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Braccianti agricoli dell’Est e dell’Africa schiavi nelle campagne Casertane, ancora una retata

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Arresti domiciliari per un cittadino rumeno di 35 anni e obbligo di presentazione alla polizia giudiziaria per due ucraini un 34 enne e un 54 enne gravemente indiziati del reato di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro. Per capirci, sono accusati di essere dei caporali, degli sfruttatori di altri uomini e donne sul lavoro. I tre, sebbene con ruoli e con responsabilità diverse reclutavano manodopera destinata al lavoro presso terzi, per una media di oltre 20 lavoratori per giornata lavorativa. C’era chi aveva un ruolo strategico ed operativo e chi coadiuvava il capo, il rumeno, con attività di reclutamento, trasporto dei lavoratori e vigilanza sui campi.

Le attività d’indagine hanno dimostrato infatti come gli indagati reclutavano forza lavoro in maniera organizzata e continuativa, per la maggior parte braccianti agricoli di sesso femminile che mettevano a disposizione di aziende agricole con le quali avevano istaurato un vero e proprio rapporto di durevole e fidelizzata collaborazione.

Dagli esiti delle attività di intercettazioni e dalle fonti dichiarative emergeva, in particolare, la sussistenza di numerosi indici rilevatori sia dello sfruttamento che dello stato di bisogno delle vittime, in particolare:

– l’impiego dei lavoratori senza la stipula di alcun contratto di lavoro;

– retribuzioni ben al di sotto degli standard dei contratti collettivi di riferimento;

– l’impiego dei lavoratori secondo turai massacranti, che si protraevano dalle prime luci dell’alba fino al tardo pomeriggio;

– il mancato riconoscimento ai lavoratori reclutati di qualsivoglia maggiorazione per il lavoro straordinario, notturno o festivo;

– l’impiego dei lavoratori in prestazioni eseguite all’interno di serre, in condizioni quindi disagiate, per orari superiori ai limiti previsti, lavori, secondo norma, qualificati disagiati, nocivi e pericolosi;

– lo scomputo dalla retribuzione, già inferiore al dovuto, di spese forfettarie per il trasporto e per il compenso spettante al caporale per il reclutamento e l’intermediazione con il proprietario terriero;

– l’attuazione di metodi di sorveglianza e di condizioni di lavoro degradanti, attraverso il controllo costante, anche della quantità di prodotti raccolti dalle singole squadre e la pretesa di una quantità minima di raccolto.

– il divieto per i lavoratori di ogni possibilità di comunicazione tra loro, senza le necessario pause di riposo e la possibilità di utilizzo di idonei servizi igienici;

  • l’impiego dei lavoratori in violazione ad ogni norma in materia di sicurezza, non garantendo loro alcun dispositivo di protezione individuale.

Lo svolgimento dell’attivila anche in condizioni meteorologiche estreme, come nel caso del 29 ottobre 2018, giornata caratterizzato da fenomeni temporaleschi di forte intensità e da venti molto forti. Tali indici di sfruttamento sono stati accertati grazie all’utilizzo della totalità dei mezzi di ricerca della prova, tra cui le numerose audizioni dei lavoratori reclutati, svolte con le massime cautele e con assoluta riservatezza, anche per evitare condizionamenti e ritorsioni.

In tale contesto, sebbene intimiditi e impauriti, alcuni di loro hanno fornito preziose indicazioni circa alcuni dettagli dell’accordo illecito con il caporale, confermando quanto già emerso a seguito delle attività d’intercettazione operate.

Dai riscontri effettuati nel corso delle investigazioni è emersa dunque un’attività illecita organizzata dai caporali nei minimi dettagli, “completamente in nero”, con un modello delinquenziale ormai stabilizzato che, potendo contare su una continua e sistematica domanda da parte di alcune fidelizzate aziende agricole committenti, reclutavano in punti prestabiliti di raccolta, lavoratori stranieri, per lo più ucraini e moldavi, in numero mediamente superiori alle venti persone, trasportate sui luoghi di lavoro stipati in furgoni del tutto inadeguati con grave rischio anche per l’incolumità personale.

In particolare nel corso delle indagini è emerso che il caporale, pur risultando formalmente assunto a tempo indeterminato come operaio presso un’azienda di commercio all’ingrosso di frutta e ortaggi freschi, svolgeva l’illecita attività avvalendosi dell’apporto prestato dagli altri due soggetti, che, oltre a reclutare manovalanza, svolgevano compiti di autisti e capi squadra, provvedendo al materiale trasporto degli operai presso i fondi, nonché al controllo sui lavoratori.

In concorso con i caporali, sono stati indagati anche due committenti, B.A. di Mondragone (CE) di anni 60 e C.S. di anni 57 di Formia (LT), titolari di aziende agricole che hanno a loro volta beneficiato di tale sistema illecito per abbattere drasticamente i costi della raccolta. Sono ancora in corso le indagini nei confronti di altri committenti ed utilizzatori della manodopera.

 

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Magnate asiatico Kwong, mai pagato o conosciuto Boraso

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Il magnate singaporiano Ching Chiat Kwong si chiama ‘fuori’ dalle accuse che lo inseriscono nell’inchiesta di Venezia, sostenendo di non aver “mai pagato, ne’ conosciuto” l’assessore Renato Boraso, in carcere per corruzione. Kwong, indagato dai pm Roberto Terzo e Federica Baccaglini, ha fatto conoscere la sua posizione attraverso il proprio difensore, l’avvocato Guido Simonetti. Nelle carte dell’accusa il miliardario asiatico è chiamato in causa – per l’acquisto dei due palazzi veneziani Donà e Papadopoli, e per la trattativa sui ‘Pili’ – assieme a Luois Lotti, suo plenipotenziario in Italia, e Claudio Vanin, imprenditore prima con loro in affari, ora ingaggiato in una dura lotta legale con Lotti.. A Venezia c’è intanto attesa per capire quali saranno le mosse del sindaco Luigi Brugnaro, a sua volta indagato, che pressato dei partiti della sua maggioranza – in particolare Fdi – ha deciso di anticipare al 2 agosto (prima era il 9 settembre) la data del chiarimento in Consiglio Comunale. Brugnaro continua a lavorare, e non ha intenzione di presentarsi dimissionario.

E se può essere suggestivo accostarvi oggi le dimissioni di Giovanni Toti, suo ex compagno di avventura in ‘Coraggio Italia’, da ambienti vicini a Ca’ Farsetti si fa notare come le due vicende siano “completamente diverse”. Brugnaro è indagato per concorso in corruzione con i due dirigenti dell’ufficio di gabinetto Morris Ceron e Derek Donadini. Quando scoppiò l’inchiesta il Procuratore Bruno Cherchi aveva sottolineato che l’iscrizione del sindaco nel registro era stata fatta solo “a sua tutela”. I chiarimenti veri, tuttavia, non saranno possibili fino a quando i nomi di peso finiti nell’inchiesta non decideranno di presentarsi davanti ai magistrati. Oggi intanto ha provato a chiarire la propria posizione l’uomo d’affari singaporiano “Ching Chiat Kwong – ha dichiarato l’avvocato Simonetti – “non ha mai disposto né effettuato (neppure tramite persone terze) il pagamento di una somma nei confronti dell’assessore Renato Boraso”.

Inoltre “non ha mai neppure conosciuto l’assessore Renato Boraso”. E sulle due operazioni portate a termine da Kwong a Venezia, viene sottolineato che i due edifici citati nell’inchiesta, palazzo Donà e palazzo Papadopoli, “sono stati acquistati attraverso una procedura ad evidenza pubblica e a prezzi in linea (se non superiori) al loro valore di mercato”. Nelle carte dell’inchiesta, l’accusa sottolinea tuttavia che proprio per far abbassare il valore di acquisto di palazzo Papadopoli, da 14 mln a 10,7 mln, Boraso avrebbe ricevuto da Kwong “”per il tramite dei suo collaboratori”, la somma di 73.200 euro, attraverso due fatture da 30.000 euro più Iva, emesse da una società dell’assessore, la Stella Consuting, per una consulenza “in realtà mai conferita, ne’ eseguita”. Quanto all’affare, poi sfumato, dei Pili, l’avvocato di Kwong evidenzia “come la trattativai non si sia in alcun modo mai concretizzata, fermandosi ad uno stadio del tutto embrionale”.

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‘Sgomberate la Vela’, l’ordinanza del 2015 mai eseguita

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Un’ordinanza datata ottobre 2015 metteva in guardia dal pericolo crolli: la Vela Celeste va sgomberata, il succo di una relazione del Comune di Napoli messa nero su bianco. La firma in calce è quella del sindaco dell’epoca, Luigi de Magistris. Un sos che non troverà mai seguito e di cui oggi la città piange le conseguenze dopo il crollo del ballatoio-passerella che lunedì sera ha determinato la morte di tre persone e il ferimento di altre dodici. Dunque, non solo il documento datato 2016 che denunciava la mancata manutenzione dei ballatoi della Vela Celeste di Scampia con relativo rischio crollo, dal passato emerge anche un’altra carta che chiama in causa l’immobilismo delle istituzioni. Perché quell’ordinanza di sgombero coatto non è mai stata presa in considerazione?

E perché si è preferito agire con degli accorgimenti che sanno di palliativo piuttosto che affrontare di petto l’emergenza segnalata da quel documento pubblicato sull’albo pretorio del Comune? Domande in attesa di risposta e sulle quali la procura di Napoli – che ha aperto un’indagine contro ignoti per crollo colposo e omicidio colposo – intende fare chiarezza. L’ordinanza firmata de Magistris – è quanto emerge – era dettata dalla necessità di tutelare l’incolumità di 159 famiglie per un totale di 600 persone residenti nella Vela Celeste. Alla base del provvedimento c’era la relazione di un dirigente comunale che delineava un quadro di pericolo allarmante. Anche la politica chiede di fare chiarezza.

A partire dalla segretaria del Pd Elly Schlein che ne ha parlato al festival di Giffoni: “È un tragedia drammatica – ha detto -. Abbiamo immediatamente espresso tutta la nostra vicinanza alle persone, alle famiglie, al quartiere colpito. C’è da fare luce su quello che è accaduto perché non può succedere una cosa del genere”. Fare luce è quello che intende fare la Procura di Napoli che ha disposto l’ampliamento dell’area sottoposta a sequestro, dal terzo piano fino al piano terra. Le verifiche stanno riguardando anche le posizioni dei residenti nella Vela “incriminata” che, in gran parte, secondo quanto si apprende da fonti qualificate, risulterebbero abusivi. E intanto si sta rivelando più difficoltosa del previsto l’acquisizione della copiosa documentazione amministrativa sulla Vela Celeste. Si tratta in particolare degli atti relativi al progetto di riqualificazione ReStart e alla manutenzione del complesso di edilizia popolare con relative negligenze che oramai sono date per scontate. Fondamentali saranno per gli inquirenti le risultanze del lavoro affidato al perito, un ingegnere strutturista forense. Conferito, infine, l’incarico per gli esami autoptici sui corpi delle tre vittime.

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Rifiuta nutrizione artificiale,”ok a suicidio assistito”

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Si è sbloccato l’iter per l’accesso al suicidio medicalmente assistito della 54enne toscana, completamente paralizzata a causa di una sclerosi multipla progressiva, che aveva rifiutato la nutrizione artificiale: la Asl Toscana nord ovest ha dato parere favorevole. “E’ la prima applicazione della nuova sentenza della Consulta che ha esteso il concetto di ‘trattamento di sostegno vitale'”, afferma l’associazione Luca Coscioni a cui si era rivolta tempo fa la donna e che ne aveva reso noto il caso un mese fa. L’Azienda sanitaria, spiega oggi l’associazione, “ha comunicato il suo parere favorevole: la donna possiede tutti e 4 i requisiti previsti dalla sentenza 242/2019 (Cappato/Dj Fabo) per poter accedere legalmente al suicidio medicalmente assistito in Italia. Da oggi se confermerà la sua volontà, potrà procedere a porre fine alle sue sofferenze. La Commissione medica della azienda sanitaria ora aspetta di sapere le modalità di esecuzione e il medico scelto dalla donna, in modo da assicurare ‘il rispetto della dignità della persona’”. La donna aveva inviato la richiesta di verifica delle sue condizioni il 20 marzo e a causa del diniego opposto aveva diffidato l’Asl, il successivo 29 giugno, alla revisione della relazione finale con particolare riferimento alla sussistenza del requisito del trattamento di sostegno vitale, essendo totalmente dipendente dall’assistenza di terze persone e avendo rifiutato la nutrizione artificiale con la Peg ritenendola un accanimento terapeutico.

Ora la revisione del parere della Asl “è avvenuta – rileva l’associazione – alla luce della recente sentenza della Corte costituzionale 135 del 2024 che ha esteso l’interpretazione del concetto di ‘trattamento di sostegno vitale'”: fino a quest’ultima sentenza l’Azienda sanitaria “non riconosceva la presenza di questo requisito, in quanto equiparava il rifiuto della nutrizione artificiale all’assenza del ‘trattamento di sostegno vitale'”. I giudici della Consulta però “hanno chiarito che ‘non vi può essere distinzione tra la situazione del paziente già sottoposto a trattamenti di sostegno vitale, di cui può chiedere l’interruzione, e quella del paziente che non vi è ancora sottoposto, ma ha ormai necessità di tali trattamenti per sostenere le sue funzioni vitali'”. “È la prima applicazione diretta della sentenza 135” della Consulta “che interpreta in modo estensivo e non discriminatorio il requisito del trattamento di sostegno vitale – dichiara l’avvocato Filomena Gallo, segretaria nazionale dell’associazione Coscioni, difensore e coordinatrice del collegio legale della 54enne -. La signora dopo mesi di attesa e sofferenze, con il rischio di morire in modo atroce per soffocamento anche solo bevendo, potrà decidere con il medico di fiducia quando procedere, comunicando all’Azienda sanitaria tempi e modalità di autosomministrazione del farmaco al fine di ricevere assistenza e quanto necessario. Le decisioni della Consulta, che hanno valore di legge, colmano il vuoto in materia dettando le procedure da seguire per chi vuole procedere con il suicidio medicalmente assistito”.

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