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Salute

Primi test vaccino terapeutico contro il tumore al fegato

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Comprende 16 molecole differenti capaci di indurre una risposta anti tumorale a largo spettro e di impedire, così, alle cellule tumorali di sfuggire al controllo del sistema immunitario ritardando il ripresentarsi della malattia. E’ il vaccino Hepavac-201, il primo vaccino terapuetico al mondo per il tumore epatico contro numerosi target molecolari, promosso e sponsorizzato dall’Istituto dei tumori di Napoli, che giunge nella fase più delicata. Dopo gli studi e le sperimentazioni il vaccino è stato somministrato nel primo paziente affetto da epatocarcinoma senza effetti secondari acuti. Altri 3 pazienti sono in lista d’attesa per cominciare il trattamento nelle prossime settimane.

Lo rende noto l’Istituto tumori Pascale di Napoli. In campo le equipe del coordinatore scientifico del progetto, Luigi Buonaguro, direttore del Laboratorio di Modelli Immunologici Innovativi, di Francesco Izzo, direttore dell’Unità Operativa Complessa di Chirurgia Epatobiliare, di Paolo Ascierto, coordinatore della Struttura di Sperimentazione clinica di Fase 1. “Lo sviluppo del vaccino è cominciato nel 2013 ed essere arrivati alla seconda sperimentazione clinica in così pochi anni è un risultato eccezionale per un progetto traslazionale sviluppato in una struttura pubblica – sottolinea la nota del Pascale – I risultati saranno disponibili entro giugno 2024. La sperimentazione permetterà di valutare la tollerabilità del vaccino e la sua capacità di indurre una risposta immunitaria. In totale saranno arruolati 10 pazienti”. Il vaccino Hepavac è stato originariamente sviluppato da un Consorzio Europeo coordinato da Luigi Buonaguro e finanziato dall’Unione Europea. L’attuale sperimentazione “Hepavac-201” è stata possibile grazie al co-finanziamento della Regione Campania con il progetto “Campania Oncoterapie”, nell’ambito del programma oncologico fortemente voluto dal presidente Vincenzo De Luca.

“La formulazione vaccinale originaria – spiega Buonaguro – è stata aggiornata allo scopo di potenziare la risposta immunologica. In particolare, è stato incluso anche un immunomodulatore (Durvalumab) con il supporto totalmente gratuito dell’AstraZeneca. L’obiettivo dello studio è quello di valutare la “safety” del trattamento vaccinale e la risposta immunitaria nei confronti degli antigeni tumorali specificamente espressi dal tumore del fegato. Ovviamente, non bisogna indurre facili entusiasmi ma, se i risultati saranno quelli auspicati, Hepavac sarà il primo vaccino al mondo per il tumore epatico candidato alla successiva sperimentazione su vasta scala per testarne in maniera definitiva l’efficacia e fornire un valido strumento terapeutico per i pazienti affetti da un tumore così letale”. Il vaccino Hepavac potrebbe cambiare totalmente lo scenario del trattamento del tumore del fegato, nei confronti del quale finora non si ha una cura definitiva.

“Il vaccino Hepavac rappresenta uno dei progetti di punta del nostro Istituto – afferma Attilio Bianchi, direttore generale del Pascale – che si caratterizza sempre più sia per la sua centralità a livello regionale nell’ambito della ricerca e cura oncologica che per l’assoluta qualità ed innovazione dell’offerta terapeutica nell’ambito oncologico. Inoltre, il finanziamento regionale è stato essenziale per poter continuare gli studi inizialmente finanziati dalla Comunità Europea. A mio avviso, questo rappresenta un esempio virtuoso dei fondi regionali a sostegno di progetti che hanno già dato risultati promettenti. Se abbiamo la possibilità di continuare nella sperimentazione è solo grazie alla sensibilità mostrata dal presidente De Luca”.

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Cronache

Gravidanza a rischio, intervento di eccezione per parto trigemino

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Sono ricoverati in terapia intensiva neonatale ma stanno bene i tre neonati che ieri hanno visto la luce all’ospedale S.Giovanni di Dio a Torregalli a Firenze, nati da un parto trigemino che ha richiesto la messa in campo di una equipe multidisciplinare trattandosi di una gravidanza multipla con presenza di placentazione anomala: alla madre era stato riscontrato “un quadro sospetto di ‘accretismo’”, che può determinate la perdita dell’utero, pericolo scongiurato. Il caso, si spiega dalla Asl Toscana centro, “ha comportato che a lavorare insieme nel reparto di ostetricia e ginecologia” fossero “diverse equipe composte da ginecologi, anestesisti, urologi e radiologi interventisti”, con il supporto di ostetriche e neonatologi. “Tutti uniti dallo stesso obiettivo: cercare la maggior sicurezza e il miglior risultato possibile per il paziente che in questo caso erano contemporaneamente quattro, la mamma insieme ai sui tre gemelli”.

Qualche mese fa, spiega sempre l’Asl, “il servizio di diagnostica prenatale aveva preso in carico la futura mamma alla 15/a settimana di gestazione con una gravidanza trigemina tricoriale (tre feti con tre placente). La paziente è stata regolarmente seguita presso il punto nascita a Torregalli per il monitoraggio del benessere materno e dei tre feti, risultato sempre regolare. Dallo studio placentare effettuato in considerazione del rischio di placentazione anomala, è stato riscontrato un quadro sospetto di ‘accretismo’”, patologia “in cui la placenta risulta difficilmente separabile dall’utero della mamma dopo la nascita e può comportare dei gravi rischi per la partoriente dati dal sanguinamento e spesso comporta la perdita dell’utero”.

Ieri come programmato, vista la raggiunta epoca ottimale per la nascita delle gravidanze trigemellari, è stato “dato inizio al concerto di tutte le equipe coinvolte iniziando dagli anestesisti per una complessa copertura del dolore, proseguendo con i ginecologi e con gli urologi, fino al taglio cesareo con la nascita dei tre neonati sani affidati prontamente, vista la prematurità, alle cure dei neonatologi. L’intervento è proseguito regolarmente ed è stato possibile anche la conservazione dell’utero che in casi come questi è un’opzione chirurgica spesso intrapresa e talvolta inevitabile”.

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Salute

Tumori: 40 vaccini anti-cancro a mRNA in sperimentazione

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L’immunoterapia, quella strategia che sfrutta il sistema immunitario per combattere il cancro, potrebbe presto arricchirsi di una nuova arma: i vaccini anti-cancro a mRNA. In fase di sperimentazione ci sono infatti più di 40 vaccini che sfruttano la stessa tecnologia impiegata contro Covid. Uno di essi, il prossimo anno potrebbe entrare nella fase III di sperimentazione, l’ultima prima dell’immissione in commercio. Quello dei vaccini anti-cancro è uno dei temi affrontati nel corso dell’International Cancer Immunotherapy Conference (CICON23), iniziata oggi a Milano.

“Per i vaccini anti-cancro si utilizzano mRNA sintetici progettati per ‘istruire’ il sistema immunitario a riconoscere una proteina chiamata ‘neoantigene’, espressione di una mutazione genetica avvenuta nella cellula malata”, spiega Pier Francesco Ferrucci, direttore dell’Unità di Bioterapia dei Tumori presso l’istituto Europeo di Oncologia. “Si tratta di una specie di ‘impronta digitale’ presente nelle cellule tumorali di quel paziente. I vaccini antitumorali a mRNA personalizzati sono quindi progettati su misura con lo scopo di innescare il sistema immunitario ad uccidere selettivamente ed esclusivamente le cellule tumorali in quel paziente e nei pazienti in cui i tumori esprimono la stessa mutazione”.

Tra i vaccini a mRNA con risultati più promettenti, al momento, c’è quello di Moderna contro il melanoma, che ha già dato buona prova di efficacia in combinazione con l’immunoterapia tradizionale. Allo studio anche vaccini contro il cancro del colon retto e del pancreas. “L’era dei vaccini a mRNA nella lotta al cancro è solo agli inizi, ma è importante ricordare che la vaccinazione a mRNA non è l’unica strada promettente nel settore dell’immunoncologia che si avvale anche di diverse altre strategie in fase di studio”, ha concluso Ferrucci.

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Alzheimer, le nuove terapie non saranno per tutti

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Sono la grande speranza degli ultimi anni. Tuttavia, per molti pazienti le nuove terapie per l’Alzheimer che dovrebbero arrivare a breve potrebbero tramutarsi in una doccia fredda. Non tutti i malati potranno infatti assumerle. È questo il timore espresso dagli esperti riuniti alla vigilia della Giornata mondiale per l’Alzheimer (21 settembre) nel corso di una conferenza stampa al Senato, promossa dall’intergruppo Parlamentare Alzheimer e Neuroscienze. “Non dobbiamo trasmettere inutili illusioni”, ammette Raffale Lodi, direttore dell’IRCCS Istituto Scienze Neurologiche di Bologna, coordinatore della rete IRCCS delle neuroscienze e della neuroriabilitazione. “Le terapie sono efficaci ma solo su una parte dei pazienti”. Una delle sfide sarà perciò proprio questa: capire chi dovrà prendere i farmaci.

“L’Italia è stato il primo Paese al mondo a porsi questo problema”, dice Paolo Maria Rossini, Responsabile del Dipartimento di Scienze neurologiche e riabilitative dell’IRCCS San Raffaele Roma. Nel 2018, su sollecitazione della comunità scientifica, il ministero della Salute ha lanciato il progetto di ricerca Iterceptor che sta cercando di capire se alcuni biomarcatori, rilevati nelle primissime fasi in cui si osserva un decadimento delle funzioni cognitive, sono in grado di distinguere chi si ammalerà di Alzheimer e chi no. “A breve potremo dire quale è la combinazione di marcatori che prevede chi è a rischio Alzheimer. Sarà così possibile iniziare il trattamento quando il cervello ha una buona riserva cognitiva e non quando ormai è come una piantina che non si annaffia da mesi”, aggiunge Rossini. Tuttavia potrebbe non bastare: “Senza interventi organizzativi rischiamo di avere alcune realtà italiane che garantiranno l’accesso alle cure e altre in cui ciò non si realizzerà. Ci aspetta un nuovo, importante, lavoro”, conclude Annarita Patriarca, presidente dell’intergruppo Alzheimer e Neuroscienze, insieme alla senatrice Beatrice Lorenzin.

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