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Cronache

Zia della bimba morta di stenti: mia sorella deve pagare

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“Diana era la bimba più bella del mondo, non si meritava tutto questo, lei deve pagare per ciò che ha fatto”. Lo ha detto ai cronisti Viviana Pifferi, sorella di Alessia, la 37enne che era presente stamani alla prima udienza del processo in cui è accusata di omicidio volontario aggravato per aver lasciato morire di stenti la figlia Diana di quasi un anno e mezzo, abbandonandola da sola in casa per sei giorni. La sorella, anche lei in aula in Corte d’Assise a Milano e con una maglietta addosso con stampata la foto della nipote, e la madre della 37enne, nonna della piccola, saranno parti civili nel processo contro Alessia Pifferi.

Stamani il processo, davanti alla Corte presieduta da Ilio Mannucci Pacini, è stato subito rinviato al prossimo 8 maggio, perché nei giorni scorsi Alessia Pifferi ha cambiato ancora una volta difensore. Poi, ha richiamato il precedente legale, il quale alla fine ha rinunciato al mandato. Ora è assistita dall’avvocato Alessia Pontenani, la quale ha chiesto termini a difesa essendo stata nominata solo qualche giorno fa. Rinvio concesso dai giudici data la “delicatezza e complessità del procedimento”. Nella prossima udienza, come ha spiegato il legale Emanuele De Mitri che le rappresenta, la madre e la sorella di Alessia Pifferi, rispettivamente nonna e zia della bimba, si costituiranno parti civili contro la 37enne, in carcere da fine luglio scorso nell’inchiesta della Squadra mobile di Milano, coordinata dai pm Francesco De Tommasi e Rosaria Stagnaro.

La Procura ha contestato nell’imputazione di omicidio volontario anche l’aggravante della premeditazione, oltre a quelle di aver ucciso la figlia e dei motivi futili e abietti. La piccola, scrivono i pm nell’imputazione, venne lasciata “priva di assistenza e assolutamente incapace, per la tenerissima età, di badare a se stessa, senza peraltro generi alimentari sufficienti e in condizioni di palese ed evidente pericolo per la sua vita, pure legate alle alte temperature del periodo”. Tutto ciò causò “nella minore una ‘forte disidratazione'” che portò alla morte. Dopo aver chiuso la porta di casa, la donna se ne era andata dal compagno (non padre della bimba) in provincia di Bergamo. La 37enne nel processo rischia la condanna all’ergastolo (aveva provato a chiedere il rito abbreviato, ma l’istanza è stata respinta in base alle normative). La difesa potrebbe puntare su un’istanza di perizia psichiatrica per valutare un eventuale vizio di mente al momento dei fatti. “Deve pagare”, ha ripetuto la zia in lacrime. Nella prossima udienza saranno trattate le questioni preliminari e la fase della ammissione prove. Il processo, ha spiegato il presidente della Corte, sarà trattato “tra la seconda metà di giugno e la prima metà di luglio” e si potrebbe chiudere anche prima dell’estate. Oppure a settembre.

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Cronache

Voto di scambio a Sant’Antimo, il giudice: non luogo a procedere

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“Non luogo a procedere”: si è praticamente concluso con un nulla di fatto il processo sul voto di scambio a Sant’Antimo, in provincia di Napoli, iniziato e conclusosi presso il Tribunale di Napoli Nord dopo le eccezioni sollevate dagli avvocati. I reati contestati agli imputati, complessivamente 23, erano l’associazione a delinquere e la corruzione elettorale. I fatti risalgono alle elezioni comunali dell’11 giugno 2017 e il procedimento giudiziario sarebbe dovuto iniziare al massimo entro due anni. Ma così non è stato e quindi, a iniziare dall’avvocato Pietro Rossi, i legali dei difensori hanno puntato le loro discussioni evidenziando il ritardo con il quale ha preso il via il giudizio. Alcune posizioni, comunque, sono state stralciate, per difetti di notifica, e adesso sarà necessaria un’altra udienza, dopo il nuovo invio delle convocazioni, che purtroppo non potrà avere esito diverso da quello cui si è giunti oggi. Il “non luogo a procedere” è stato riconosciuto sussistente, dal giudice, per il reato di corruzione elettorale mentre per l’associazione a delinquere sono stati ritenuti insussistenti i criteri sui quali si sono basati gli inquirenti. Per gli investigatori i presunti componenti dell’associazione a delinquere si sarebbero resi responsabili di avere contattato gli elettori (attraverso il passaparola e appostamenti nei pressi di esercizi commerciali particolarmente frequentati) proponendo denaro e altre utilità (anche posti di lavoro, in taluni casi) in cambio del voto per specifici candidati. Ma l’inizio del processo oltre i limiti prestabiliti ha vanificato gli sforzi della Procura.

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Dieci indagati per ragazza morta nel fiume in Calabria

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Arrivano i primi indagati per la morte della studentessa 19enne trovata morta nel fiume Lao, sul Pollino, dopo una gita scolastica con professori e compagni di istituto. La Procura di Castrovillari ha iscritto nel registro dieci persone, tra cui il sindaco di Laino Borgo, Mariangelina Russo, i responsabili della “Pollino rafting” e sette guide della stessa società. Contestualmente i magistrati hanno disposto anche il sequestro della società che si è occupata dell’escursione fatale per la giovane. Si tratta del primo passo ufficiale dell’inchiesta avviata dalla procura subito dopo la scomparsa della giovane, di cui si erano perse le tracce già martedì in seguito proprio alla caduta nelle acque del fiume.

“Le indagini in corso – ha spiegato il procuratore di Castrovillari, Alessandro D’Alessio – riguardano sia l’accertamento preciso delle cause della morte della diciannovenne, sia l’esatta ricostruzione della dinamica dell’incidente e della programmazione ed esecuzione dell’attività nel corso della quale si è verificato il decesso”. Stando a quanto raccontato da professori e compagni, il gruppo del liceo statale “Rechichi” di Polistena era in gita da alcuni giorni in provincia di Cosenza. Tra le attività previste dal viaggio d’istruzione c’era anche il rafting sul fiume Lao, nel comune di Laino Borgo. Proprio durante l’escursione, stando ai racconti delle compagne della 19enne, il gommone sul quale viaggiava Denise Galatà avrebbe urtato quello che lo precedeva facendo sbalzare la ragazza in acqua. Una volta finita sott’acqua, in un punto in cui il torrente é profondo alcuni metri, la giovane non avrebbe avuto la forza di risalire in superficie e sarebbe morta annegata.

“All’inizio – ha raccontato una delle ragazze che si trovavano insieme a Denise sul gommone – le acque erano calme, ma subito dopo la forza della corrente è aumentata. I gommoni sfioravano pericolosamente enormi massi nell’alveo del fiume. Ad un certo punto siamo stati sbattuti contro uno di questi massi ed in tre siamo caduti in acqua. Io ed un’altra mia compagna siamo stati soccorsi e portati sulla terraferma, mentre di Denise si é persa ogni traccia”. La procura, che a disposto per domani l’autopsia sul corpo della giovane, assicura che procederà nel minor tempo possibile “a tutti gli accertamenti, anche tecnici, necessari per acquisire gli elementi informativi”. Contemporaneamente proseguono anche le attività del ministero dell’Istruzione che ha attende dall’Ufficio scolastico regionale i risultati delle verifiche disposte per accertare che siano state effettivamente adottate tutte le misure di sicurezza previste in questi casi.

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L’orrore e la gelida opera di depistaggio dell’assassino di Giulia Tramontano

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Una vicina di casa di Alessandro Impagnatiello, il 30enne in carcere per aver ucciso Giulia Tramontano incinta di 7 mesi, ha raccontato agli inquirenti di aver visto nel pomeriggio di domenica 28 maggio “una quantità ingente di cenere provenire dalla porta d’ingresso dell’appartamento” dell’uomo, “continuare sulle scale del condominio sino al box” della coppia. E’ un altro degli elementi agli atti dell’inchiesta. Sempre nel pomeriggio di domenica Impagnatiello, che aveva già ucciso Giulia la sera prima, le mandava messaggi sul suo telefono con scritto “baby dove sei? Ci stiamo preoccupando tutti”. E il giorno dopo: “Dicci solo che sei fuggita in qualche paese lontano”. Nel verbale della sua confessione si leggono frasi gelide come “non sono riuscito nell’intenzione di ridurre il corpo in cenere”.

E ancora: “Quando io faccio la denuncia di scomparsa il cadavere di Giulia era nel box”. E al pm che gli chiede “non ha temuto che i carabinieri aprissero il box?”, lui ha risposto: “Forse speravo lo facessero”. Lunedì avrebbe spostato, a suo dire, “il corpo dal box alla cantina”. Martedì, ha detto ancora, “porto la macchina nel box e carico il corpo nel bagagliaio” dove, stando al suo racconto, sarebbe rimasto fino alla notte successiva, prima di essere gettato in un buco vicino a dei box. Prima, ha messo a verbale l’uomo, “ho comunque usato la macchina andandoci in giro con il cadavere nel bagagliaio”. Ha detto di aver gettato il “telefono di Giulia in un tombino”, così come il bancomat, mentre il passaporto di lei lo avrebbe bruciato. Ha sostenuto di non aver chiesto aiuto ad alcuno: “Forse mia mamma ha dubitato, ma per 30 anni non ho dato mai motivo che potessi mai fare una cosa simile”. Tra le esigenze cautelari contestate il pericolo di inquinamento probatorio (riuscì a “falsificare” anche un test di paternità), quello di fuga, anche perché nei giorni dopo l’omicidio faceva ricerche per acquistare uno “zaino da trekking” per una “fuga veloce”. E infine il pericolo di reiterazione per la sua “pericolosità sociale” e per la “crudeltà” di aver ucciso con “premeditazione” anche il “figlio che ella portava in grembo”. Anche l’amante, scrivono i pm, aveva “timore” di lui: non voleva “subire la medesima sorte” di Giulia.

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