Evgeny Prigozhin sparisce dai media ufficiali russi, come segnale di non essere più nelle grazie del Cremlino. Il capo dei mercenari Wagner avrebbe pagato così il suo continuo dissenso nei confronti dei vertici militari di Mosca riguardo alla conduzione della guerra in Ucraina. Il media indipendente russo Verstka ha rivelato che gli organi di stampa statali, incluse agenzie e notiziari, sono stati istruiti a non citare le dichiarazioni di Prigozhin “su argomenti non neutrali”. Un’analisi dei reporter di Vertska ha poi confermato che nelle ultime settimane l’oligarca molto vicino a Putin e diventato signore della guerra è stato citato solo riguardo alle attività dei suoi mercenari sul campo di battaglia. Nulla invece è emerso sulle ultime accuse lanciate contro il ministero della difesa, che non gli avrebbe fornito munizioni per la sua campagna nel Donbass.
Le agenzie russe hanno anche ignorato Prigozhin quando ha comunicato di aver iniziato a ricevere le forniture di cui aveva bisogno. Il bando è scattato a gennaio, ha confermato a Verstka una fonte di un media statale: il capo dei Wagner va citato solo se è strettamente necessario, per esempio quando è il primo a riportare successi in prima linea. Inoltre, secondo fonti vicine al ministero della Difesa, sarebbe stata preparata anche una campagna denigratoria contro di lui, anche se al momento è stato deciso di non avviarla. Da tempo lo “chef di Putin”, considerato tra i fedelissimi dello zar, ha denunciato i fallimenti dell’invasione dell’Ucraina ed ha ingaggiato un duello diretto con il ministro della Difesa Shoigu ed il capo di stato maggiore Valery Gerasimov (di recente messo a capo delle operazioni in Ucraina).
L’accusa ai comandi militari è sostanzialmente quella di mettere i bastoni tra le ruote al suo esercito privato, che affianca le truppe regolari nel fronte sud-orientale. E le sue ultime uscite non proprio ottimistiche sull’andamento delle operazioni (“per prendere il Donbass serviranno fino a due anni”) sono suonate con un’ulteriore frecciata a chi guida l’esercito da Mosca. Lo scontro tra Prigozhin e Shoigu può anche essere letto come lotta di potere nella cerchia più stretta del Cremlino, in una fase in cui tutti i vertici sono in discussione a causa del prolungato stallo nel conflitto. Allo stesso tempo, visto che la vittoria tarda ad arrivare, è probabile che Putin voglia un fronte compatto sull’obiettivo. E magari per questo motivo ha deciso di mettere la sordina al suo “chef” così critico.
“Silvio Berlusconi non cerca di dipingere tutto in bianco e nero, non cerca di intensificare tensioni nel mondo sotto lo slogan della lotta della democrazia contro l’autocrazia”. Non è la prima volta che Serghei Lavrov loda la “ragionevolezza” del leader di Forza Italia, ma questa volta il ministro degli Esteri pronuncia queste parole trovandosi per caso nello stesso momento, nello stesso hotel di Giorgia Meloni, a Nuova Delhi. La premier in una pausa della missione in India, il capo della diplomazia russa in conferenza stampa dopo un G20 Esteri in cui non sono mancate scintille. E di fronte a una domanda della stampa italiana Lavrov non ha perso occasione per elogiare l’ex presidente del Consiglio, su cui ancora una volta rimbalzano commenti da titolo dall’estero. La settimana scorsa era stato il presidente ucraino Volodymyr Zelensky, durante la visita di Giorgia Meloni a Kiev, a rispondere a una domanda sul Cavaliere notando come le sue posizioni sul conflitto fossero dovute al fatto che “la sua casa non è mai stata bombardata”. Di ben altro tenore sono le considerazioni che arrivano da Mosca sul presidente di Forza Italia. Secondo Lavrov, “Berlusconi comprende la necessità di risolvere i problemi da cui dipende la nostra vita”. Come invece, dal punto di vista di Mosca, non fa il governo. Il ministro degli Esteri russo di recente ha sottolineato come l’Italia, da Paese con le “relazioni tra le più amichevoli” con Mosca, si è trasformata rapidamente in uno “dei leader delle azioni e della retorica antirusse”. Un netto cambio di scenario rispetto a quando a Palazzo Chigi c’era il Cavaliere.
Risuonano le sirene di allarme a Kiev a fine mattinata, mentre Joe Biden e Volodymyr Zelensky attraversano la piazza antistante il monastero di San Michele, nel cuore della capitale ucraina. Il presidente degli Stati Uniti è appena giunto in città per una visita a sorpresa che ha spiazzato tutti. E sono proprio quelle sirene a fermare il momento storico, ricordando che sotto un cielo blu e un sole quasi tiepido di fine inverno Biden è venuto ad abbracciare il leader di un Paese in guerra. Il commander in chief è venuto a ribadire il sostegno “incrollabile” degli Stati Uniti, “a riaffermare il nostro fermo impegno per la democrazia, la sovranità e l’integrità territoriale dell’Ucraina”.
A confermare che l’America rimarrà al fianco di Kiev “per tutto il tempo che serve”, proprio alla vigilia dell’anniversario dell’aggressione russa, il 24 febbraio del 2022. Un evento altamente simbolico, così come l’immagine simbolo di questa giornata storica resterà l’abbraccio fra Biden e Zelensky davanti ad un muro di volti: centinaia e centinaia di fotografie, di uomini e di donne, gli ucraini morti in battaglia dal 2014. In questa giornata ricorre anche il nono anniversario della rivoluzione di Maidan e si commemora il giorno dedicato agli “eroi”, vittime della repressione di quella rivolta. La commozione dei due leader è palpabile durante la passeggiata nel centro di Kiev.
Poi, a Palazzo Mariinskyi, Biden annuncia un nuovo pacchetto di aiuti da mezzo miliardo di dollari: includerà più equipaggiamento militare, comprese munizioni di artiglieria, più Javelin e obici. Rivela che con Zelensky hanno parlato di “armi a lungo raggio e delle armi che potrebbero ancora essere fornite all’Ucraina”. Ma soprattutto loda l’eroismo e il coraggio degli ucraini, ricordando quella telefonata con Zelensky un anno fa, quando le forze russe assediavano Kiev e tutto sembrava perduto: “Mi dicesti che si potevano sentire le esplosioni in sottofondo. Non lo dimenticherò mai. Io chiesi: cosa posso fare? E tu mi rispondesti: metti insieme i leader per sostenere l’Ucraina, chiedi loro di sostenere l’Ucraina. Un anno dopo Kiev resiste, la democrazia resiste, e il mondo resiste con voi. Putin pensava che l’Ucraina fosse debole e che l’Occidente fosse diviso. Pensava di poter avere le meglio su di noi. Ma si sbagliava di grosso e ora sta fallendo”.
Sul volto di Volodymyr Zelensky si legge la consapevolezza della portata del momento: “Questa visita ci porta più vicini alla vittoria”, dice, “è la visita più importante nell’intera storia delle relazioni fra l’Ucraina e gli Stati Uniti”. I suoi risultati “si vedranno sul campo di battaglia”, aggiunge, “speriamo che quest’anno 2023 diventi un anno di vittoria”. Lo ha voluto fortemente Zelensky questo momento: Kiev chiedeva da tempo una visita di Biden, stando a fonti governative ucraine è stata preparata in poco tempo, una settimana circa, nella massima riservatezza, attraverso i canali dei più stretti collaboratori del presidente, il suo chief of staff Andriy Yermak, il ministro degli Esteri Dmytro Kuleba. Washington ha pensato al resto dal suo lato per ridurre il rischio ad un livello “gestibile”.
Una missione “storica e senza precedenti in tempi moderni”, ma anche “rischiosa”, ha sottolineato il consigliere per la Sicurezza nazionale Usa Jake Sullivan, svelando che i russi sono stati avvertito solo qualche ora prima per evitare “incidenti” che potessero portare a uno scontro diretto tra le due potenze nucleari. Ne è valsa la pena però, se per la sua forza simbolica c’è già chi paragona questa visita a quella di Jfk al Muro di Berlino nel 1961, in piena crisi con l’allora Unione Sovietica. C’è poi il valore di quel pressing per una strada verso la pace – non confermato ufficialmente ma da più parti considerato a questo punto scontato – se è vero, come del resto ha riferito ancora Sullivan, che i due leader a colloquio hanno affrontato il tema dei “prossimi mesi di guerra, di ciò di cui l’Ucraina ha bisogno per difendersi”, ma anche del processo “verso una pace giusta e durevole”.
Il calendario dei prossimi giorni fissa ancor meglio l’importanza della missione di Biden: nelle prossime ore ci sarà l’atteso discorso di Vladimir Putin davanti al Parlamento su quella che Mosca definisce ‘l’operazione militare speciale’ in Ucraina, mentre il leader Usa, subito dopo, si rivolgerà al mondo intero dal castello di Varsavia. Cresce l’attesa anche per gli sforzi di mediazione della Cina: domani l’inviato di Pechino Wang Yi si presenterà al Cremlino per parlare del piano di pace messo a punto da Xi Jinping, e lo stesso presidente cinese prenderà la parola in occasione del primo anniversario del conflitto. Il cessato allarme a Kiev arriva proprio mentre si conclude la conferenza stampa congiunta di Biden e Zelensky, un’ora e mezza in tutto. Poco dopo il presidente degli Stati Uniti lascia la capitale. Ci è rimasto meno di sei ore, la traccia lasciata nella Storia potrebbe risultare però indelebile. Mentre nel ‘vicolo dei coraggiosi’ a Kiev compare la targa con inciso il nome del presidente americano assieme con la data di inizio dell’invasione russa e quella di oggi.
“Date ali alla libertà”. L’immagine è poetica, ma le parole del primo tour europeo di Volodymyr Zelensky dall’inizio della sanguinosa invasione russa dell’Ucraina di quasi un anno fa segnano una richiesta forte e chiara di accelerazione dell’escalation di forniture belliche a Kiev, sotto forma di “aerei da combattimento” invocati a mo’ di arma cruciale per cercare di raggiungere l’obiettivo più arduo, eppure indicato quasi come destino inevitabile: “Sconfiggere la Russia”. Il presidente ucraino ha scelto Londra – prima di proseguire in serata per Parigi per un trilaterale con i leader di Francia e Germania e domani per Bruxelles in veste di ospite d’onore di un Consiglio Europeo straordinario – come prima meta di questo viaggio, il secondo in assoluto dallo scoppio dello ostilità, dopo la visita lampo del 21 dicembre alla superpotenza Usa. E non è stato un caso. Piuttosto un riconoscimento del ruolo svolto dal governo di Rishi Sunak, ma soprattutto dall’ex premier Boris Johnson, per tenere unito il fronte degli alleati occidentali di Kiev “quando questo sembrava impossibile”. “Sono qui per dirvi grazie a nome dei coraggiosi, degli eroi che combattono in trincea per ripristinare la sovranità dell’Ucraina sui suoi territori”, ha esordito a voce piena Zelensky intervenendo dinanzi al Parlamento del Regno al gran completo – dopo essere stato accolto da Sunak al numero 10 di Downing Street e prima di una calorosa udienza a Buckingham Palace – sotto le volte solenni di Westminster Hall, come concesso in passato a Charles De Gaulle.
Una premessa accompagnata dal tripudio di ovazioni tributategli da deputati e lord di tutti i partiti schierati e suggellata dall’esaltazione dell’eredità storica della democrazia britannica, del “coraggio” della sua gente. Ma seguita anche da un sollecitazione accorata, se non ultimativa – indirizzata all’Occidente nel suo insieme – a fare un passo ulteriore per affrettare il cammino verso un traguardo evocato come certo: “la vittoria” sul campo “quest’anno”. “Io vi domando, e domando al mondo, aerei da combattimento per l’Ucraina, ali per la libertà”, ha intonato con passione Zelensky, barba incolta e maglione militare kaki indosso, prima di presentarsi in questa tenuta che è diventata la sua uniforme d’ordinanza d’ogni occasione pubblica dal 24 febbraio scorso in avanti pure di fronte a re Carlo III. In cambio la promessa è quella di “ripagare” gli alleati “con la vittoria” su Vladimir Putin, additato come “il male”, come futuro imputato “con i propri sodali” di una corte di giustizia internazionale ad hoc e come leader di un Paese condannato nei suoi auspici a pagare in avvenire i costi “dell’occupazione atroce” e del “terrorismo missilistico” inflitti all’Ucraina.
Nel nome di una convinzione animata da ambizioni quasi profetiche: “Sappiamo che la libertà vincerà, sappiamo che la Russia perderà e sappiamo che la nostra vittoria cambierà il mondo”. Di qui l’invito a Sunak – apripista di recente sul via libera ai carri armati pesanti europei a Kiev – a seguire fino in fondo l’esempio di Johnson, l’amico “Boris”, esaltato personalmente per aver schierato il Regno “al fianco dell’Ucraina dal giorno uno”, prima e più risolutamente di altri leader occidentali. Invito ribadito poi nella conferenza stampa congiunta con il primo ministro in carica tenuta di fronte a uno dei moderni tank Challager-2 (che Londra conta di consegnare a Kiev per fine marzo) in una base del Dorset dove i britannici già addestrano da tempo militari ucraini. Al di là della dichiarazione unitaria firmata da due leader a suggello “dell’amicizia infrangibile” proclamata tra le rispettive nazioni, l’appello è esplicito: non servono più soltanto armi difensive, ma strumenti – “missili a lungo raggio” compresi – in grado di avvicinare quella “vittoria militare decisiva” che anche Sunak richiama; di contrastare “i droni iraniani”; di “distruggere” le forze russe; di costringerle a “preoccuparsi di una nostra controffensiva”. Richieste che Zelensky ha esteso in serata a Emmanuel Macron e Olaf Scholz, preparandosi a fare lo stesso domani a Bruxelles con l’intera platea dei leader Ue, Giorgia Meloni inclusa, con la quale avrà un faccia a faccia; in aggiunta alle pressioni per un cammino facilitato verso la promessa adesione di Kiev al club dei 27.
Anche se per ora gli spiragli – almeno sulla questione esplosiva della fornitura dei cacciabombardieri, che significherebbe sfiorare l’orizzonte di uno scontro diretto fra Nato e Russia, come lasciato immediatamente balenare nero su bianco dall’ambasciata del Cremlino a Londra – sono al massimo parziali. Con la Germania che si limita a glissare, affrettando le scadenze sulla “speranza” di trasferimento in Ucraina di “un primo battaglione” di suoi panzer Leopard-2 per marzo-aprile. O lo stesso Regno Unito che, per bocca di Sunak, si spinge ad oggi ad assicurare solo genericamente di non “escludere nulla dal tavolo”, ma senza andare oltre l’impegno immediato d’allargare i programmi di addestramento britannici a “piloti e marines ucraini” o di fornire di armi “a più lungo raggio”. E confinando ogni concreta ipotesi sui jet nel novero delle “soluzioni da tempi lunghi”.