Collegati con noi

Esteri

Processo alle Farc, i capi storici vogliono la pace e chiedono perdono alle vittime di 30 anni di sangue e violenze in Colombia

Pubblicato

del

«Chiediamo perdono a tutte le famiglie colpite dalle nostre azioni. Faremo l’impossibile affinché possano conoscere la verità. Ci assumeremo le nostre responsabilità, contribuiremo a dar loro riparazione e compiremo ogni sforzo perché fatti simili non si ripetano ». Rodrigo Londoño, nome di battaglia “Timochenko”, ex comandante delle Fuerzas armadas revolucionarias de Colombia (Farc), arriva in anticipo all’edificio al numero 63-44 della settima strada di Bogotà e sale dritto al 12esimo piano. Entra in aula e siede sul banco degli imputati. Centinaia di macchine fotografiche catturano la scena, impensabile per oltre mezzo secolo. Con il “processo 001”, in corso da venerdì, debutta ufficialmente la Giustizia speciale per la pace ( Jep), il sistema disegnato dall’accordo che, il 24 novembre 2016, ha messo fine al conflitto tra il governo e la guerriglia più vecchia d’America. I cosiddetti “Tribunali di pace” sono chiamati a giudicare quanti fra gli ex miliziani, ora smobilitati – ma anche soldati e paramilitari – sono accusati di crimini di particolare gravità. Il primo processo è dedicato ai sequestri di massa commessi dalle Farc.

Processo di pace. Davanti al Tribunale di Bogotà processo ai capi delle Farc

Ben 8.153 persone sono state rapite dall’ex guerriglia, la maggior parte tra il 1993 e il 2002. Di tali delitti sono stati chiamati a rispondere Timochenko e altri 30 comandanti delle Farc. Di questi, solo Carlos Antonio Lozada e Pablo Catatumbo – che da marzo occupano due dei dieci seggi in Parlamento concessi alla formazione – si sono presentati in aula. Mentre Jesús Santrich si è collegato in videoconferenza dal carcere di La Picota, dove è rinchiuso con l’accusa di aver proseguito il traffico di cocaina verso gli Usa dopo l’ intesa. Gli altri 27 si sono fatti rappresentare dagli avvocati. Oltre 4mila ex miliziani saranno sottoposti ai “Tribunali di pace”, che applicano la giustizia riparativa, sul modello sudafricano. Per accedere al sistema e ottenere pene massime di otto anni, di tipo non detentivo, gli imputati devono ammettere le proprie responsabilità, aiutare a ricostruire la verità, chiedere perdono alle vittime e impegnarsi a risarcirle. Chi non accetterà tali condizioni sarà giudicato dalla magistratura ordinaria. L’ avvio dei lavori della Jep avviene in un momento particolarmente delicato del dopo-guerra. Il presidente eletto, l’ ultraconservatore Iván Duque, che entrerà in carica ad agosto, ha promesso di modificare il sistema, considerato troppo morbido verso la Farc.

Advertisement

Esteri

Trump apre alla Cina, pronto a ridurre i dazi

Pubblicato

del

Donald Trump apre alla Cina di Xi Jinping. Assicurando che sarà “molto gentile” durante i colloqui commerciali, il presidente americano aleggia la possibilità di una riduzione sostanziale dei dazi. Una prova di disgelo che fa volare le borse ed è accolta positivamente da Pechino: la porta delle trattative “è spalancata”. Al momento non c’è però alcun colloquio in corso fra le due superpotenze economiche. Washington “non ha ancora” parlato con la Cina di dazi, ha detto il segretario al Tesoro Scott Bessent, a cui Trump ha affidato il dossier commerciale. Parlando di livelli tariffari “insostenibili” fra i due Paesi, Bessent ha messo in evidenza la necessità di una “de-esclation” per poter iniziare un confronto chiaro e costruttivo. In quest’ottica si inseriscono le ipotesi allo studio della Casa Bianca per un taglio sostanziale delle tariffe alla Cina, attualmente al 145%, per allentare la tensione.

I dazi – secondo le indiscrezioni del Wall Street Journal – potrebbero calare in una forchetta fra il 50 e il 65%, venendo quindi più che dimezzati. Un’altra opzione al vaglio è quella di un un approccio a più livelli, con dazi al 35% sui beni Made in China non ritenuti una minaccia alla sicurezza e al 100% per i prodotti invece considerati strategici per gli interessi americani. Nessuna decisione definitiva è stata comunque ancora presa dal presidente. E Bessent ha assicurato che non c’è o ci sarà una riduzione unilaterale: “Come ho detto molte volte, non credo che nessuna delle due parti”, ovvero Washington e Pechino, “creda che gli attuali livelli tariffari siano sostenibili, quindi non sarei sorpreso se diminuissero in modo reciproco”. I toni ammorbiditi di Trump nei confronti della Cina rassicurano i mercati finanziari. Le borse del Vecchio Continente chiudono tutte in positivo, con Francoforte che sale del 3,14% e Milano dell’1,42% . Avanza decisa anche Wall Street, rassicurata anche dal chiarimento di Trump sul presidente della Fed.

“Non ho alcuna intenzione” di rimuoverlo, ha detto il tycoon. Le piazze finanziarie vedono in quella che ritengono “un’inversione a U” del presidente sulla Cina e su Jerome Powell una riduzione dell’incertezza e una possibile soluzione a una guerra commerciale dall’impatto globale. Pur escludendo una recessione, il Fondo Monetario Internazionale ha infatti rivisto al ribasso le stime di crescita mondiali per le tariffe e messo in guardia sui rischi al ribasso che gravano sull’economia. I dazi sono uno dei temi sul tavolo del G20 dei ministri finanziari e dei governatori delle banche centrali riuniti a Washington a margine dei lavori del Fondo. La partita fra gli Stati Uniti e la Cina si gioca mentre la Casa Bianca continua il dialogo con l’Unione Europea. Dei primi contatti fra Trump e la presidente della commissione Ue Ursula von der Leyen potrebbero esserci sabato, quando i due leader saranno a Roma per i funerali di papa Francesco. Un’occasione quantomeno per una stretta di mano, se non per brevi colloqui distensivi o per fissare la data di un incontro ufficiale magari fra maggio e giugno, arco temporale che consentirebbe di continuare a lavorare per centrare almeno una cornice di accordo commerciale.

L’Ue continua a sperare di poter raggiungere un’intesa ma si prepara al peggio e, in un assaggio del bazooka che potrebbe usare contro gli Stati Uniti di Trump, ha multato Apple per 500 milioni di euro e Meta per 200 milioni per violazioni del regolamento sui mercati digitali Dma. Una mossa che appare come un avvertimento al presidente americano, che da mesi critica il pungo duro europeo contro Big Tech e si è spinto fino a definire ‘dazi’ le multe inflitte. Trump ha fatto della difesa della Silicon Valley dagli attacchi europei una priorità visti anche i suoi rapporti sempre più stretti con i miliardari tech. Mark Zuckerberg di Meta e Tim Cook di Apple erano alla cerimonia del suo giuramento e hanno contribuito a finanziarlo. La loro speranza ora è che il presidente possa aiutarli nella loro battaglia.

Continua a leggere

Esteri

Musk lascia il Doge, ‘missione conclusa’. Tesla brinda

Pubblicato

del

Era nell’aria da qualche settimana ma adesso c’è l’annuncio ufficiale. Da maggio Elon Musk, l’uomo più ricco del mondo entrato a gamba tesa nell’amministrazione di Donald Trump, lascerà la guida del dipartimento creato su misura per lui e si concentrerà sulla Tesla, la sua prima creatura che ha avuto un crollo in borsa negli ultimi mesi. “Probabilmente il mese prossimo, il tempo che dedicherò al Doge diminuirà significativamente”, ha dichiarato il ‘first buddy’ in una conference call con gli azionisti. Da quando il suo fondatore è sceso in campo con il suo programma di mega tagli al governo ha scatenato proteste e ritorsioni in tutti gli Stati Uniti e la casa automobilistica ha registrato un calo del 20% nelle vendite di nel primo trimestre, rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente, mentre gli utili sono scesi di oltre il 70%.

Alla notizia del passo indietro di Musk, Tesla è immediatamente salita del 3,94% nelle contrattazioni after hours a Wall Street e ha continuato ad avere un andamento positivo per tutta la giornata successiva. I dipendenti pubblici a tempo determinato, come Musk, possono di solito lavorare 130 giorni all’anno, periodo che per lui scadrà alla fine del mese prossimo. Tuttavia non è ancora chiaro quando si dimetterà definitivamente. Il miliardario, che ha sborsato oltre 270 milioni per la campagna di Trump ha spiegato che il lavoro del dipartimento per l’efficienza energetica è “quasi completo” ed ha assciurato che continuerà a lavorare con il team del Doge “per assicurarmi che sprechi e frodi non si verifichino più”. “Un giorno o due a settimana.

Finché il presidente lo vorrà”, ha precisato. Musk aveva promesso durante la campagna elettorale di tagliare “almeno” 2.000 miliardi di dollari dal bilancio federale annuale, ma secondo un indicatore di Brookings Institution la spesa pubblica complessiva nell’anno solare 2025 è leggermente superiore ai livelli del 2024, anche se l’effetto Doge è chiaramente visibile su agenzie più piccole come l’Agenzia statunitense per lo sviluppo internazionale. C’è anche da chiedersi, a questo punto, cosa accadrà al dipartimento che il patron di SpaceX ha modellato a sua immagine e somiglianza assumendo nerd giovanissimi e super intelligenti per cancellare migliaia di posti di lavoro e costi ritenuti superflui secondo i loro complicatissimi calcoli.

Non c’è solo crollo di Tesla dietro le ragioni del passo indietro di Musk. Secondo il Washington Post il miliardario è stanco di dover affrontare quella che considera una serie di attacchi sgradevoli e immorali da parte dei democratici e i dissapori con alcuni membri dell’amministrazione stanno diventando insostenibili. Lo scontro si è inasprito nelle ultime settimane soprattutto con il consigliere economico del presidente, Peter Navarro, l’architetto della politica dei dazi che alla lunga potrebbero danneggiare anche Tesla. Solo qualche settimana fa Musk lo ha definito “un idiota”, dopo che l’altro lo aveva liquidato come “un assemblatore di auto”, con pezzi che arrivano dal Giappone e dalla Cina, e non un produttore. E anche con lo stesso Donald negli ultimi tempi, Elon si è scontrato. Come quando ha cercato di convincerlo ad adottare una linea più morbida sulle tariffe comprese quelli contro la Cina.

Continua a leggere

Esteri

Abu Mazen alza i toni contro Hamas: cani, liberate gli ostaggi

Pubblicato

del

L’antico rancore tra Fatah e Hamas è tornato a esplodere mercoledì mattina a Ramallah, in un discorso infuocato di Abu Mazen davanti al Consiglio centrale dell’Autorità palestinese. L’anziano presidente, in diretta tv, ha attaccato duramente la fazione fondamentalista che ha ancora in mano il potere a Gaza dopo 18 mesi di guerra. “Ogni giorno ci sono centinaia di morti. Perché? Perché non vogliono restituire i rapiti. Figli di cani, liberate gli ostaggi e ponete fine a tutto questo. Così Israele non avrà più scuse”, ha detto alzando la voce. “Dimettetevi dal potere, consegnate le armi all’Autorità nazionale palestinese e diventare un partito politico”, ha intimato, non mancando di sottolineare che il colpo di Stato di Hamas nel 2007 a Gaza, che ha portato all’estromissione di Fatah (oltre agli innumerevoli omicidi dei suoi funzionari) “ha dato a Israele la legittimità per distruggere la Striscia”.

Pochi gli applausi in platea per Abu Mazen, ma il messaggio è passato: Hamas è enormemente indebolito, seppur non battuto, è arrivato il tempo di cambiare. L’Anp infatti è in corsa per la futura governance dell’enclave, nonostante permanga il veto assoluto del premier israeliano Benyamin Netanyahu. Nella giornata, a soli cento chilometri di distanza, un nuovo passo storico per il Medio Oriente si è concretizzato ad Amman, dove il ministro degli Interni Mazen Al-Faraya ha annunciato la messa al bando dei Fratelli Musulmani, il più grande movimento di opposizione del Paese, a cui appartiene anche Hamas, che con le sue posizioni radicali e conservatrici fondate sulla dottrina dell’Islam ha registrato un trionfo nelle elezioni di 7 mesi fa. Tutti i beni della Fratellanza saranno confiscati, gli uffici chiusi e qualsiasi diffusione ideologica sarà vietata, ha detto in conferenza stampa Al-Faraya. La decisione è arrivata una settimana dopo l’arresto di 16 persone accusate di produrre missili e droni in Giordania minacciando la stabilità del Paese. Della cellula, secondo le autorità giordane, facevano parte anche membri della Fratellanza.

Negli ultimi anni, e ancor più dopo lo scoppio della guerra a Gaza, l’Iran ha aumentato il volume del contrabbando di armi attraverso la rotta giordana, cercando di insediarsi nel regno per indebolire la monarchia. Dalla Giordania, per l’intelligence di Gerusalemme, passano non solo armi, ma anche valige di dollari per le organizzazioni terroristiche della Cisgiordania. Nel frattempo, nessun passo avanti è stato registrato nell’incontro di martedì sera durante il gabinetto politico e di sicurezza in Israele sul tema della ripresa degli aiuti a Gaza. Il ministro della Difesa Israel Katz ha informato il governo che non c’è altra scelta se non riaprire i valichi entro la prossima settimana o al massimo 15 giorni, cercando di aggirare Hamas. Il capo di stato maggiore Eyal Zamir si è rifiutato di dare in carico all’esercito la distribuzione degli aiuti, suscitando l’ira del ministro di ultradestra Bezalel Smotrich che ha minacciato di dimettersi se il sistema di aiuti non seguirà la sua linea. Di fatto, alla fine della riunione, nessuna decisione è stata presa.

Continua a leggere

In rilievo

error: Contenuto Protetto