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Economia

Approvato il Def ‘light’, crescita 2023 all’1% e deficit verso il 4,5%

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Una fotografia parziale, che racconta un andamento dei conti pubblici non troppo lontano da quello di sei mesi fa. E che rimanda a dopo l’estate gli obiettivi programmatici, cioè quelli che indicano la direzione della prossima legge di bilancio. E’ il Documento di economia e finanza nella versione light “concordata” con Bruxelles per questo anno transitorio di avvio delle nuove regole del Patto di stabilità Ue. Contiene numeri “realistici”, in cui spicca il “pesante” impatto del Superbonus, evidenzia il governo. Che non esclude altre strette sull’ex 110% e promette nuovi tagli di spesa. In vista di una manovra 2025 che parte dalla priorità di confermare il taglio del cuneo.

Il Def “asciutto” approvato dal consiglio dei ministri contiene quest’anno solo le previsioni tendenziali, cioè a legislazione vigente, e non il quadro programmatico. Un modello che, fanno sapere dall’Ue, anche altri paesi europei stanno valutando. La maggioranza lo difende, le opposizioni avvertono che a pagare saranno i cittadini. La Cgil lo definisce una “scatola chiusa” e chiede garanzie sul taglio del cuneo. Le previsioni sono pressoché in linea con la Nadef di fine settembre. Il Pil viene rivisto un po’ al ribasso (+1% quest’anno e +1,2% il prossimo), ma comunque ad un livello più alto delle stime di altri istituti che ora viaggiano su una forchetta di +0,6/+0,8%. Il deficit resta quest’anno al 4,3%, per poi passare al 3,7% nel 2025 e al 3% nel 2026.

Inverte invece la rotta, rispetto al sentiero di discesa previsto in autunno, il debito: di qui al 2027 resterà sotto il 140%, ma salendo progressivamente dal 137,8% di quest’anno fino al 139,8% del 2026 (il calo è rimandato al 2027). Se le stime al ribasso sulla crescita sono il riflesso di un quadro internazionale e geopolitico “complicato”, l’andamento del debito è “pesantemente condizionato dai riflessi per cassa del superbonus nei prossimi anni”, spiega il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti. Che comunque conferma la resilienza della nostra economia, con l’occupazione che continua ad andare bene e un’inflazione così bassa da giustificare un “allentamento” dei tassi della Bce.

Giorgetti attendeva gli ultimi dati sul superbonus per chiudere il Def. Arrivati ieri sulla sua scrivania dall’Agenzia delle Entrate, aggiornano a 219 miliardi il conto dei crediti relativi ai bonus edilizi. Una “massa enorme”, con un “impatto devastante”, dice. Per Bruxelles, però, non è il caso di fare “grandi drammi”: il peso del superbonus è stato “limitato nel tempo”, osserva un alto funzionario europeo, ed ora è il momento di lavorare per “mettere i conti in ordine”. Ma il “disastro del superbonus” assilla Giorgetti, che aspetta la decisione di Eurostat su come classificare i crediti come “un giocatore che aspetta la Var” e non esclude nuovi interventi nel decreto all’esame del Parlamento. E se sul 110% “tiriamo una riga”, andrà avanti – assicura – l’attività di controllo e verifica sui crediti, che ha già portato a “circa 16 miliardi di crediti annullati e sequestrati”. Con il fardello del superbonus che “complica il quadro”, al Tesoro per far quadrare i conti si sta già pensando a nuovi “tagli di spesa”. Ma la dimensione dei risparmi da fare sarà più chiara solo nei prossimi mesi.

Dopo cioè che Bruxelles avrà dato le “istruzioni” sulla nuova governance Ue: solo a quel punto “avremo il quadro e sapremo anche dove andare a incidere per tagliare la spesa e trovare le risorse”, spiega Giorgetti. Obiettivi che a quel punto andranno a comporre il Programma fiscale strutturale, cioè il nuovo Def, da inviare a Bruxelles entro il 20 settembre. Giorgetti punta a “presentarlo anche prima, quando saranno disponibili tutti gli elementi”. La prossima manovra, intanto, parte da un punto fermo: la “priorità” è confermare anche nel 2025 il taglio del cuneo. Ma fine anno scade anche l’Irpef a 3 aliquote: “un serbatoio c’è già”, dice il viceministro Maurizio Leo, che conta sull’aiuto che potrà arrivare dal concordato preventivo biennale. E se sul fronte delle privatizzazioni invece viene confermato il piano “realistico” da 20 miliardi della Nadef, Giorgetti apre alla possibilità di vendere immobili pubblici. Ci “stiamo lavorando”, dice: anche se – osserva – buona parte del patrimonio che “generava reddito è già stato alienato”.

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Economia

Bilanci di previsione, virtuoso 86% dei Comuni ma non al Sud

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Comuni diventati virtuosi nella presentazione dei bilanci di previsione. Quest’anno sette su dieci già a metà febbraio avevano approvato e trasmesso il documento e alla data del 15 marzo la percentuale di comuni in linea era salita all’84%. Il dato risulta da un’elaborazione dei dati del Mef fatta dal Centro studi enti locali. Il dato, si spiega, è di netta rottura rispetto al passato e testimonia l’efficacia delle misure adottate lo scorso anno dal Ministero dell’Economia per interrompere il circolo vizioso dei posticipi infiniti che aveva caratterizzato gli ultimi decenni.

Ciò che emerge è però, ancora una volta, è “l’esistenza di divari siderali tra varie aree del Paese che vede contrapposti casi come quello siciliano, dove solo 30 comuni su 100 risultano aver approvato e trasmesso il bilancio, e la Valle d’Aosta e l’Emilia Romagna, dove questa percentuale sale al 96%”. Dopo anni di slittamenti nel 2023 un decreto ministeriale, ha riscritto il calendario delle scadenze contabili e anche se è comunque stata necessaria una proroga al 15 marzo quest’anno ben 4.695 comuni, il 59% del totale, hanno iniziato l’anno corrente con un bilancio di previsione già approvato e non si sono avvalsi del tempo aggiuntivo concesso dal Viminale.

Stando a quanto emerso da un’elaborazione di Centro Studi Enti Locali, basata sui dati della Banca dati delle Amministrazioni Pubbliche (Bdap-Mef), sono stati approvati entro il 15 marzo scorso i bilanci dell’84% dei comuni italiani. All’appello mancano quelli di 1.268 comuni. Questi enti hanno un profilo abbastanza preciso: la stragrande maggioranza è di piccole dimensioni. Nove di questi comuni su dieci hanno infatti meno di 10mila abitanti e il 64% è localizzato al sud e nelle isole. Nel nord Italia, nel suo complesso, risulta essere stato già trasmesso al Mef il 92% dei preventivi. In particolare, spiccano per efficienza: Emilia Romagna e Valle d’Aosta (entrambe a quota 96%) e Trentino Alto Adige e Veneto (95%). Ottimi anche i risultati registrati in: Lombardia (93%), Friuli Venezia Giulia (90%) e Piemonte (89%). Chiude il cerchio la Liguria, con l’85% di comuni adempienti.

Scendendo verso sud la percentuale decresce gradualmente, restando comunque buona al centro, dove mediamente sono stati già approvati e trasmessi 89 bilanci su 100. A trainare verso l’alto questo gruppo sono soprattutto Toscana (95%), Marche e Umbria (93%). Più indietro i comuni laziali, fermi a quota 81%. Meno rosea, ma comunque in netto miglioramento rispetto al passato, la situazione del Mezzogiorno dove i comuni più tempestivi sono stati 6 su 10. In particolare, le 3 regioni in assoluto più distanti dalla media nazionale sono – nell’ordine – la Sicilia, la Calabria e la Campania.

Nella banca dati gestita dal Ministero dell’Economia e delle Finanze, alla data del 24 aprile, risultano essere stati acquisiti soltanto 117 bilanci di previsione di comuni siciliani su 391, meno di uno su tre. Al di là dello Stretto ne sono stati trasmessi 236 su 404 (58% del totale), in Campania il 67% dei preventivi sono stati approvati nei tempi. Prima della classe, per quanto riguarda il meridione, è la Basilicata (92% di bilanci approvati), seguita a breve distanza dalla Sardegna (885) e dalla Puglia (86%). Chiudono il cerchio l’Abruzzo e il Molise, rispettivamente con l’80% e il 77% di comuni che hanno già inviato al Ministero il proprio preventivo.

Secondo il Centro Studi Enti Locali questi dati, nel loro insieme, testimoniano un effetto tangibile prodotto dalla nuova programmazione ma preoccupa la distanza abissale che continua a caratterizzare i risultati ottenuti da enti di territori diversi. Il processo di riforma della contabilità e dell’ordinamento degli enti locali, i cui cantieri sono aperti, dovrà necessariamente tenere conto anche delle criticità finanziarie e organizzative, ormai strutturali ed endemiche, di alcuni territori e individuare delle soluzioni efficaci per far sì che queste distanze siano colmate.

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Economia

Inflazione, Codacons: con record cacao e caffè rischi rincari

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E’ boom per le quotazioni di cacao e caffè, con i prezzi delle due materie prime che sui mercati internazionali stanno raggiungendo nuovi preoccupanti record, aumenti che potrebbero portare a breve a forti rincari dei listini al dettaglio per una moltitudine di prodotti venduti in Italia. L’allarme arriva oggi dal Codacons, che ha monitorato l’andamento delle quotazioni negli ultimi mesi. A inizio gennaio il prezzo del cacao era pari a circa 4.250 dollari la tonnellata, mentre ieri, mercoledì 24 aprile, le quotazioni sui mercati avevano raggiunto quota 10.800 dollari, con un incremento del +154% da inizio anno, riporta il Codacons. Trend analogo si registra per il caffè, con il Robusta che è passato dai 2.800 dollari la tonnellata dello scorso gennaio ai 4.250 dollari del 24 aprile, segnando un +51,8%, mentre l’Arabica nello stesso periodo sale da 190 a 224 centesimi alla libbra (+18%).

Quotazioni alle stelle che interessano materie prime utilizzate per prodotti molto consumati in Italia, e che rischiano di determinare rincari a raffica per i prezzi al dettaglio di una moltitudine di alimenti, lancia l’allarme il Codacons. Basti pensare che solo per i prodotti a base di cacao e caffè gli italiani spendono oltre 10,2 miliardi di euro all’anno, circa 392 euro a famiglia: il giro d’affari del cioccolato nel nostro Paese è di circa 2 miliardi di euro, con un consumo procapite di circa 2 kg. Cialde e capsule valgono 595 milioni di euro annui, mentre il caffè per moka registra vendite per 640 milioni di euro. 7 miliardi di euro il business del caffè espresso consumato al bar. I prezzi al dettaglio hanno già risentito nell’ultimo periodo dell’andamento delle quotazioni, con i prezzi di prodotti a base di cacao e caffè che sono aumentati sensibilmente rispetto allo scorso anno – aggiunge il Codacons. Ipotizzando un rincaro medio dei listini al dettaglio del +5% come effetto dei rialzi delle materie prime, i consumatori andrebbero incontro ad una nuova stangata da 510 milioni di euro solo per i consumi di caffè e cioccolato.

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Economia

Ocse, in Italia il cuneo fiscale supera il 45% nel 2023

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Per il lavoratore ‘single’ in Italia il peso delle imposte complessive sul salario è in media del 45,1%, sostanzialmente stabile rispetto al 2022 (era del 45%). E’ quanto emerge dal rapporto Ocse per il 2023 ‘Taxing Waging. Il cuneo fiscale nell’Ocse è stato del 34,8% in media nel 2023 (34,7% nel 2022) e l’Italia figura al quinto posto per l’incidenza più alta tra i 38 Paesi Ocse, dopo Belgio (52,7%), Germania (47,9%), Austria (47,2%) e Francia (46,8%). In Italia, le imposte sul reddito e i contributi previdenziali del datore di lavoro rappresentano insieme il 90% del cuneo fiscale totale, mentre la media Ocse è del 77%. Per un lavoratore spostato con due figli il cuneo è invece inferiore e vede l’Italia all’ottavo posto con il 33,2% (era al nono posto nel 2022), rispetto a una media Ocse del 25,7%.

Tra il 2000 e il 2023 il cuneo fiscale per il lavoratore single è sceso di 2 punti percentuali (dal 47,1 al 45,1%). Nello stesso periodo nei paesi Ocse è sceso di 1,4 punti percentuali (dal 36,2 al 34,8%). Tra il 2009 e il 2023 invece il cuneo fiscale per il lavoratore medio single in Italia è sceso di 1,7 punti percentuali. Durante questo stesso periodo, il cuneo fiscale per il lavoratore single nei paesi Ocse è aumentato lentamente fino al 35,3% nel 2013 e nel 2014, scendendo al 34,8% nel 2023. L’aliquota fiscale netta del dipendente single in Italia nel 2023 è stata in media del 27,7% nel 2023, rispetto alla media Ocse del 24,9%. Tenendo conto degli assegni familiari e delle disposizioni fiscali, l’aliquota fiscale media netta del dipendente per un lavoratore sposato con due figli in Italia era del 12% nel 2023, il 26esimo valore più basso nei Paesi Ocse, e si confronta con il 14,2% della media Ocse.

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