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Cronache

Autostrade, l’inchiesta che svela trame oscure tra imprese opache e dirigenti infedeli che “incassano” Rolex, auto e altre utilità

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Corruzione per atti contrari ai doveri d’ufficio, abuso d’ufficio, frode nelle pubbliche forniture, attentato alla sicurezza dei trasporti. Sono questi i reati più gravi che il sostituto procuratore di Roma, Francesco Dall’Olio, contesta a 11 tra funzionari di Autostrade per l’Italia e società controllate e titolari di aziende che avrebbero incamerato appalti in Autostrade ed avrebbero eseguito le opere con materiali scadenti o comunque non eseguendo lavori a perfetta regola d’arte così come previsto nella realizzazione di opere pubbliche. Nel caso di specie parliamo di autostrade, caselli, cavalcavia e dunque di trasporti, da qui anche la contestazione del reato di attentato alla sicurezza dei trasporti. Reati commessi in concorso e con circostanze aggravanti che rendono la questione molta più seria di quello che sembra.

Il 6 dicembre, alle 9,30, al Tribunale di Roma, sezione del Giudice per le Indagini Preliminari, Ufficio XXVI Gip, la dottoressa Emanuela Attura, giudice della indagini preliminari, sarà chiamata a pronunciarsi  sulla richiesta di rinvio a giudizio depositata dal sostituto procuratore Francesco Dall’Olio in relazione a questa delicata inchiesta che verte sui lavori per la realizzazione dei caselli autostradali di Firenze Nord, San Giovanni Valdarno, Rosignano e il cavalcavia di Capannori. Secondo quanto appurato e contestato dal pm Francesco Dall’Olio, l’ingegnere Vittorio Giovannercole, funzionario di Autostrade per l’Italia spa, e quindi anche in veste di pubblico ufficiale in quanto era Rup (responsabile unico del procedimento) per i lavori svolgeva il suo ruolo – accusa il magistrato della procura di Roma che è il dominus delle indagini – in violazione dei  doveri di indipendenza e imparzialità,  mettendosi a disposizione di Mario e Pasquale Vuolo, per operare pressioni ed interferenze sul direttore dei lavori e sugli altri dipendenti del gruppo Autostrade al fine di assicurare ai due imprenditori originari di Castellammare di Stabia, il veloce pagamento dei corrispettivi, la abolizione o limitazione al minimo di eventuali penali che venivano comminate per  inadempimenti imputabili all’impresa, l’uso di  mezzi speciali, materiali e dipendenti dell’ente Autostrade facendo così risparmiare costi importanti di noleggio dei mezzi alle aziende private aggiudicatarie degli appalti.

Piera Aiello. Deputata del M5S

Che cosa ne ricavava in cambio Giovannercoli? Che cosa ne ricavavano  altri funzionari di Autostrade e quadri dirigenti di aziende controllate da Autostrade gruppo Atlantia? Orologi di marca Rolex, altri oggetti di valore, lavori a casa gratis ed altre utilità che il magistrato avrebbe svelato nella sua inchiesta. Sia Giovannercoli che gli altri funzionari di Autostrade o aziende controllate sono accusati dal pm di aver agito in violazione dei propri doveri di correttezza e imparzialità e avrebbero anche omesso di segnalare la frode nelle forniture di materiali scadenti e l’uso di manodopera non specializzata con la conseguenza di avere consentito di montare strutture inadeguate in particolare con riguardo alle saldature realizzate, tanto che in un caso si verificò il crollo parziale dei pennelli inerenti la pensilina del casello autostradale di Rosignano sulla A/12. Quello che emerge da questa inchiesta è solo uno dei tanti bubboni che sta emergendo. Non è escluso infatti che analoghe pratiche siano state adottate altrove. E non è escluso che il magistrato voglia vederci chiaro su altri lavori eseguiti sempre dalle aziende dei Vuolo di Castellammare di Stabia altrove in Italia per conto di Autostrade. Perchè questa aziende hanno eseguito altre opere lungo la direttrice Nord Sud di Autostrade.

Giovanni Castellucci. L’ex Ad di Autostrade

Chi è il principale accusatore degli attuali indagati che rischiano il processo? E’ Gennaro Ciliberto, testimone di giustizia. Di quest’uomo ci sono decine e decine di pagine di verbali di interrogatorio in una decina di procure di Italia in cui si descrivono minuziosamente i rapporti opachi tra funzionari di Autostrade e aziende in odore di mafia. Sono state messe nero su bianco accuse gravi riguardo la realizzazione di decine di cavalcavia, pezzi di autostrada in viadotto. E in Italia, come sappiamo, certi viadotti crollano, fanno strage. Ebbene a Ciliberto, ora che sta per cominciare il processo, ora che deve andare in tribunale a Roma per testimoniare e per rinnovare tutte le accuse, hanno tolto la scorta. Nel senso che con una comunicazione anomala gli hanno riferito che in Tribunale deve andarci da solo. E pure Ciliberto rischia la vita. Hanno provato una volta ad ucciderlo ma non ci sono riusciti. Certo senza protezione sarà più semplice. Ora che cosa succede? Che Ciliberto, assistito dai suoi legali, Angelo e Sergio Pisani, ha chiesto di ottenere una notifica della revoca della scorta con motivazione. In modo da poterla impugnare. E questo è compito dei legali. Lui, Gennaro Ciliberto, invece, si è presentato al Viminale questa mattina. Senza scorta. Vuole parlare col ministro Salvini. “Non me ne vado finché non mi riceve. Vogliono uccidermi, lo Stato non può usare i testimoni di giustizia come se fossero dei limoni. Prima li spreme e poi li butta. Sono un essere umano. Ho creduto e credo nella giustizia, ma questo Stato si sta comportando peggio di chi vuole chiudermi la bocca e non vuole che io parli di mafia, appalti e colletti bianchi”.  Al Viminale l’hanno raggiunto per portargli la loro solidarietà e dargli una mano la deputata Piera Aiello e il senatore Mario Michele Giarrusso, entrambi M5S.

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Cronache

Gianni Berengo Gardin: “La vecchiaia fa schifo, ma morirò comunista con la mia Leica”

Il grande fotografo Gianni Berengo Gardin, 95 anni, racconta la sua vita in una straordinaria intervista al Corriere: Sartre, Oriana Fallaci, le grandi navi a Venezia, la fotografia come racconto.

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A ottobre compirà 95 anni, ma Gianni Berengo Gardin (foto Imagoeconomica) continua a vivere come ha sempre fatto: con l’occhio attento, l’ironia tagliente e lo spirito battagliero. In una lunga intervista rilasciata al Corriere della Sera, il maestro della fotografia italiana racconta una vita densa di storie, incontri memorabili e scatti diventati parte della nostra memoria collettiva.

Una vita tra Roma, Venezia, Parigi e due milioni di negativi

Nato per caso a Santa Margherita Ligure nel 1930, cresciuto tra Roma e Venezia, Berengo Gardin si è poi innamorato di Parigi, dove conobbe Jean-Paul Sartre, che lo portava al cinema a vedere western. Proprio nella capitale francese nasce la sua vocazione: «Lavoravo in un hotel la mattina, il resto della giornata lo passavo per strada con la macchina fotografica».

Oggi custodisce oltre due milioni di negativi, ma confessa: «Non so fare una foto col telefonino. Fotografare è raccontare, non scattare a caso milioni di immagini digitali».

Dai manicomi all’impegno civile

Il fotografo che ha documentato i manicomi prima della riforma Basaglia, con il celebre lavoro “Morire di classe”, confessa lo shock provato di fronte all’abbandono e al degrado delle strutture. «Non volevamo ferire, ma testimoniare. Uscimmo così sconvolti da prendere il treno sbagliato».

È stato lui a far conoscere al mondo lo scandalo delle grandi navi a Venezia, con immagini potenti bloccate da un sindaco che lo definì “nobile socialista”. Replica secca: «Sono comunista da una vita».

Sartre, Fellini e Oriana Fallaci: incontri e delusioni

Di Sartre conserva il ricordo di un uomo semplice e fissato con i western. Di Federico Fellini, invece, una profonda delusione: «Mi ricevette freddamente, volle scegliere l’inquadratura e fece telefonate mentre lo fotografavo». Ancora più faticoso il ritratto di Oriana Fallaci: «Tre rifiuti, poi finalmente accettò. Che fatica».

Sulla fotografia, non ha dubbi: «Deve essere buona, non bella. Deve raccontare. Per questo ho orinato su un teleobiettivo costoso: volevo liberarmi del feticismo degli strumenti».

Toscani, Dondero e Cartier-Bresson

Ironico anche su Oliviero Toscani: «Mi chiamò “fotografo di piccioni”, ma mi alzai e dissi: “Signori, sono io”». E con affetto ricorda Dondero, Scianna, e il suo mito Henri Cartier-Bresson, conosciuto grazie a Scianna: «Diceva che tre scatti per soggetto bastavano. Condivido».

“Non voglio funerali. E ogni sera mangio una Coppa del nonno”

Berengo Gardin non ha mai smesso di lavorare su se stesso. La sua giornata è scandita da piccoli riti: «Mi svegliano alle 8, leggo i giornali, pranzo leggero e la sera, immancabile, una Coppa del nonno. Prima era peggio: mangiavo chili di cioccolato».

E quando gli chiedono se gli farebbe una foto con lo smartphone, risponde sornione:

«E come diamine si fa?».

Un uomo antico, moderno nel pensiero e fedele al suo sguardo: quello di chi ha sempre saputo che la fotografia è un atto politico e poetico insieme.

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Cronache

Egitto, arrestata la ballerina Linda Martino: “La danza non è un reato, sono italiana. Chiedo aiuto al Consolato”

Linda Martino, star dei social e danzatrice del ventre con doppia cittadinanza, è stata arrestata al Cairo per “offesa alla morale”. Rischia un anno di lavori forzati. L’Italia segue il caso.

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«La danza del ventre è un’arte, non un reato». Così si è difesa davanti al tribunale del Cairo la ballerina Sohila Tarek Hassan Haggag, in arte Linda Martino, arrestata il 22 giugno scorso mentre era in partenza dall’aeroporto egiziano per una tournée a Dubai e negli Emirati. La performer, seguita da oltre due milioni di follower su Instagram, ora rischia fino a un anno di lavori forzati per l’accusa di offesa alla morale pubblica.

“Mi sento italiana. Chiedo aiuto al mio consolato”

Linda Martino, che possiede doppia cittadinanza ma si dichiara “più italiana che egiziana”, ha chiesto al giudice l’intervento dell’ambasciata italiana:

«Sono una cittadina italiana e chiedo aiuto al mio consolato», ha detto in aula.

L’ambasciata italiana al Cairo, sotto il coordinamento della Farnesina, ha già attivato una richiesta di visita consolaree fornito assistenza, ricevendo anche la madre dell’artista. Ma la legge egiziana non riconosce la doppia cittadinanza, e dunque per le autorità locali Linda è solo egiziana, senza alcun canale protetto internazionale.

L’accusa: “Ha usato tecniche di seduzione”

Le autorità egiziane contestano alla danzatrice un videoclip realizzato nel 2024 insieme a un noto cantante locale, in cui sarebbe apparsa «con abiti indecenti, esponendo deliberatamente zone sensibili del corpo». Secondo l’accusa, Linda avrebbe «incitato al vizio» usando «danze provocanti e tecniche di seduzione».

Ma l’artista si è difesa respingendo ogni addebito:

«Quello che si vede sui social fa parte di un’attività artistica. Alcuni video sono stati manipolati. I miei spettacoli sono autorizzati e rispettano i limiti della legge».

La parabola di una star caduta in disgrazia

Linda Martino, dopo aver sposato nel 2011 l’italiano Domenico Martino, ne ha preso il cognome e ha vissuto a lungo in Italia, tra Cremona e Pistoia. Dopo il trasferimento in Egitto, la separazione e il successivo divorzio (trascritto nel 2024), la ballerina aveva continuato a esibirsi all’estero, abbandonando il palcoscenico egiziano per via delle polemiche e pressioni morali.

«È da un anno che vivo sotto attacco. Avevo anche annunciato il mio ritiro dalle scene», ha raccontato Linda in aula.

Un caso politico e culturale

Il caso Martino è solo l’ultimo di una serie di arresti di danzatrici orientali in Egitto. In due anni il governo di al Sisi ha già fermato almeno quattro ballerine con accuse simili. Il clima resta teso e l’opinione pubblica spaccata tra chi difende la tradizione e chi chiede maggiore libertà artistica e rispetto per le donne.

Intanto, l’ambasciatore italiano Michele Quaroni attende l’autorizzazione per incontrare la connazionale detenuta. E la vicenda continua ad alimentare un dibattito più ampio, che travalica la giustizia ordinaria: quello sull’identità, i diritti culturali e il confine – ancora troppo sottile – tra espressione artistica e censura morale.

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Cronache

Addio a Elio Palombi, avvocato, magistrato e professore: una vita dedicata al diritto e ai suoi studenti

È morto Elio Palombi, figura simbolo della giustizia napoletana. Magistrato, avvocato, docente universitario, autore e maestro di generazioni di studenti. “Avvocato fino all’ultimo”, scrive la figlia Manuela.

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Magistrato, pretore, penalista, docente, scrittore. Ma soprattutto avvocato, fino all’ultimo respiro. È scomparso a 89 anni Elio Palombi, figura simbolo della cultura giuridica napoletana. A darne notizia la figlia Manuela, anch’essa avvocata, che ha raccolto l’eredità professionale e morale del padre:

“Ci ha lasciato facendo l’avvocato. Un mestiere che amava profondamente e al quale non avrebbe mai rinunciato”.

Palombi si è spento nel suo studio di piazza Municipio, tra codici e appunti, immerso nella professione che aveva scelto fin da giovanissimo contro il volere del padre, Arturo Palombi, noto zoologo.

Dalla toga alla cattedra, tra rigore e passione

Entrato in magistratura a soli 25 anni, fu sostituto procuratore a Novara, poi Pretore a Castel Baronia e a Capri, quindi giudice aggregato alla Corte Costituzionale. Ma fu l’insegnamento universitario a consegnarlo alla memoria di intere generazioni: docente di Istituzioni di diritto e procedura penale alla Federico II, Palombi viveva la cattedra come una missione.

“Meno lo interroghi, un ragazzo, e meno capisci se è davvero preparato”, ripeteva ai suoi studenti, con cui instaurava un rapporto serio ma umano. Le sue lezioni erano tra le più affollate di via Mezzocannone.

Per lui Scienze Politiche era una palestra per la vita pubblica, e riteneva suo dovere formare cittadini consapevoli e giuristi preparati. Il suo approccio era pratico, calato nella realtà: il diritto penale doveva essere uno strumento di giustizia, non solo teoria astratta.

Gli anni di Tangentopoli e l’etica professionale

Negli anni ’90 fu anche difensore di politici e imprenditori coinvolti in Tangentopoli, in un’epoca di grandi tensioni sociali e mediatiche. Difese sempre nel rispetto della dignità delle persone, senza mai cedere alla logica del processo spettacolo. Per lui la giustizia era una cosa seria, mai negoziabile.

Le passioni, Capri e la scrittura

Amava la gastronomia – fu delegato dell’Accademia Italiana della Cucina – e la scrittura, che definiva “la sua forma di relax”. I suoi libri, giuridici e non, erano spesso concepiti nel suo buen retiro caprese, davanti ai Faraglioni, quasi sempre pubblicati con l’amico editore Marzio Grimaldi.

Tra i suoi titoli più noti: “Magistratura e Giustizia in Italia”, “Pinocchio e la inGiustizia”, “Eduardo e l’impegno nella ricostruzione del Teatro San Ferdinando”.

Un’eredità morale che resta

“Muore un maestro – ha scritto un suo ex allievo – e non solo per l’avvocatura. Ha saputo trasformare in realtà il comandamento più difficile: ‘Come volete che gli uomini facciano a voi, così fate a loro’”.

Elio Palombi lascia la moglie Annamaria, i figli Marco e Manuela, e una Napoli più povera di cultura, di etica e di affetto. Un uomo che ha fatto della giustizia una vocazione e del diritto uno strumento di crescita civile.

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