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Cronache

Omicidio Cucchi, la sentenza: i carabinieri depistarono per salvarsi carriera

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Una versione sulla morte di Stefano Cucchi che venne “confezionata” dai Carabinieri escludendo “ogni possibile coinvolgimento dei militari” cosi’ che “l’immagine e la carriera dei vertici territoriali e, in particolare, del comandante del Gruppo Roma, Alessandro Casarsa, non fosse minata”. E’ la pesante accusa che il tribunale di Roma mette nero su bianco nelle corpose motivazioni alla sentenza con cui, nell’aprile scorso, sono stati condannati 8 militari dell’Arma per i depistaggi messi in atto dopo il decesso del trentenne romano, avvenuto nell’ottobre del 2009, a sette giorni dall’arresto. Il giudice monocratico ha inflitto, tra gli altri, 5 anni al generale Casarsa e 1 anno e 3 mesi al colonnello Lorenzo Sabatino. Agli imputati, a seconda delle posizioni, si contestavano i reati di falso, favoreggiamento, omessa denuncia e calunnia. In particolare il giudice, dopo una camera di consiglio di otto ore, condanno’ a 4 anni, Francesco Cavallo e Luciano Soligo, a un anno e 9 mesi Tiziano Testarmata, a 2 anni e 6 mesi Luca De Cianni. Infine a Francesco Di Sano furono inflitti 1 anno e 3 mesi e a Massimiliano Colombo Labriola 1 anno e 9 mesi. Nel documento il magistrato scrive che “l’ampia istruttoria dibattimentale ha permesso di ricostruire i fatti contestati e di accertare un’attivita’ di sviamento posta in essere nell’immediatezza della morte di Cucchi, volta, ad allontanare i sospetti che ricadevano sui carabinieri per evitare le possibili ricadute sul vertice di comando del territorio capitolino”. E ancora: “le ulteriori condotte realizzate nel 2015, nel contesto delle nuove indagini della Procura della Repubblica di Roma” sono state “finalizzate a celare quelle di falso risalenti al 2009 considerata la qualita’ dei protagonisti e dei rapporti tra alcuni di loro, e che i fatti risalenti al 2018, nel corso del dibattimento del cosiddetto Cucchi bis, avessero lo scopo di svilire la credibilita’ di Riccardo Casamassima, teste rilevante per l’ipotesi accusatoria”. Secondo il giudice, quindi, “allontanando i sospetti dai carabinieri non poteva di certo mettersi in discussione l’azione di comando da parte del vertice del Comando Gruppo Carabinieri Roma la cui figura rischiava di essere quanto meno indebolita dalla vicenda”. Parlando delle note di servizio modificate, il tribunale sostiene che “tutti gli imputati avevano la consapevolezza che attraverso le condotte da ciascuno poste in essere, si giungeva alla modifica e all’alterazione del contenuto delle annotazioni, consentendo cosi’ di rappresentare un Cucchi che stava male di suo, perche’ molto magro, tossicodipendente, epilettico”. Parlando di Casarsa, il piu’ alto in grado tra gli imputati, il giudice afferma che la condanna si giustifica con “il disvalore del fatto delittuoso e la lesione al bene della fede pubblica, ai riflessi che ha avuto nella reale ricostruzione della vicenda, il danno arrecato all’Arma dei carabinieri, alla personalita’ dell’imputato che, a dispetto del giuramento prestato e della sua qualita’ di ufficiale dei carabinieri, con il ruolo di Comandante del Gruppo Carabinieri Roma, ha concepito e determinato le condotte di falso, dell’intensita’ del dolo che emerge da quanto accertato”. Da ribadire, infine, che la Procura nel corso del processo e in particolare nel corso della requisitoria ha piu’ volte ribadito che “non e’ stato un processo ai Carabinieri e bisogna evitare qualsiasi strumentalizzazione. Sia per ragioni formali che sostanziali: il ministero della Difesa si e’ costituto parte civile, gli atti piu’ importanti – ha detto nel corso della requisitoria il pm Giovanni Musaro’ – sono stati forniti dal reparto operativo e nucleo investigativo del comando provinciale dei carabinieri”.

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Il legale di Impagnatiello, l’assassino confesso di Giulia, rinuncia al mandato

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Alessandro Impagnatiello, il barman che ha confessato di aver ucciso la sua fidanzata Giulia Tramontano, rimane senza avvocato. Sebastiano Sartori, il suo difensore, si è recato a San Vittore, dove Impagnatiello è detenuto, per comunicargli ufficialmente la sua rinuncia al mandato. “È stata una questione tra me e il mio assistito”, ha affermato Sartori, lasciando intendere che il rapporto di fiducia con il 30enne si è deteriorato, poiché quest’ultimo si trova in uno stato crescente di angoscia. Gli inquirenti stanno cercando di ottenere riscontri sulla confessione di Impagnatiello, analizzando le immagini delle telecamere raccolte tra Senago e Milano.

I video registrati mostrano il barman con un lenzuolo sotto il braccio, apparentemente poco dopo il delitto, e successivamente mentre carica due sacchi di plastica in macchina, uno dei quali sembra contenere indumenti sporchi di sangue. Secondo le ipotesi degli investigatori, l’uomo stava cercando di eliminare le prove del suo crimine e si era preparato per nascondere il corpo di Giulia, la quale per quattro giorni è stata oggetto di una finta scomparsa organizzata da Impagnatiello. Tuttavia, i genitori di Giulia non hanno mai creduto alla versione della scomparsa volontaria, poiché hanno notato la mancanza di risposte al telefono da parte della figlia e la vaghezza del convivente.

L’avvocato difensore ha sottolineato che i genitori di Giulia sono rimasti sospettosi fin dall’inizio e hanno temuto un epilogo tragico come quello che si è verificato. Giovanni Cacciapuoti, il legale della famiglia, ha descritto il gesto di Impagnatiello come imponderabile e ha affermato che se avessero avuto anche solo il sospetto di una simile evoluzione, sarebbero intervenuti immediatamente. La famiglia è attualmente in uno stato di prostrazione e desidera vivere il proprio dolore e lutto nel modo più sereno possibile.

Le indagini, condotte dai carabinieri e dalla polizia di Rho, coordinati dai pm Alessia Menegazzo e Letizia Mannella, sono state incentrate sulla raccolta di prove per confermare la ricostruzione fornita da Impagnatiello, concentrandosi principalmente sulle immagini delle telecamere di sorveglianza. Nei prossimi giorni, verranno effettuati rilievi scientifici nell’appartamento dove Giulia è stata assassinata e dove il suo corpo è stato successivamente nascosto tra le sterpaglie dopo due tentativi di bruciarlo. Durante questi accertamenti, verrà sequestrato il coltello (indicato da Impagnatiello come nascosto in un ceppo sopra il frigorifero) e saranno raccolti tutti gli elementi utili per ricostruire la cronologia degli eventi, compresa la fase di occultamento del cadavere, al fine di dimostrare la premeditazione.

Nell’ambito delle indagini, sono state interrogate diverse persone, tra cui il custode del palazzo in via Novella, che ha notato tracce di cenere sulle scale. Sono stati ascoltati anche la sorella e la madre di Giulia, al fine di ricostruire gli ultimi momenti di vita della giovane donna. Prima di essere uccisa, Giulia si era incontrata con una ragazza con cui Impagnatiello aveva una relazione parallela. La collega di lavoro, avendo intuito che qualcosa di terribile era accaduto, si è rifiutata di far entrare Impagnatiello a casa sua. Ha testimoniato di aver avuto paura e di non aver conosciuto fino a quel momento la vera natura dell’uomo.

L’autopsia sul corpo di Giulia è prevista per venerdì, mentre le indagini continuano a cercare prove concrete per stabilire la dinamica e i motivi che hanno portato a questo tragico evento. La famiglia di Giulia, intanto, si prepara a vivere un lungo periodo di sofferenza per elaborare il dolore e dare una degna sepoltura alla figlia e al suo bambino non ancora nato.

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Traffico di droga e armi tra Italia, Germania e Belgio

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Droga e traffico di armi. Sono due i pilastri del ‘core business’ dell’holding criminale transnazionale, con base logistica in Calabria, nella Sibaritide, e proiezioni in Germania, smantellata dalla Guardia di finanza di Catanzaro con il coordinamento della Dda del capoluogo calabrese e di Eurojust. Venticinque le persone finite in manette all’alba nell’ambito dell’operazione “Gentleman2”, accusate di associazione per delinquere finalizzata al traffico di sostanze stupefacenti, reati in materia di armi e, a vario titolo, reati fine in materia di stupefacenti. Sono stati anche sequestrati beni per 3,8 milioni di euro tra società, ditte individuali, fabbricati, terreni, autoveicoli e motoveicoli. Sono stati oltre 200 i militari impegnati nell’esecuzione delle misure cautelari scaturite a seguito di un’attività investigativa partita nel 2020 sotto l’egida della Squadra investigativa comune (Sic) costituita da Nucleo di Polizia economico-finanziaria/Gico della Finanza e il Polizeipräsidium di Francoforte sul Meno (Germania), la Polizia giudiziaria federale di Liegi(Belgio) con il supporto della Direzione centrale per i servizi antidroga (Dcsa) e dell’Ufficio europeo di polizia (Europol).

Era in Calabria, tra Cassano allo Ionio e Corigliano Rossano, lo snodo strategico dell’importazione di ingenti quantitativi di droga provenienti da diverse direttrici: la cocaina dal Sudamerica, l’eroina, molto richiesta sul mercato, che arrivava dall’est Europa attraverso la rotta dei Balcani e l’hascisc dal Marocco. Un circuito in grado di garantire enormi guadagni ricostruito attraverso attività di indagine tradizionale e intercettazioni telefoniche, telematiche e ambientali, condotte sia in Italia che in Germania grazie alle quali si è anche riusciti a decifrare un sistema di comunicazione criptato. “Un’indagine importante – ha detto il procuratore della Repubblica di Catanzaro Nicola Gratteri – che si è avvalsa del supporto di Eurojust, Europol e Interpol. E la collaborazione con la Direzione centrale servizi antidroga, organismo che ha sede a Roma e che consente di rapportarci con gli altri organismi tra i quali le forze di polizia di Germania e Belgio”. Tra le persone arrestate c’è Nikolaos Liarakos, di 47 anni, latitante da sette anni, catturato in Germania. L’uomo, di origini greche, ritenuto uno dei vertici dell’organizzazione, si era reso protagonista, nell’ottobre del 2016, di una rocambolesca evasione dal carcere di Rebibbia. Nel suo covo aveva un manoscritto con conteggi sul prezzo della cocaina.

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Scagionata la mamma condannata per la morte dei 4 figli

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Prima dipinta come un’assassina, condannata per aver tolto la vita ai suoi quattro figli. Ora, invece, come una vittima, perché stando agli scienziati in realtà quel crimine atroce non l’ha mai commesso. È questa la storia di Kathleen Folbigg, finora conosciuta come “la peggior serial killer donna australiana” ma che dopo vent’anni di ingiusta detenzione può ritornare a scrivere il suo destino. Tutto ha avuto inizio nel 2003, quando la donna – che ha sempre professato la sua innocenza – è stata condannata a 40 anni, poi ridotti a 25, di carcere con l’accusa di aver ucciso i suoi quattro figli (Sarah, Laura, Patrick e Caleb), di età compresa tra nove settimane e diciannove mesi. In assenza di solide prove forensi, per i pubblici ministeri dell’epoca Folbigg aveva soffocato i bambini, morti improvvisamente tra il 1989 e il 1999. Per loro non sembrava esserci altra spiegazione. Oggi però nuove evidenze scientifiche hanno dimostrato il contrario. Un team di immunologi ha infatti scoperto che le due figlie della donna condividevano una mutazione genetica – chiamata CalmM2 G114R – che può causare la morte cardiaca improvvisa.

I due figli maschi, invece, possedevano una mutazione genetica diversa, legata all’epilessia. Come riportato dalla Bbc, secondo la professoressa Carola Vinuesa, a capo del gruppo di ricerca dell’Australian National University, una sequenza genetica insolita poteva risultare immediatamente evidente nel Dna della signora Folbigg prima ancora che i campioni dei bambini fossero testati. Casi simili, comunque, sono rarissimi. Stando a Vinuesa, ce ne sarebbero 134 in tutto il mondo. Il sospetto che la morte dei bambini potesse essere stata provocata da cause naturali era già emerso nel 2021, sostenuto da una decina di scienziati australiani e stranieri, che avevano anche organizzato una petizione per la scarcerazione della donna. Da qui la riapertura dell’inchiesta, nel 2022, che ha portato alla revisione della sentenza. La donna, ha spiegato il procuratore generale del Nuovo Galles del Sud Michael Daley, è stata graziata per “ragionevole dubbio” sulle condanne, e così rilasciata dalla prigione di Grafton, nel New South Wales, dove stava scontando gli ultimi anni. La grazia ricevuta non annulla la sentenza di condanna, che dovrebbe essere ribaltata in un ulteriore processo. Se così fosse, Kathleen Folbigg potrebbe potenzialmente citare in giudizio il governo, chiedendo milioni di dollari di risarcimento. Intervistata in esclusiva dalla testata australiana 9news, la donna ha dichiarato però di non sapere cosa accadrà: “Ho bisogno di un bicchiere d’acqua, non so nient’altro”, ha detto alle telecamere. Intanto, può finalmente camminare libera.

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