di Scampia con relativo rischio crollo, dal passato emerge anche un’altra carta che chiama in causa l’immobilismo delle istituzioni. Perché quell’ordinanza di sgombero coatto non è mai stata presa in considerazione?

E perché si è preferito agire con degli accorgimenti che sanno di palliativo piuttosto che affrontare di petto l’emergenza segnalata da quel documento pubblicato sull’albo pretorio del Comune? Domande in attesa di risposta e sulle quali la procura di Napoli – che ha aperto un’indagine contro ignoti per crollo colposo e omicidio colposo – intende fare chiarezza. L’ordinanza firmata de Magistris – è quanto emerge – era dettata dalla necessità di tutelare l’incolumità di 159 famiglie per un totale di 600 persone residenti nella Vela Celeste. Alla base del provvedimento c’era la relazione di un dirigente comunale che delineava un quadro di pericolo allarmante. Anche la politica chiede di fare chiarezza.

A partire dalla segretaria del Pd Elly Schlein che ne ha parlato al festival di Giffoni: “È un tragedia drammatica – ha detto -. Abbiamo immediatamente espresso tutta la nostra vicinanza alle persone, alle famiglie, al quartiere colpito. C’è da fare luce su quello che è accaduto perché non può succedere una cosa del genere”. Fare luce è quello che intende fare la Procura di Napoli che ha disposto l’ampliamento dell’area sottoposta a sequestro, dal terzo piano fino al piano terra. Le verifiche stanno riguardando anche le posizioni dei residenti nella Vela “incriminata” che, in gran parte, secondo quanto si apprende da fonti qualificate, risulterebbero abusivi. E intanto si sta rivelando più difficoltosa del previsto l’acquisizione della copiosa documentazione amministrativa sulla Vela Celeste. Si tratta in particolare degli atti relativi al progetto di riqualificazione ReStart e alla manutenzione del complesso di edilizia popolare con relative negligenze che oramai sono date per scontate. Fondamentali saranno per gli inquirenti le risultanze del lavoro affidato al perito, un ingegnere strutturista forense. Conferito, infine, l’incarico per gli esami autoptici sui corpi delle tre vittime.

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Rifiuta nutrizione artificiale,”ok a suicidio assistito”

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Si è sbloccato l’iter per l’accesso al suicidio medicalmente assistito della 54enne toscana, completamente paralizzata a causa di una sclerosi multipla progressiva, che aveva rifiutato la nutrizione artificiale: la Asl Toscana nord ovest ha dato parere favorevole. “E’ la prima applicazione della nuova sentenza della Consulta che ha esteso il concetto di ‘trattamento di sostegno vitale'”, afferma l’associazione Luca Coscioni a cui si era rivolta tempo fa la donna e che ne aveva reso noto il caso un mese fa. L’Azienda sanitaria, spiega oggi l’associazione, “ha comunicato il suo parere favorevole: la donna possiede tutti e 4 i requisiti previsti dalla sentenza 242/2019 (Cappato/Dj Fabo) per poter accedere legalmente al suicidio medicalmente assistito in Italia. Da oggi se confermerà la sua volontà, potrà procedere a porre fine alle sue sofferenze. La Commissione medica della azienda sanitaria ora aspetta di sapere le modalità di esecuzione e il medico scelto dalla donna, in modo da assicurare ‘il rispetto della dignità della persona’”. La donna aveva inviato la richiesta di verifica delle sue condizioni il 20 marzo e a causa del diniego opposto aveva diffidato l’Asl, il successivo 29 giugno, alla revisione della relazione finale con particolare riferimento alla sussistenza del requisito del trattamento di sostegno vitale, essendo totalmente dipendente dall’assistenza di terze persone e avendo rifiutato la nutrizione artificiale con la Peg ritenendola un accanimento terapeutico.

Ora la revisione del parere della Asl “è avvenuta – rileva l’associazione – alla luce della recente sentenza della Corte costituzionale 135 del 2024 che ha esteso l’interpretazione del concetto di ‘trattamento di sostegno vitale'”: fino a quest’ultima sentenza l’Azienda sanitaria “non riconosceva la presenza di questo requisito, in quanto equiparava il rifiuto della nutrizione artificiale all’assenza del ‘trattamento di sostegno vitale'”. I giudici della Consulta però “hanno chiarito che ‘non vi può essere distinzione tra la situazione del paziente già sottoposto a trattamenti di sostegno vitale, di cui può chiedere l’interruzione, e quella del paziente che non vi è ancora sottoposto, ma ha ormai necessità di tali trattamenti per sostenere le sue funzioni vitali'”. “È la prima applicazione diretta della sentenza 135” della Consulta “che interpreta in modo estensivo e non discriminatorio il requisito del trattamento di sostegno vitale – dichiara l’avvocato Filomena Gallo, segretaria nazionale dell’associazione Coscioni, difensore e coordinatrice del collegio legale della 54enne -. La signora dopo mesi di attesa e sofferenze, con il rischio di morire in modo atroce per soffocamento anche solo bevendo, potrà decidere con il medico di fiducia quando procedere, comunicando all’Azienda sanitaria tempi e modalità di autosomministrazione del farmaco al fine di ricevere assistenza e quanto necessario. Le decisioni della Consulta, che hanno valore di legge, colmano il vuoto in materia dettando le procedure da seguire per chi vuole procedere con il suicidio medicalmente assistito”.

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