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Cultura

Addio a Giuseppe Maggi, l’archeologo che ridiede voce alla tragedia di Ercolano

È morto a Napoli a 95 anni Giuseppe Maggi, archeologo che legò il suo nome alla scoperta della Barca di Ercolano. Ex direttore del Mann, dedicò la vita alla valorizzazione dell’archeologia vesuviana.

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È morto a Napoli, all’età di 95 anni, Giuseppe “Peppino” Maggi, archeologo e per anni direttore del Museo Archeologico Nazionale di Napoli e degli scavi di Ercolano e Oplonti. La sua carriera è stata segnata da scoperte che hanno trasformato la conoscenza e la memoria della tragedia vesuviana del 79 d.C.

La scoperta della Barca di Ercolano

Il 3 agosto 1982 Maggi fu richiamato d’urgenza sul cantiere davanti alle Terme Suburbane di Ercolano: dal fango emerse la chiglia di un’imbarcazione rovesciata. Si trattava della celebre Barca di Ercolano, lunga oltre nove metri e conservata in modo eccezionale grazie all’assenza di ossigeno. Intorno a essa, reperti che raccontavano la quotidianità e la disperazione degli ercolanesi in fuga: corde spezzate, utensili in bronzo, un cestino di vimini, aglio, cipolline e perfino un salvadanaio con due monete raffiguranti Vespasiano. La barca, oggi custodita in un padiglione del Parco Archeologico di Ercolano, è divenuta il simbolo di quel lavoro pionieristico che trasformò gli scavi in un laboratorio di memoria collettiva.

Un impegno costante per Ercolano

Negli anni Settanta e Ottanta Maggi, grazie anche ai fondi della Cassa per il Mezzogiorno, coordinò interventi che resero più accessibile l’area archeologica. Tra i risultati più significativi la valorizzazione delle Terme Suburbane, dove fu riportato alla luce l’originario sistema di riscaldamento della natatio.

Una carriera internazionale

Formatosi all’Università Federico II di Napoli negli anni Cinquanta, Maggi portò le sue ricerche anche all’estero. Nel 1980 tenne una storica conferenza alla National Geographic Society di Washington, contribuendo a diffondere a livello internazionale l’importanza degli scavi vesuviani.

Il ricordo delle istituzioni

Il Mann e il Parco Archeologico di Ercolano hanno espresso cordoglio con una nota congiunta: “Giuseppe Maggi ha dedicato la sua vita alla tutela e valorizzazione del patrimonio con passione e competenza. Il suo lavoro presso l’antica spiaggia di Ercolano resta un segno tangibile della sua visione scientifica”.
Massimo Osanna, direttore generale dei Musei del MiC, e Francesco Sirano, direttore del Parco Archeologico di Ercolano, lo hanno definito “un professionista appassionato, la cui memoria resterà parte integrante della storia dell’archeologia italiana”.

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Cultura

Vincenzo Mollica ricorda Andrea Camilleri: «Era un moderno Omero»

L’ex volto del Tg1 racconta al Corriere della Sera la sua amicizia con Andrea Camilleri: dall’incontro sul terrazzino romano ai dialoghi su Montalbano, fino alla cecità condivisa e all’ultimo abbraccio.

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Un incontro che segna una vita. Vincenzo Mollica (foto Imagoeconomica) ricorda il suo primo colloquio con Andrea Camilleri, a metà anni Novanta, quando il direttore del Tg1 Marcello Sorgi lo inviò a intervistare l’autore in occasione dell’uscita del primo romanzo della saga di Montalbano, La forma dell’acqua.

L’incontro sul terrazzino romano

Nella sua casa di Roma, Camilleri lo accolse in un terrazzino trasformato in un angolo di Sicilia, un salottino dove sembrava di conversare a due passi dal mare. «Mi fece un’impressione incredibile, come se avessi conosciuto Walt Disney in persona», racconta Mollica. «Andrea prima di essere un grande narratore era un inventore di storie. Ripeteva sempre che la vita è teatro».

Montalbano come un moderno Ulisse

Da quella concezione di vita come rappresentazione, nacque un dialogo suggestivo. Mollica chiese a Camilleri se i libri di Montalbano potessero essere i capitoli di un’Odissea moderna. «Può essere», rispose l’autore. «E Montalbano può essere un moderno Ulisse?». «Può essere», ribadì. «Allora Camilleri è il moderno Omero?». «Non è escluso», concluse sorridendo.

La cecità condivisa

Il legame tra i due divenne ancora più profondo quando entrambi iniziarono a convivere con gravi problemi alla vista. «Affrontammo questa discesa agli inferi oculistica insieme, anche se lui diventò cieco prima di me», ricorda Mollica. Ogni incontro era scandito dalla domanda di Camilleri: «Vincenzino, com’è oggi? Penombra o luce piena?».
Quando la vista scomparve quasi del tutto, Camilleri lasciò a Mollica una lezione che lo accompagna ancora: «Sentirai i sapori e i profumi come non li hai mai sentiti. E soprattutto i sogni e i ricordi avranno un colore che con la vista non lo puoi vedere».

L’ultimo abbraccio

L’ultima volta che si incontrarono fu nella biblioteca dove Camilleri preparava Conversazioni su Tiresia. Entrambi ormai ciechi, si abbracciarono guidati dall’assistente dello scrittore. «Se non risultasse troppo sarcastico, potrei dire che fu l’ultima volta che lo vidi», commenta Mollica con la sua ironia.

Una vita di passioni

Mollica, che insieme a Bruno Luverà firma il libro Amo le triglie di scoglio. Andrea Camilleri si racconta (Rai Libri), ripercorre nel volume non solo l’amicizia con lo scrittore siciliano, ma anche il suo percorso personale: dall’infanzia in Canada alla giovinezza in Calabria, fino agli anni di formazione a Milano, dove conobbe la moglie Rosemarie e scoprì le sue passioni per musica, cinema e fumetti.

Il giornalismo tra passione e rispetto

Entrato in Rai nel 1980 insieme a Enrico Mentana, Mollica ricorda il Tg1 come «un luna park», un luogo dove lavorare accanto a figure leggendarie come Vespa, Stagno e Valenti. Non sempre i rapporti con i direttori furono facili: «Quando non ho avuto indietro lo stesso rispetto che ho dimostrato, col massimo dell’educazione ho chiuso la porta e li ho mandati a quel paese».
Alle critiche di non fare mai stroncature risponde così: «Io so lavorare in un solo modo, con passione, curiosità e fatica. Se non c’è passione, non racconto».

Le interviste del cuore

Tra i tanti incontri memorabili, Mollica cita Fellini, Mastroianni, Benigni, Celentano, Biagi, Fiorello e Paolo Conte. «Rosario Fiorello è un genio assoluto, un talento che non hanno neppure negli Stati Uniti. Non a caso Camilleri gli voleva bene».

L’epitaffio di Paperica

Oggi, con la sua proverbiale ironia, Mollica immagina persino il proprio epitaffio. «Andrea Pazienza e Giorgio Cavazzano inventarono per Topolino Vincenzo Paperica: potrei scrivere “Qui giace Vincenzo Paperica, che tra gli umani fu Mollica”. Oppure: “Omero non fui per poesia. Ma per mancanza di diottria”. Ma forse basterebbe anche solo: “Mollica, fu uomo di fatica”».

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Ambiente

Rapa Nui, i moai minacciati dall’innalzamento del mare entro il 2080

Uno studio dell’Università delle Hawaii avverte: le mareggiate raggiungeranno Ahu Tongariki e altri siti archeologici di Rapa Nui. Rischio fino a 5 metri di innalzamento entro il 2150.

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I celebri moai di Rapa Nui rischiano di essere danneggiati dall’innalzamento del livello degli oceani. Una ricerca dell’Università delle Hawaii, pubblicata sul Journal of Cultural Heritage, lancia l’allarme: entro il 2080 le mareggiate stagionali potrebbero raggiungere l’area di Ahu Tongariki, uno dei luoghi più iconici dell’isola.

Lo studio scientifico

Gli studiosi hanno elaborato modelli computazionali che mostrano come i cambiamenti climatici stiano mettendo a rischio non solo i 15 moai di Ahu Tongariki, ma anche altri 51 siti archeologici del Parco Nazionale di Rapa Nui.

Le proiezioni sul livello del mare

Secondo le stime del Gruppo intergovernativo sui cambiamenti climatici (IPCC), entro la fine del secolo il livello del mare nell’area potrebbe aumentare tra 0,32 e 0,70 metri nello scenario intermedio e tra 0,48 e 0,94 metri in quello ad alte emissioni. Le incertezze legate ai processi delle calotte glaciali fanno temere scenari più gravi: fino a 2 metri nel 2100 e addirittura 5 metri entro il 2150.

Un patrimonio in pericolo

I moai, simbolo universale dell’isola e patrimonio dell’umanità, sono esposti a un rischio crescente che unisce il cambiamento climatico alla fragilità del patrimonio culturale. Senza interventi di protezione e mitigazione, l’innalzamento del mare potrebbe compromettere in modo irreversibile questi testimoni unici della civiltà polinesiana.

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Cultura

Riemerge la Pompei post-eruzione: tra rovine, focolari improvvisati e vite precarie

Gli scavi nell’Insula Meridionalis rivelano la Pompei post-eruzione: sopravvissuti e senzatetto vissero tra le rovine fino al V secolo.

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Pompei non fu abbandonata per sempre dopo l’eruzione del 79 d.C. Le ultime indagini archeologiche nell’Insula Meridionalis mostrano che sopravvissuti e senzatetto, privi di alternative, tornarono tra le rovine della città distrutta. Alcuni cercavano rifugio, altri oggetti di valore sepolti sotto la cenere, altri ancora solo un posto dove sopravvivere.

Le evidenze, ora documentate sull’E-journal degli scavi di Pompei, confermano che, dopo la catastrofe, la vita riaffiorò tra i piani superiori degli edifici ancora visibili, mentre quelli che un tempo erano ambienti al piano terra venivano utilizzati come scantinati o caverne, con focolari, forni e mulini ricavati tra i resti.

Una città-fantasma abitata fino al V secolo

Si stima che nel 79 d.C. Pompei ospitasse circa 20.000 abitanti. Le vittime ufficialmente ritrovate sono 1.300, ma molte altre potrebbero aver perso la vita cercando la fuga fuori dal centro urbano. Di certo, non tutti morirono. Alcuni tornarono. Altri arrivarono dopo. Gente senza dimora, poveri, sradicati.

L’imperatore Tito cercò persino di rilanciare Pompei ed Ercolano, affidando a due ex consoli il compito di gestire i beni dei defunti senza eredi per favorire la ripresa. Ma la rifondazione fallì. La città non tornò mai ai fasti di prima. Le testimonianze raccontano piuttosto un luogo privo di servizi, senza infrastrutture, abitato in modo disordinato e precario fino al V secolo d.C., forse abbandonato in via definitiva dopo la cosiddetta eruzione di Pollena.

Gli archeologi riscoprono la Pompei dimenticata

Secondo il direttore del Parco Archeologico di Pompei, Gabriel Zuchtriegel, questa “Pompei post-79” è stata a lungo ignorata. Gli archeologi del passato, attratti dai tesori artistici intatti del momento dell’eruzione, avrebbero rimosso senza documentare le tracce flebili di vita successive, cancellando decenni – se non secoli – di sopravvivenza tra le macerie.

«È come se facessimo gli psicologi della memoria sepolta nella terra – spiega Zuchtriegel –. Tirando fuori le parti rimosse dalla storia, riscopriamo un accampamento tra le rovine, una sorta di favela dell’antichità, fatta di persone dimenticate e vite di resistenza». Una storia che spinge alla riflessione, anche oggi, su ciò che resta ai margini, oscurato dalla narrazione dominante.

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