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Cronache

La Corte di Appello di Salerno sentenzia: le inchieste “Why not” e “Poseidone” furono sottratte con abusi al pm de Magistris. Ma chi commise gli abusi non paga perchè il reato è prescritto

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La Corte di Appello di Salerno  ha in parte riformato e accolto nella sostanza il ricorso dell’ex pm di Catanzaro Luigi de Magistris (difeso dagli avvocati Stefano Montone ed Elena Lepre)  rispetto alla sentenza emessa dai diudici di primo grado nel processo “Scontro tra Procure”, che aveva assolto tutti gli imputati per l’illecita revoca del procedimento “Poseidone” e l’illecita avocazione del procedimento “Why Not”, due inchieste che furono nella forma e nella sostanza tolte all’allora pm di Catanzaro Luigi de Magistris.
La Corte di Appello di Salerno con la sentenza appena emessa ha in sostanza riconosciuto commesso in violazione di legge il provvedimento di revoca del procedimento “Poseidone” avvenuto il 29.3.2007 ad opera dell’allora procuratore aggiunto di Catanzaro  Salvatore Murone. Atto commesso col concorco del senartore di Forza Italia Gian Carlo Pittelli e dall’allora sottosegretario del Ministero delle Attività Produttive, Giuseppe Galati, ritenendo i fatti sussumibili nel reato di abuso d’ufficio, per il quale ha dichiarato di non doversi procedere per intervenuta prescrizione. La Corte di Appello ha inoltre riconosciuto commesso in violazione di legge il provvedimento di avocazione del procedimento “Why Not” avvenuto il 19.10.2007 ad opera dell’allora procuratore aggiunto di Catanzaro  Salvatore Murone, dell’avvocato generale facente funzioni di procuratore Generale della Repubblica presso la Corte di Appello di Catanzaro,  Dolcino Favi in concorso con l’imprenditore della Compagnia delle Opere Antonio Saladino, ritenendo i fatti sussumibili nel reato di abuso d’ufficio, per il quale ha dichiarato di non doversi procedere per intervenuta prescrizione.

Luigi de Magistris. Da Magistrato era titolare di inchieste delicate in Calabria

La sentenza di appello ribalta dunque il processo di  primo grado celebratosi dinanzi al Tribunale di Salerno – prima sezione –  che ha avuto inizio il 2 febbraio 2011 ( a quasi 4 anni dai fatti) e terminato il 20 aprile 2016, dopo ben 98 udienze dibattimentali, nel corso delle quali  i giudici di primo grado pur riconoscendo in sentenza la ricorrenza della condotta in violazione di legge, mandavano assolti gli imputati.
Una assoluzione impugnata da Luigi de Magistris che aveva chiesto ai giudici di Appello di ritenere le condotte contestate agli imputati sussumibili nel reato di abuso d’ufficio, pur consapevoli che tali reati commessi nel 2007 erano già coperti da intervenuta prescrizione. 

La Corte di Appello ha infatti così sentenziato, stabilendo che effettivamente al magistrato di Catanzaro Luigi de Magistris furono tolte con abusi gravi le inchieste “Poseidone” e “Why Not” ma coloro che hanno commesso il reato di abuso di ufficio non possono essere condannati perchè prescritto. In pratica de Magistris, quando era pm a Catanzaro, subì una guerra di logoramento prima (da certa politica che lo bombardava di interrogazioni parlamentari) e abusi (commessi da suoi colleghi magistrati, politici e uomini di governo) per fiaccare prima le sue inchieste e poi togliergliele per farle approdare su un binario morto. Cosa che accadde. Per tutto questo nessuno pagherà perché c’è la prescrizione che tutto salva e tutto lava.

Che cosa dice Luigi de Magistris, oggi sindaco di Napoli, di questa sentenza della Corte di Appello di Salerno? Esprime “soddisfazione per il fatto che, seppur a distanza di così tanto tempo e seppur con tante ingiustizie che ho dovuto subire, la Corte d’Appello di Salerno abbia riconosciuto la responsabilità per il delitto di abuso d’ufficio a carico del procuratore aggiunto di Catanzaro Salvatore Murone, con il concorso del senatore Gian Carlo Pittelli e dall’allora sottosegretario del ministero delle Attività produttive,  Giuseppe Galati, dell’Avvocato Generale facente funzioni di procuratore Generale della Repubblica presso la Corte di Appello di Catanzaro,  Dolcino Favi in concorso con l’imprenditore della Compagnia delle Opere Antonio Saladino che utilizzarono le istituzioni, nelle condotte loro contestate, per sottrarmi illecitamente le inchieste Why Not e Poseidone. Da oggi – spiega de Magistris –  abbiamo la prova che quelle indagini, che riguardavano i rapporti tra criminalità organizzata, istituzioni, politica e massoneria deviata, che arrivavano fino al cuore dello Stato, mi furono illecitamente sottratte, affinchè non arrivassi alla verità e non mi si consentisse di fare le doverose indagini che svolsi nell’esclusivo adempimento delle norme costituzionali e nel rispetto della legge. Ho tanta amarezza nel cuore, ma oggi lo Stato, anche se in parte, mi ha ripagato con una sentenza cosi importante”. Una pagina inquietante della storia recente repubblicana. La sentenza dice che ad un magistrato furono tolte due inchieste molto delicate senza alcuna motivazione ma commettendo degli abusi. E il peggio è che questi abusi furono commessi da superiori gerarchici del pm de Magistris in concorso con politici, uomini di governo e imprenditori.

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Cronache

Gianni Berengo Gardin: “La vecchiaia fa schifo, ma morirò comunista con la mia Leica”

Il grande fotografo Gianni Berengo Gardin, 95 anni, racconta la sua vita in una straordinaria intervista al Corriere: Sartre, Oriana Fallaci, le grandi navi a Venezia, la fotografia come racconto.

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A ottobre compirà 95 anni, ma Gianni Berengo Gardin (foto Imagoeconomica) continua a vivere come ha sempre fatto: con l’occhio attento, l’ironia tagliente e lo spirito battagliero. In una lunga intervista rilasciata al Corriere della Sera, il maestro della fotografia italiana racconta una vita densa di storie, incontri memorabili e scatti diventati parte della nostra memoria collettiva.

Una vita tra Roma, Venezia, Parigi e due milioni di negativi

Nato per caso a Santa Margherita Ligure nel 1930, cresciuto tra Roma e Venezia, Berengo Gardin si è poi innamorato di Parigi, dove conobbe Jean-Paul Sartre, che lo portava al cinema a vedere western. Proprio nella capitale francese nasce la sua vocazione: «Lavoravo in un hotel la mattina, il resto della giornata lo passavo per strada con la macchina fotografica».

Oggi custodisce oltre due milioni di negativi, ma confessa: «Non so fare una foto col telefonino. Fotografare è raccontare, non scattare a caso milioni di immagini digitali».

Dai manicomi all’impegno civile

Il fotografo che ha documentato i manicomi prima della riforma Basaglia, con il celebre lavoro “Morire di classe”, confessa lo shock provato di fronte all’abbandono e al degrado delle strutture. «Non volevamo ferire, ma testimoniare. Uscimmo così sconvolti da prendere il treno sbagliato».

È stato lui a far conoscere al mondo lo scandalo delle grandi navi a Venezia, con immagini potenti bloccate da un sindaco che lo definì “nobile socialista”. Replica secca: «Sono comunista da una vita».

Sartre, Fellini e Oriana Fallaci: incontri e delusioni

Di Sartre conserva il ricordo di un uomo semplice e fissato con i western. Di Federico Fellini, invece, una profonda delusione: «Mi ricevette freddamente, volle scegliere l’inquadratura e fece telefonate mentre lo fotografavo». Ancora più faticoso il ritratto di Oriana Fallaci: «Tre rifiuti, poi finalmente accettò. Che fatica».

Sulla fotografia, non ha dubbi: «Deve essere buona, non bella. Deve raccontare. Per questo ho orinato su un teleobiettivo costoso: volevo liberarmi del feticismo degli strumenti».

Toscani, Dondero e Cartier-Bresson

Ironico anche su Oliviero Toscani: «Mi chiamò “fotografo di piccioni”, ma mi alzai e dissi: “Signori, sono io”». E con affetto ricorda Dondero, Scianna, e il suo mito Henri Cartier-Bresson, conosciuto grazie a Scianna: «Diceva che tre scatti per soggetto bastavano. Condivido».

“Non voglio funerali. E ogni sera mangio una Coppa del nonno”

Berengo Gardin non ha mai smesso di lavorare su se stesso. La sua giornata è scandita da piccoli riti: «Mi svegliano alle 8, leggo i giornali, pranzo leggero e la sera, immancabile, una Coppa del nonno. Prima era peggio: mangiavo chili di cioccolato».

E quando gli chiedono se gli farebbe una foto con lo smartphone, risponde sornione:

«E come diamine si fa?».

Un uomo antico, moderno nel pensiero e fedele al suo sguardo: quello di chi ha sempre saputo che la fotografia è un atto politico e poetico insieme.

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Egitto, arrestata la ballerina Linda Martino: “La danza non è un reato, sono italiana. Chiedo aiuto al Consolato”

Linda Martino, star dei social e danzatrice del ventre con doppia cittadinanza, è stata arrestata al Cairo per “offesa alla morale”. Rischia un anno di lavori forzati. L’Italia segue il caso.

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«La danza del ventre è un’arte, non un reato». Così si è difesa davanti al tribunale del Cairo la ballerina Sohila Tarek Hassan Haggag, in arte Linda Martino, arrestata il 22 giugno scorso mentre era in partenza dall’aeroporto egiziano per una tournée a Dubai e negli Emirati. La performer, seguita da oltre due milioni di follower su Instagram, ora rischia fino a un anno di lavori forzati per l’accusa di offesa alla morale pubblica.

“Mi sento italiana. Chiedo aiuto al mio consolato”

Linda Martino, che possiede doppia cittadinanza ma si dichiara “più italiana che egiziana”, ha chiesto al giudice l’intervento dell’ambasciata italiana:

«Sono una cittadina italiana e chiedo aiuto al mio consolato», ha detto in aula.

L’ambasciata italiana al Cairo, sotto il coordinamento della Farnesina, ha già attivato una richiesta di visita consolaree fornito assistenza, ricevendo anche la madre dell’artista. Ma la legge egiziana non riconosce la doppia cittadinanza, e dunque per le autorità locali Linda è solo egiziana, senza alcun canale protetto internazionale.

L’accusa: “Ha usato tecniche di seduzione”

Le autorità egiziane contestano alla danzatrice un videoclip realizzato nel 2024 insieme a un noto cantante locale, in cui sarebbe apparsa «con abiti indecenti, esponendo deliberatamente zone sensibili del corpo». Secondo l’accusa, Linda avrebbe «incitato al vizio» usando «danze provocanti e tecniche di seduzione».

Ma l’artista si è difesa respingendo ogni addebito:

«Quello che si vede sui social fa parte di un’attività artistica. Alcuni video sono stati manipolati. I miei spettacoli sono autorizzati e rispettano i limiti della legge».

La parabola di una star caduta in disgrazia

Linda Martino, dopo aver sposato nel 2011 l’italiano Domenico Martino, ne ha preso il cognome e ha vissuto a lungo in Italia, tra Cremona e Pistoia. Dopo il trasferimento in Egitto, la separazione e il successivo divorzio (trascritto nel 2024), la ballerina aveva continuato a esibirsi all’estero, abbandonando il palcoscenico egiziano per via delle polemiche e pressioni morali.

«È da un anno che vivo sotto attacco. Avevo anche annunciato il mio ritiro dalle scene», ha raccontato Linda in aula.

Un caso politico e culturale

Il caso Martino è solo l’ultimo di una serie di arresti di danzatrici orientali in Egitto. In due anni il governo di al Sisi ha già fermato almeno quattro ballerine con accuse simili. Il clima resta teso e l’opinione pubblica spaccata tra chi difende la tradizione e chi chiede maggiore libertà artistica e rispetto per le donne.

Intanto, l’ambasciatore italiano Michele Quaroni attende l’autorizzazione per incontrare la connazionale detenuta. E la vicenda continua ad alimentare un dibattito più ampio, che travalica la giustizia ordinaria: quello sull’identità, i diritti culturali e il confine – ancora troppo sottile – tra espressione artistica e censura morale.

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Addio a Elio Palombi, avvocato, magistrato e professore: una vita dedicata al diritto e ai suoi studenti

È morto Elio Palombi, figura simbolo della giustizia napoletana. Magistrato, avvocato, docente universitario, autore e maestro di generazioni di studenti. “Avvocato fino all’ultimo”, scrive la figlia Manuela.

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Magistrato, pretore, penalista, docente, scrittore. Ma soprattutto avvocato, fino all’ultimo respiro. È scomparso a 89 anni Elio Palombi, figura simbolo della cultura giuridica napoletana. A darne notizia la figlia Manuela, anch’essa avvocata, che ha raccolto l’eredità professionale e morale del padre:

“Ci ha lasciato facendo l’avvocato. Un mestiere che amava profondamente e al quale non avrebbe mai rinunciato”.

Palombi si è spento nel suo studio di piazza Municipio, tra codici e appunti, immerso nella professione che aveva scelto fin da giovanissimo contro il volere del padre, Arturo Palombi, noto zoologo.

Dalla toga alla cattedra, tra rigore e passione

Entrato in magistratura a soli 25 anni, fu sostituto procuratore a Novara, poi Pretore a Castel Baronia e a Capri, quindi giudice aggregato alla Corte Costituzionale. Ma fu l’insegnamento universitario a consegnarlo alla memoria di intere generazioni: docente di Istituzioni di diritto e procedura penale alla Federico II, Palombi viveva la cattedra come una missione.

“Meno lo interroghi, un ragazzo, e meno capisci se è davvero preparato”, ripeteva ai suoi studenti, con cui instaurava un rapporto serio ma umano. Le sue lezioni erano tra le più affollate di via Mezzocannone.

Per lui Scienze Politiche era una palestra per la vita pubblica, e riteneva suo dovere formare cittadini consapevoli e giuristi preparati. Il suo approccio era pratico, calato nella realtà: il diritto penale doveva essere uno strumento di giustizia, non solo teoria astratta.

Gli anni di Tangentopoli e l’etica professionale

Negli anni ’90 fu anche difensore di politici e imprenditori coinvolti in Tangentopoli, in un’epoca di grandi tensioni sociali e mediatiche. Difese sempre nel rispetto della dignità delle persone, senza mai cedere alla logica del processo spettacolo. Per lui la giustizia era una cosa seria, mai negoziabile.

Le passioni, Capri e la scrittura

Amava la gastronomia – fu delegato dell’Accademia Italiana della Cucina – e la scrittura, che definiva “la sua forma di relax”. I suoi libri, giuridici e non, erano spesso concepiti nel suo buen retiro caprese, davanti ai Faraglioni, quasi sempre pubblicati con l’amico editore Marzio Grimaldi.

Tra i suoi titoli più noti: “Magistratura e Giustizia in Italia”, “Pinocchio e la inGiustizia”, “Eduardo e l’impegno nella ricostruzione del Teatro San Ferdinando”.

Un’eredità morale che resta

“Muore un maestro – ha scritto un suo ex allievo – e non solo per l’avvocatura. Ha saputo trasformare in realtà il comandamento più difficile: ‘Come volete che gli uomini facciano a voi, così fate a loro’”.

Elio Palombi lascia la moglie Annamaria, i figli Marco e Manuela, e una Napoli più povera di cultura, di etica e di affetto. Un uomo che ha fatto della giustizia una vocazione e del diritto uno strumento di crescita civile.

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