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Xylella e gelate, gli agricoltori pugliesi scendono in piazza a Bari il 7 gennaio con i gilet arancioni

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I ‘Gilet arancioni’ scenderanno in piazza, a Bari, il prossimo 7 gennaio per dare vita ad un presidio e ad una manifestazione che partirà da piazza Prefettura. Un movimento popolare, quello dei gilet arancioni, composto da olivicoltori e agricoltori pugliesi “messi in ginocchio dalle gelate dello scorso febbraio, dalla xylella e da un gravissimo lassismo politico a tutti i livelli”. Da tutti i Comuni pugliesi si muoveranno verso il capoluogo i trattori degli imprenditori agricoli. La manifestazione e’ stata decisa nel pomeriggio dal coordinamento dei ‘Gilet arancioni’ (che raggruppa Agci, Associazione frantoiani di Puglia, Cia, Confagricoltura, Confocooperative, Copagri, Italia olivicola, Legacoop, Movimento nazionale agricoltura e Unapol) al termine di una riunione organizzativa che si e’ tenuta a Montegrosso, Andria, per pianificare le prossime iniziative di protesta contro la Regione Puglia e il Governo nazionale. Portavoce del movimento e’ Onofrio Spagnoletti Zeuli. “La Puglia olivicola – attaccano i Gilet Arancioni – e’ stata dimenticata dalle istituzioni e messa in ginocchio da gelate, Xylella e da un Psr fermo”. “E’ arrivato il momento delle azioni e dei fatti concreti, le parole e le promesse, ormai, non bastano piu’. Gli agricoltori pugliesi sono arrabbiati e pretendono risposte concrete. Con gli agricoltori ci saranno anche gli operai, danneggiati anche loro dalla crisi: oltre un milione di giornate lavorative sono andate in fumo per via delle gelate”. “Questo – concludono – e’ un problema sociale di dimensioni enormi, una catastrofe che riguarda centinaia di migliaia di famiglie”.

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Risucchiato dal motore di un aereo, vittima è 35enne bergamasco

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Aveva 35 anni, si chiamava Andrea Russo e abitava a Calcinate, in provincia di Bergamo, l’uomo che questa mattina attorno alle 10 è morto risucchiato dal motore di un aereo Volotea che stava rullando sulla pista di Orio al Serio. L’uomo, che in passato aveva avuto qualche problema di droga, ha raggiunto l’area antistante lo scalo bergamasco al volante della sua Fiat 500 rossa, l’ha lasciata in mezzo al parcheggio, si è diretto verso gli arrivi e, pare passando da una porta che dà direttamente sulla pista, sia corso verso il velivolo, buttandosi nel motore.

Invano i poliziotti in servizio allo scalo hanno cercato di bloccarlo. “Di fronte a questa tragedia che ci lascia attoniti e profondamente addolorati – scrive in un messaggio il sindaco di Calcinate, Lorena Boni -, desidero esprimere, a nome mio personale, dell’amministrazione comunale e dell’intera cittadinanza, la più sentita vicinanza e il cordoglio alla famiglia e a tutti coloro che hanno voluto bene a questo giovane ragazzo”.

“La notizia di quanto accaduto – ha aggiunto – ci colpisce nel profondo e ci ricorda quanto siamo fragili e quanto sia importante coltivare ogni giorno il senso della comunità, perché nessuno si senta mai solo di fronte alle proprie difficoltà. In questo momento di grande dolore, l’intera comunità si stringe in silenzio, con rispetto e commozione, attorno ai familiari e agli amici, augurando a ciascuno di loro di trovare conforto e sostegno nell’affetto delle persone care”.

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Spara e uccide l’uomo condannato per la morte del figlio

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Uccide l’uomo condannato per la morte del figlio, massacrato di botte cinque anni fa. Una vendetta privata, un rancore inestinguibile sarebbe l’ipotesi più credibile per l’omicidio a colpi d’arma da fuoco avvenuto questa mattina nel cuore di Rocca di Papa, cittadina dei Castelli Romani a pochi chilometri dalla Capitale. A premere il grilletto Guglielmo Palozzi, 62 anni, operatore ecologico. La vittima è Franco Lollobrigida, 35 anni. Ma in questa storia di sangue c’era già stata un’altra vittima, ed è Giuliano Palozzi, figlio di Guglielmo. Aveva 34 anni nel gennaio del 2020 quando Lollobrigida lo picchiò per un debito di soli 25 euro: Giuliano morì dopo qualche mese di agonia in un ospedale romano.

Ora dopo cinque anni è lui a essere morto, per mano del padre del ragazzo. E’ l’epilogo di una vicenda che ha scosso la comunità dei Castelli Romani, nata da una rissa per futili motivi. Imputato per la morte del giovane, nell’ottobre del 2023 Lollobrigida aveva ammesso con gli inquirenti di aver colpito il coetaneo con un pugno tra il naso e lo zigomo dopo aver visto il rivale estrarre qualcosa, forse un’arma, e dunque di avere agito per difesa. Sostenne però anche la tesi che altri, dopo di lui, sarebbero sopravvenuti dopo il pugno e avrebbero finito di massacrare Palozzi.

Nel febbraio del 2024 la corte d’Assise gli aveva dato ragione, assolvendolo. Lo scorso maggio però la Corte d’Appello aveva ribaltato la sentenza condannando il giovane di Rocca di Papa a dieci anni di reclusione per omicidio preterintenzionale. Il suo avvocato aveva presentato ricorso in Cassazione, ed ecco perché l’uomo era a piede libero. Lollobrigida dunque poteva circolare per il paesino. Siamo in via Roma, vicino a piazza della Repubblica, ci sono dei giardini pubblici e non lontano c’è il capolinea dei pullman. Caldo afoso. Palozzi è in giro con il suo carrettino degli attrezzi per la nettezza urbana. Se per caso o perché si erano dati un appuntamento lo chiariranno le indagini in corso, ma sta di fatto che in cima a una salita i due si incontrano. E la situazione precipita. Secondo la stampa locale Lollobrigida viene colpito da un solo proiettile, alla schiena, sfiorando l’aorta. L’uomo ferito riesce a percorrere qualche decina di metri, poi stramazza al suolo. Gli avventori di un bar lo vedono crollare a terra, si alzano, si avvicinano.

Qualcuno urla. Arrivano un’automedica e diverse ambulanze. Accorre anche il vicesindaco Ottavio Atripaldi. Nulla da fare. La salma viene coperta. Guglielmo Palozzi viene fermato dai carabinieri di Frascati e non oppone resistenza. Qualcuno lo vede dai finestrini della gazzella in cui è tenuto sott’occhio dai militari. I carabinieri intanto proseguono le indagini. Ciò che manca, al momento, è l’arma, forse detenuta illegalmente, forse un revolver perché sulla scena dell’aggressione non sarebbe stato trovato un bossolo. E poi mancano dettagli sulla dinamica dell’incontro, sui quali potrebbero dare informazioni decisive i filmati delle telecamere di sicurezza acquisiti dai carabinieri. Ciò che al momento, invece, sembra meno oscuro è il movente: nelle prossime ore Palozzi verrà sentito dal magistrato e potrà rendere la sua verità.

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Scandalo al carcere di Prato: violenze sessuali, rivolte e cellulari in cella con la complicità di agenti

La procura indaga su stupri, sommosse e corruzione tra le mura della Dogaia.

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Il carcere della Dogaia, a Prato, si conferma teatro di episodi gravissimi di violenza, degrado e illegalità diffusa. Le indagini della procura, che negli ultimi mesi ha aperto diversi fascicoli, hanno portato oggi a una maxi perquisizione congiunta di polizia, carabinieri e guardia di finanza durata oltre sette ore. In parallelo, nuovi accertamenti giudiziari sono stati avviati per le rivolte avvenute il 4 giugno e il 5 luglio, con ipotesi di reato che vanno dalla rivolta e resistenza a pubblico ufficiale fino a lesioni, minacce e danneggiamenti.

Violenza sessuale e torture tra detenuti

Gli inquirenti parlano di un carcere “fuori controllo”, in cui si registrano anche episodi agghiaccianti di violenza sessuale. Due in particolare hanno colpito per la loro brutalità:

  • Settembre 2023: un detenuto brasiliano di 32 anni è accusato di aver ripetutamente violentato il compagno di cella, un pachistano, minacciandolo con un rasoio. È indagato per violenza sessuale aggravata.

  • Gennaio 2020: due detenuti di 36 e 47 anni avrebbero torturato e stuprato per giorni un tossicodipendente omosessuale al suo primo ingresso in carcere. La vittima è stata sottoposta a violenze indicibili, con lacerazioni anali, fratture e gravi traumi psicologici. I due sono oggi imputati in un processo in corso.

Agenti corrotti e cellulari in cella

Le indagini della procura puntano anche su una rete di complicità interna alla polizia penitenziaria, accusata di collusione con alcuni detenuti. Il dato allarmante: 41 telefoni cellulari, tre SIM e un router sequestrati in un solo anno. Ma secondo gli investigatori, il numero reale è molto più alto. I dispositivi entrerebbero in carcere grazie alla libertà di movimento dei detenuti in permesso e alla compiacenza di alcuni agenti.

Tra i casi più eclatanti, quello di un detenuto dell’Alta Sicurezza che ha pubblicato su TikTok foto della sua cella, ottenendo centinaia di commenti. Altri reclusi avrebbero continuato a comunicare con l’esterno anche dopo sequestri e perquisizioni, utilizzando nuovi telefoni introdotti subito dopo i controlli.

Le rivolte del 4 giugno e del 5 luglio

A rendere il clima ancora più esplosivo, due sommosse scoppiate nel giro di un mese:

  • 4 giugno: cinque detenuti italiani, libici e marocchini hanno minacciato gli agenti con armi rudimentali, urlando frasi come “Stasera si fa la guerra” e “Si muore solo una volta, o noi o voi”.

  • 5 luglio: una decina di detenuti si è barricata nella sezione di Media Sicurezza. Hanno cercato di dare fuoco a materassi e materiali, sfondando i cancelli con le brande, armati di cacciaviti e spranghe. L’intervento degli agenti antisommossa ha riportato la calma.

Un carcere fuori controllo

Il quadro delineato dalla procura è drammatico: una struttura penitenziaria allo sbando, dove l’illegalità si alimenta con la mancanza di controlli, l’omertà e la corruzione interna. “La situazione è fuori controllo, ma la risposta dello Stato sarà ferma e costante”, promettono gli inquirenti.

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