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Cronache

L’inchiesta punta ai sensori mai usati per monitorare il ponte Morandi e ai lavori necessari mai eseguiti

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Autostrade per l’Italia portò al ministero delle Infrastrutture il progetto di ristrutturazione della pila numero 9 del Ponte Morandi il 30 ottobre 2017. Non c’era alcuna possibilità di programmare nell’immediato quei lavori. Autostrade aveva già deciso di non installare i sistemi di monitoraggio aggiuntivi che avrebbero potuto segnalare movimenti, criticità anche nell’immediato per poter evitare tragedie. I sensori suggeriti da più studi commissionati dalla stessa azienda concessionaria avrebbero potuto segnalare il crollo imminente o un rischio concreto non prevedibile con i controlli di routine.  
Nel giugno del 2015, a distanza di ventidue anni dall’ultimo intervento strutturale sul Ponte (riguardò la pila 11, per la pila 9, quella crollata, fu solo rinforzato il calcestruzzo con delle resine), la Direzione manutenzioni di Autostrade lancia il grosso progetto di “retrofitting” del ponte. Era considerata un’opera come le altre, una ristrutturazione “per allungare la vita del Morandi fino al termine della concessione nel 2038”. Nel giugno del 2015, succede anche un’ altra cosa, su cui i finanzieri genovesi stanno indagando. Autostrade commissiona alla Ismes (gruppo Cesi) uno studio per verificare l’efficacia delle “procedure di sorveglianza” e del “sistema di monitoraggio statico” usate fino ad allora per il viadotto. Qualcuno evidentemente ha un dubbio.
Tra il gennaio e il maggio del 2016 la Ismes consegna i report finali: suggeriscono di “aumentare la frequenza delle ispezioni” e di “implementare un sistema di monitoraggio continuo” per capire come il ponte si comporta durante il maltempo, le raffiche di vento, il traffico elevato, un terremoto. La seconda raccomandazione, così come quella sui sensori, verrà inserita nel progetto esecutivo. Che però, nel frattempo, non finisce mai al cda. Non rientra nel piano interventi del 2015, né in quello del 2016. Si arriva al 12 ottobre del 2017, quando ormai il tempo, come vedremo, è scaduto.
Quel giorno il Cda di Autostrade dà il via al finanziamento. Il progetto viene inviato al ministero il 30 ottobre: per far partire il bando di gara da 20 milioni serve il parere positivo del Comitato tecnico del provveditorato di Genova, e un decreto di approvazione finale, che, in base al contratto di concessione, deve essere dato entro 90 giorni. Gli atti ufficiali e la corrispondenza interna dimostrano che, in questo iter burocratico, si perderà molto tempo. Perché? La Direzione generale della Vigilanza sulle concessionarie autostradali è da sempre sotto organico:”Siamo in 160 e dovremmo essere 250″, dichiarò, nel 2016, l’ ex direttore Mauro Coletta. Anche il provveditore di Genova lamenta, in una lettera del 2017, “scarsità di ingegneri in servizio”.
Il Comitato tecnico viene convocato solo nel febbraio 2018.
In appena quaranta minuti i membri approvano il progetto, di cui avevano avuto copia una settimana prima. Nessuno solleva la questione della chiusura preventiva del traffico, o per lo meno di una riduzione. Le carte tornano al ministero e, qui, si arenano di nuovo. Il 3 marzo il responsabile manutenzioni di Autostrade, Michele Donferri, in una lettera di sollecito scrive: «L’espletamento delle procedure di affidamento, dopo il decreto di approvazione, può essere stimato in 13-15 mesi”. Siamo a marzo 2018, cinque mesi e mezzo prima della strage. Per il cantiere se ne riparlerà “nel secondo semestre 2019 o inizio del 2020”.

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Sangue infetto, la famiglia di un militare napoletano morto nel 2005 sarà risarcita con un milione di euro

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Dopo quasi vent’anni di battaglie legali, la Corte di Cassazione ha riconosciuto il diritto al risarcimento per i familiari di un militare napoletano, deceduto nel 2005 a seguito di complicazioni derivanti da una trasfusione di sangue infetto. La sentenza storica condanna l’ospedale Piemonte e Regina Margherita di Messina, stabilendo un risarcimento di oltre un milione di euro ai familiari del defunto.

Il militare, trasferitosi da Napoli a Sicilia per lavoro, subì un grave incidente durante il servizio che necessitò un intervento chirurgico d’urgenza e la trasfusione di quattro sacche di sangue. Anni dopo l’intervento, si scoprì che il sangue trasfuso era infetto dall’epatite C, portando alla morte del militare per cirrosi epatica. La complicazione si manifestò vent’anni dopo la trasfusione, rendendo il caso particolarmente complesso a livello legale.

In primo e secondo grado, i tribunali di Palermo e la Corte d’Appello avevano respinto le richieste di risarcimento della famiglia, giudicando prescritto il diritto al risarcimento. Tuttavia, la decisione della Corte di Cassazione ha ribaltato questi verdetti, affermando che la prescrizione del diritto al risarcimento non decorre dal momento del fatto lesivo ma dal momento in cui si manifesta la patologia collegata al fatto illecito.

Questa sentenza non solo porta giustizia alla vittima e ai suoi cari ma stabilisce anche un importante precedente per la tutela dei diritti dei pazienti e la responsabilizzazione delle strutture sanitarie. Gli avvocati della famiglia hanno sottolineato l’importanza della decisione, che apre nuove prospettive nel campo della giustizia sanitaria e sottolinea l’obbligo delle strutture ospedaliere di rispettare protocolli medici dettagliati, anche in situazioni di urgenza.

Il caso di Antonio (nome di fantasia) sottolinea la necessità di garantire la sicurezza nelle procedure mediche e di monitorare con rigore le condizioni di sicurezza del sangue donato, indipendentemente dalle circostanze. La sentenza rappresenta un passo significativo verso una maggiore giustizia e sicurezza nel sistema sanitario italiano, ribadendo che nessuna circostanza può esimere dal rispetto delle norme di sicurezza e prudenza necessarie per proteggere la salute dei pazienti.

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Addio a Italo Ormanni, magistrato e gentiluomo napoletano

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Italo Ormanni, magistrato, è scomparso all’età di 88 anni. Dopo una vita dedicata alla giustizia e alla lotta contro la criminalità organizzata, Ormanni ci lascia ricordi indelebili di un uomo che ha saputo coniugare serietà professionale e un vivace senso dell’umorismo. È deceduto ieri a Roma, nella clinica Quisisana, dove era ricoverato e aveva subito un’angioplastica.

La carriera di Ormanni, iniziata nella magistratura nel 1961, è stata lunga e fruttuosa, con servizio attivo fino al 2010. Tra i casi più noti che ha seguito, ci sono stati quelli che hanno toccato i vertici della camorra a Napoli, sua città natale, e importanti inchieste su eventi di cronaca nazionale, come il rapimento di Emanuela Orlandi e l’omicidio di Simonetta Cesaroni. Anche nel suo ruolo di procuratore aggiunto a Roma, Ormanni ha gestito casi di grande risonanza, contribuendo significativamente alla sicurezza e alla giustizia in Italia.

Oltre al suo impegno nel campo giudiziario, Ormanni ha avuto anche una breve ma memorabile carriera televisiva come giudice-arbitro nella trasmissione “Forum”, dove ha lasciato il segno con la sua capacità di gestire le controversie con saggezza e empatia.

Amante delle arti e della cultura, Ormanni ha sempre cercato di bilanciare la durezza del suo lavoro con le sue passioni personali, dimostrando che dietro la toga c’era un uomo completo e poliedrico. I suoi funerali si terranno a Roma, nel primo pomeriggio di lunedì, dove amici, familiari e colleghi avranno l’occasione di rendere omaggio a una delle figure più influenti e rispettate del panorama giudiziario italiano.

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Falso terapista accusato di stupro, vittima minorenne

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Accoglieva le sue pazienti all’interno di un finto studio allestito in una palestra di Fondi e, una volta solo con loro nelle stanze della struttura, le molestava nel corso di presunti trattamenti di fisioterapia, crioterapia e pressoterapia, facendo leva sulle loro fragilità psicologiche e fisiche affinché non raccontassero nulla. Dolori e piccoli problemi fisici che spingevano ciascuna delle vittime, tra cui anche una minorenne, a recarsi da lui per sottoporsi alle sedute, completamente all’oscuro del fatto che l’uomo non possedesse alcun titolo di studio professionale, né tanto meno la prevista abilitazione, e che non fosse neanche iscritto all’albo. È finito agli arresti domiciliari il finto fisioterapista trentenne di Fondi, per il quale è scattato anche il braccialetto elettronico, accusato di aver commesso atti di violenza sessuale su diverse donne, tra cui una ragazza di neanche 18 anni, e di aver esercitato abusivamente la professione.

Un’ordinanza, quella emessa dal giudice per le Indagini Preliminari del Tribunale di Latina ed eseguita nella giornata di oggi dagli agenti del Comando Provinciale della Guardia di Finanza, arrivata al termine di un’indagine di polizia giudiziaria svolta su delega della Procura di Latina. Durata all’incirca un anno, quest’ultima ha permesso di svelare, attraverso le indagini condotte anche con accertamenti tecnici, acquisizioni di dichiarazioni ed esami documentali, i numerosi atti di violenza da parte dell’uomo nei confronti delle pazienti del finto studio da lui gestito. Tutto accadeva all’interno di un'”Associazione sportiva dilettantistica” adibita a palestra nella città di Fondi, nel sud della provincia di Latina: quella che il trentenne spacciava per il suo studio, sequestrata in queste ore dalle fiamme gialle quale soggetto giuridico formale nella cui veste è stata esercitata l’attività professionale, in assenza dei prescritti titoli di studio, della prevista abilitazione e della necessaria iscrizione all’albo, nonché dei locali, attrezzature e impianti utilizzati. Un’altra storia di abusi a Lodi.

Vittima una ragazza siriana di 17 anni arrivata in Italia per sfuggire alla guerra e al sisma del 2023: finita nelle mani dei trafficanti è stata sottoposta a violenze e maltrattamenti e poi abbandonata. La Polizia, coordinata dalla Procura di Lodi e dalla Procura presso la Direzione distrettuale antimafia di Bologna, ha arrestato i due aguzzini.

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