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Esteri

Xi incassa il terzo mandato e punta su Taiwan

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Xi Jinping ottiene il terzo mandato alla guida del Pcc, si rafforza circondandosi di “uomini lealisti” e punta con decisione su Taiwan, forzando le regole e nominando due generali quali vicepresidenti mirati nella Commissione militare centrale di cui è il commander-in-chief, rinnovato per altri 5 anni. Poco dopo mezzogiorno, Xi si è presentato nella Golden Hall al terzo piano della Grande del popolo su Piazza Tienanmen “per incontrare i giornalisti cinesi e stranieri” insieme al nuovo Comitato permanente del Politburo, come recitava l’invito. “Sono stato rieletto segretario generale del Comitato centrale e ora permettetemi di presentare i miei sei colleghi che sono stati eletti”, ha esordito nelle battute iniziali del suo discorso. A quel punto, i nomi dei “compagni”, come li definirà dopo uno per uno, sono scivolati in secondo piano perché l’inedito terzo mandato conferitogli è stata la prova della presa di potere assoluto. Xi ha 69 anni e avrebbe dovuto ritirarsi, secondo la regola non scritta del ‘7 su e 8 giù’ (‘Qi shang ba xia’), ma diventata consuetudine sul limite dei 67 anni per ricoprire cariche pubbliche. Li Qiang, il capo del partito di Shanghai autore di una disastrosa gestione dell’emergenza del Covid-19, è ora il numero due del Pcc, avviandosi a diventare premier a marzo 2023. La tradizione vuole che il governo sia affidato a chi è stato prima vicepremier. Ma nel suo caso, l’ostacolo è stato aggirato con una norma del 2021 che consente al Comitato permanente del Congresso nazionale del popolo, il ramo legislativo del parlamento, di nominarlo. Gli altri membri del Comitato permanente, il vertice del partito, sono: Zhao Leji e Wang Huning (n.3 e 4, gli altri uscenti confermati), Cai Qi (n.5 e segretario del partito di Pechino), Ding Xuexiang (n.6, capo di gabinetto di Xi e unico nato negli anni ’60) e Li Xi (n.7, segretario del Pcc del Guangdong destinato a guidare l’Anticorruzione). Tutti hanno tra i 60 e i 69 anni e rappresentano per tradizione le tre principali megalopoli e aree economiche e industriali della Cina (Shanghai, Pechino e il Guangdong), con il filo comune di essere lealtà assoluta al leader. Il nuovo Politburo, organo di 25 membri sotto il Comitato permanente, è tutto maschile: per la prima volta in 25 anni, non ci sono ‘compagne’ a farne parte. In quello precedente c’era la vicepremier Sun Chunlan, ritiratasi ora per limiti d’età (72 anni), diventata ‘lady Covid’ perché spedita a gestire sul campo le crisi legate alla pandemia. Tutti, inoltre, sono di etnia Han, quella maggioritaria nel Paese, sfiorando il 90% in base all’ultimo censimento del 2020. Ne fa parte il ministero degli Esteri Wang Yi, malgrado i 69 anni: sarà il capo della diplomazia del Pcc, dando continuità alla politica estera. Hu Chunhua, già nel Politburo uscente, non è stato invece confermato: 59 anni, è forse l’ultimo rappresentante di peso della Lega della gioventù comunista, di cui l’ex presidente Hu Jintao era un riferimento. Quanto al capitolo Taiwan, dopo l’iscrizione nella costituzione del partito della opposizione alla sua indipendenza, Xi ha nominato due vicepresidenti della Commissione militare centrale, affidandosi a un esperto di Taipei a rimarcare la priorità della riunificazione anche con la forza, se necessario. Secondo quanto riportato dai media statali, si tratta di He Weidong, ex comandante dell’Eastern Theatre Command dell’esercito cinese (retto dal 2019 fino a inizio 2022) che sovrintende le operazioni su Taiwan, l’isola che per Pechino è parte “inalienabile” del suo territorio. L’altro militare è il generale Zhang Youxia, promosso a primo vicepresidente a dispetto dei suoi 72 anni: è tra i pochi alti ufficiali militari con una vera esperienza di combattimento, avendo servito da comandante di compagnia nella guerra della Cina al Vietnam nel 1979. Si tratta di mosse che sembrerebbero in linea con i timori Usa sui piani aggressivi cinesi. “Sotto Xi, l’ideologia guida la politica più spesso che il contrario. Xi ha spinto la politica alla sinistra leninista, l’economia alla sinistra marxista e la politica estera alla destra nazionalista”, ha scritto su Foreign Policy, Kevin Rudd, ex premier australiano, sinologo e a capo dell’Asia Society Policy Institute di New York. “Il marxismo-leninismo serve ancora come sorgente ideologica di una visione del mondo che pone la Cina dalla parte giusta della storia e gli Stati Uniti in preda all’inevitabile declino capitalista. È probabile che Xi guiderà il Paese per il resto della sua vita”, ha osservato Rudd. Intanto, dopo le promesse di riforma e apertura, lo ‘Xi Terzo’ ha preso il via ufficialmente tra scenari incerti, a partire dall’economia, e con i complimenti del presidente russo Vladimir Putin e del leader nordcoreano KIm Jong-un.

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‘Strategia del tritacarne, i russi morti sono 50.000’

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Mentre il mondo guarda con apprensione al Medio Oriente e a un’eventuale escalation con l’Iran, l’Ucraina continua a essere uno spaventoso terreno di battaglia. Con Vladimir Putin disposto a perdere la vita di migliaia di soldati pur di avanzare la linea del fronte con quella che la Bbc definisce la “strategia del tritacarne”: mandare ondate di soldati senza sosta in prima linea per cercare di logorare le forze ucraine ed esporre la loro artiglieria. Con il risultato di aver superato finora “la soglia di 50.000 caduti”. Nelle ultime ore anche le forze di Kiev hanno colpito in profondità in Russia – fino a danneggiare una fabbrica di bombardieri Tupolev in Tatarstan, stando ai servizi speciali ucraini – e in Crimea, dove secondo media e blogger locali “circa 30 militari russi sono rimasti uccisi e 80 feriti in un attacco notturno all’aeroporto militare di Dzhankoy”, che avrebbe “distrutto un deposito di missili Zircon e S-300”.

In mattinata la rappresaglia di Mosca si è scagliata ancora una volta sui civili, con un triplo raid su Chernihiv, città nel nord dell’Ucraina, una delle più antiche del Paese: i missili russi hanno colpito palazzi residenziali vicino al centro, un ospedale e un istituto scolastico, causando almeno 17 morti, oltre 60 feriti – tra cui tre bambini – e un numero imprecisato di dispersi sotto le macerie dove per tutto il giorno hanno lavorato i servizi di emergenza.

La strage ha suscitato l’ira di Volodymyr Zelensky, impegnato a chiedere con insistenza agli alleati europei e americani di rafforzare la difesa aerea ucraina: “Questo non sarebbe successo se avessimo ricevuto abbastanza equipaggiamenti di difesa antiaerea e se le determinazione del mondo a resistere al terrore russo fosse stato sufficiente”, ha tuonato il presidente sui social, esprimendo sempre più rabbia e frustrazione, soprattutto all’indomani delle manovre occidentali sui cieli di Israele per difenderlo dall’Iran. Di questo passo, e con il morale delle truppe sempre più indebolito dalle “cupe previsioni” di guerra, il fronte ucraino potrebbe collassare “la prossima estate quando la Russia, con un maggior peso numerico e la disponibilità ad accettare enormi perdite, lancerà la sua prevista offensiva”, riferiscono diversi alti ufficiali di Kiev a Politico. Insomma, Mosca ha messo in conto di poter perdere un alto numero di militari anche con la cosiddetta “strategia del tritacarne”.

Strategia che, stando a un conteggio realizzato da Bbc Russia, dal gruppo di media indipendenti Mediazona e volontari – che hanno scovato i nomi dei caduti anche sulle tombe recenti nei cimiteri – avrebbe già portato il bilancio dei militari di Putin morti in Ucraina (esclusi i separatisti filorussi del Donbass) oltre la soglia dei 50.000, con un’accelerazione del 25% in più nel secondo anno di invasione. “Il bilancio complessivo è 8 volte superiore all’ammissione ufficiale di Mosca – sottolinea l’emittente britannica -. Ed è probabile che il numero sia molto più alto”.

Il portavoce del Cremlino Dmitry Peskov ha rivendicato il segreto di Stato sull'”operazione militare speciale”, come del resto nemmeno Kiev pubblicizza il numero dei suoi caduti: l’ultima cifra ufficiale risale a febbraio, quando Zelensky parlò di 31.000 soldati rimasti uccisi. Neppure stavolta Mosca ha confermato le notizie riportate dei trenta soldati russi che sarebbero morti nell’attacco alla base aerea in Crimea, che secondo i blogger russi di Rybar, vicino all’esercito del Cremlino, avrebbe centrato e danneggiato l’obiettivo con 12 missili Atacms forniti a Kiev dagli Stati Uniti. Il ministero della Difesa russo ha tuttavia smentito che droni dell’intelligence militare ucraina abbiano colpito la fabbrica di Tupolev nel Tatarstan, nell’est della Russia: al contrario ha precisato di aver “distrutto un drone ucraino, nella stessa area”, prima che potesse causare danni.

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Zelensky ai leader Ue, ‘ora dateci le difese aeree’

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Il tempo sta per esaurire. Anzi, per certi versi è già esaurito. I russi martellano le linee ucraine al fronte, le città, le centrali elettriche e Kiev ormai quasi non può che stare a guardare, perché i missili della contraerea sono esauriti. Volodymyr Zelensky è furioso, esasperato. Specialmente dopo aver assistito a quello che giudica un trattamento privilegiato per Israele. Il presidente ucraino ha sentito il segretario generale della Nato, Jens Stoltenberg, e ha chiesto “misure immediate per rafforzare la difesa aerea”. Messaggio che ha ribadito con forza rivolgendosi ai leader Ue riuniti a Bruxelles per un’ennesimo vertice di guerra, dedicato principalmente ad evitare che il Medio Oriente sprofondi nel caos.

Il senso d’urgenza – più volte evocato dai vertici delle istituzioni europee e dallo stesso Stoltenberg – c’è ma si fatica a tradurre le parole in fatti. La premier estone Kaja Kallas ha lanciato un accorato appello a quei Paesi, europei e non, che ancora hanno batterie anti-aeree nei loro magazzini a “inviarli in Ucraina quanto prima”, poiché “mettere la testa sotto la sabbia” non renderà più sicuro il continente europeo. “La nostra timida risposta in Ucraina non ha rafforzato solo la Russia, questi conflitti in giro per il mondo sono collegati da un filo: siamo come negli anni ’30”, ha avvertito. I leader Ue, stando alle bozze di conclusione del vertice, giudicate stabili, sottolineano “la necessità di dare urgentemente una difesa aerea all’Ucraina e di accelerare e intensificare la fornitura di tutta l’assistenza militare necessaria, comprese le munizioni di artiglieria e i missili” e invitano il Consiglio, in particolare nella prossima riunione (il jumbo difesa-esteri del 22 aprile in Lussemburgo) ad assicurare “il necessario follow-up”. Gli scambi tra le cancellerie sono febbrili.

L’alto rappresentante Josep Borrell – che presiede il jumbo – è in contatto con le controparti dei 27, il G7 di Capri sta studiando il dossier (il ministro degli Esteri ucraino Dmytro Kuleba è stato invitato, così come Stoltenberg) e, su richiesta di Kiev, venerdì si riunirà il Consiglio Nato-Ucraina al livello dei titolari della difesa. Temporeggiare non è più concesso. La Germania ha quindi scritto a decine di Paesi, inclusi gli Stati arabi del Golfo, che saranno in Lussemburgo per il consiglio di cooperazione, per chiedere più sistemi di difesa aerea per l’Ucraina. “Vi invitiamo a fare un inventario nei vostri arsenali e considerare cosa potrebbe essere trasferito, interi sistemi o parti di essi, in modo permanente o per un periodo limitato”, scrivono Annalena Baerbock e Boris Pistorius nella missiva. L’iniziativa, denominata ‘Immediate Action on Air Defence’, cercherà principalmente di procurare più sistemi americani Patriot poiché si sono dimostrati i più efficaci contro i missili balistici russi. Kiev, dal canto suo, la mappatura l’ha già fatta: la coalizione di Ramstein avrebbe a disposizione 100 batterie di Patriot (il grosso è in America) e l’Ucraina ne reclama per sé 7.

Un sacrificio giudicato minimo. Berlino ha risposto, promettendo una batteria in più. Ora toccherebbe a Washington, dove finalmente qualcosa si muove. I repubblicani hanno presentato al Congresso una proposta di legge che sbloccherebbe i 61 miliardi in aiuti militari per Kiev, impantanati da mesi di lotte intestine. Il voto si terrà sabato. Senza gli Usa è infatti ormai chiaro che la guerra potrebbe finire molto male: l’Ue si sta mobilitando per rafforzare il suo comparto bellico ma i tempi non combaciano con le esigenze dell’Ucraina. Come se il piatto non fosse già abbastanza ricco così, i leader Ue sul tavolo hanno le eventuali sanzioni all’Iran, il rapporto strategico con la Turchia e il sostegno da dare al Libano, sempre più in bilico a causa delle tensioni regionali.

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I conservatori di Plenkovic vincono in Croazia

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I conservatori del premier uscente Andrej Plenkovic, stando agli ultimi exit exit poll diffusi dalla tv pubblica, hanno vinto le elezioni parlamentari di oggi in Croazia, anche se forse con un margine più ridotto sul centrosinistra del presidente Zoran Milanovic, rispetto agli ultimi sondaggi della vigilia. Il voto odierno, che ha fatto registrare una affluenza alle urne molto alta, si è tenuto sullo sfondo del duro scontro politico e personale in atto da tempo tra il premier Plenkovic e il presidente Milanovic, protagonisti di una difficile coabitazione segnata da forte antipatia reciproca e da attacchi verbali incrociati, al limite dell’offesa.

In base ai dati degli exit poll, all’Unione democratica croata (Hdz), il partito conservatore guidato dal premier Plenkovic, sarebbero andati 59 seggi sul totale di 151 del Sabor, il parlamento unicamerale di Zagabria. Il Partito socialdemocratico (Sdp) sostenuto dal presidente Milanovic, avrebbe ottenuto 43 mandati, seguito al terzo posto dal Movimento patriottico (Dp, destra nazionalista) con 13 seggi.

La formazione Most (Ponte, destra sovranista) disporrebbe di 11 deputati, 10 seggi sarebbero andati ai Verdi di Mozemo (Possiamo) e 5 ai liberali di centro. L’ultimo dato sull’affluenza, relativo alle 16.30, poco meno di tre ore dalla chiusura dei seggi, indicava una partecipazione molto sostenuta del 50,6%, ben il 16% in più rispetto alle precedenti elezioni di quattro anni fa. In tarda serata, in attesa dei primi dati reali da parte della commissione elettorale, non erano giunte dichiarazioni da parte dei due leader rivali – il premier Plenkovic e il presidente Milanovic.

Ma l’atmosfera nei rispettivi quartier generali a Zagabria era di comune soddisfazione per il risultato delle urne, anche se il fronte conservatore appare favorito per la formazione di un nuovo governo, che sarebbe il terzo consecutivo guidato da Plenkovic. In campagna elettorale, e anche oggi al seggio elettorale, Plenkovic – sottolineando i successi dell’adesione della Croazia all’eurozona e a Schengen – ha promesso stabilità e continuità in tempi di profonde crisi internazionali, annunciando miglioramenti economici e sociali, salari minimi garantiti a circa mille euro, un ulteriore calo dell’inflazione e della disoccupazione, nuovi investimenti nelle grandi infrastrutture.

Nel campo opposto, il presidente Milanovic, candidatosi a sorpresa per la premiership pur mantenendo la carica di capo dello stato, cosa questa ritenuta incostituzionale da parte dei giudici, ha lanciato un appello dai toni populistici a votare per chiunque, a sinistra o a destra, ad eccezione dell’Hdz di Plenkovic. “Quando avete a che fare con dei ladri e dei corrotti che approfittano del loro potere, la reazione deve essere forte”, ha detto Milanovic, sottolineando di essere pronto a parlare e a negoziare con tutte le altre forze politiche, eccetto l’Hdz, pur di formare un nuovo governo che escluda Plenkovic e il suo entourage corrotto. In effetti la corruzione si è rivelato il tallone d’Achille del partito conservatore, con diversi ministri che sono stati costretti alle dimissioni per via di scandali e coinvolgimenti in vicende poco chiare.

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