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Economia

Vivendi scende in Tim, vende sul mercato oltre il 5%

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Non era un segreto che Vivendi, primo azionista di Tim, avesse deciso dismettere la quota del gruppo delle telecomunicazioni. Ora l’ha fatto concretamente, con la cessione di una partecipazione di oltre il 5%. L’ha fatto sul mercato, comunica la holding francese, e quindi non con una cessione a Poste o al fondo Cvc, come ipotizzato finora da diverse ricostruzioni. Sarà comunque sempre in tempo a intavolare trattative dirette, soprattutto ora che ha dimostrato concretamente di voler uscire. Per ora Vivendi ha sfruttato, come aveva anticipato, una finestra di mercato favorevole, con il titolo del gruppo guidato da Pietro Labriola (foto Imagoeconomica in evidenza), che recentemente ha raggiunto anche la quota dei tre euro. Nel dettaglio la holding francese ha ceduto sul mercato una quota dal valore ampiamente superiore ai 200 milioni ed è scesa al 18,37% (13,19% del capitale) delle azioni ordinarie e dei diritti di voto di Tim dalla precedente quota del 23,75%.

Lo ha reso noto un comunicato del gruppo francese emesso prima del week end a Borsa chiusa. In particolare martedì Vivendi era già scesa sotto la soglia del 20% delle azioni ordinarie e dei diritti di voto di Tim, arrivando al 19,32% (13,87% del capitale). Scendendo sotto questa soglia ha dovuto notificare alla Consob il movimento, per poi arrivare con ‘piccole’ vendite successive alla quota finale comunicata. “Tale superamento della soglia deriva dalle vendite di azioni sul mercato”, hanno voluto chiarire i francesi nella loro nota, ricordando anche che Vivendi “ha cessato di contabilizzare la propria partecipazione in Tim con il metodo del patrimonio netto a partire dal 31 dicembre 2022 e ha indicato in diverse occasioni l’intenzione di vendere la propria partecipazione in un contesto di buone condizioni finanziarie”.

Il 6 marzo il presidente di Vivendi Yannick Bollorè confermava agli analisti finanziari che il gruppo intendeva disimpegnarsi da Tim ma senza fretta, “quando potrà farlo a buone condizioni”, specificava. “L’intenzione è di vendere la nostra quota, questo è il piano. Abbiamo sentito diverse speculazioni ma quando potremo vendere a buone condizioni lo faremo: il nostro è un approccio molto pragmatico”, spiegava Yannick Bollorè. E così è stato, con gli analisti che ora potranno analizzare i dialoghi tra il gruppo Poste italiane, che non avrebbe partecipato con acquisti alla quota ora venduta da Vivendì ma che alcuni ipotizzano possa risalire dal suo quasi 10%, con l’obiettivo, secondo diverse ricostruzioni, di rimanere comunque sotto la soglia dell’obbligo di Opa.

Nella partita ci sarebbe poi anche il fondo britannico Cvc, da tempo interessato a entrare nel capitale nel gruppo delle telecomunicazioni. Il fondo potrebbe rilevare la quota di Vivendi in Tim, ma ovviamente vuole capire la posizione di Poste e del governo. Con l’obiettivo temporale che potrebbe essere l’assemblea di giugno, ma intanto si fanno i conti sui possibili colloqui diretti di Vivendi con gli interessati. Questa prima cessione di una quota Tim è comunque un passo importante per il gruppo francese, che potrebbe segnare l’inizio dell’uscita dall’Italia, dove comunque detiene ancora una partecipazione superiore al 20% di Mfe-Mediaset, dove è da tempo socio silente.

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Generali, i grandi fondi si schierano con Mediobanca: Donnet verso la riconferma

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A cinque giorni dall’assemblea che rinnoverà il consiglio di amministrazione di Generali, cominciano a delinearsi con chiarezza gli orientamenti dei grandi fondi istituzionali, che detengono circa il 30% del capitale della compagnia assicurativa. La prima mossa arriva dal fondo sovrano norvegese Norges Bank Investment Management, titolare dell’1,5% del capitale, che ha annunciato il proprio voto a favore della lista di maggioranza proposta da Mediobanca, lista che ricandida il ceo Philippe Donnet (foto Imagoeconomica in evidenza) e il presidente Andrea Sironi.

Una presa di posizione rilevante, seguita da altri fondi come Calpers, New York City Comptroller, State Board of Administration Florida e Calvert (gruppo Morgan Stanley), che pur con quote minori (insieme lo 0,2%) appoggeranno la stessa lista. A rafforzare l’asse con Mediobanca potrebbero esserci anche BlackRock e Vanguard (entrambe attorno al 3%) e Amundi (1%).

Il ruolo dei proxy advisor e i numeri del piano al 2027

Tutti i principali proxy advisor – da Iss a Glass Lewis, fino alla svizzera Ethos – si sono espressi a favore della lista Mediobanca, lodando la stabilità della governance e i risultati del triennio appena concluso: 6,5 miliardi distribuiti agli azionisti tra dividendi e buyback. Il piano al 2027 prevede 7 miliardi di dividendi e 1,5 miliardi di buyback aggiuntivi.

Resta da capire quale sarà la posizione di altri soci rilevanti come Crt (2%) ed Edizione (4,8%), mentre gli azionisti di minoranza Caltagirone (7%) e Delfin (9,8%) non sembrano puntare tutto sull’assemblea del 24 aprile, ma guardano più in là, alla possibile conclusione dell’ops di Mps su Mediobanca, da cui dipenderà il futuro assetto del Leone.

L’incognita Unicredit

Un’altra variabile cruciale sarà Unicredit, che detiene almeno il 5,29% di Generali. Dopo aver ricevuto dal governo il via libera – seppure condizionato – all’ops su Banco Bpm grazie ai poteri speciali (golden power), il ceo Andrea Orcelpotrebbe ora muoversi con maggiore libertà. La sua decisione sul voto potrebbe essere decisiva non solo per l’equilibrio del board, ma anche per eventuali intese industriali tra Unicredit e Generali nel campo della bancassurance e dell’asset management.

Uno sguardo al futuro

Oltre al rinnovo del consiglio, i soci potrebbero già influenzare le strategie industriali della compagnia. In particolare, l’assemblea potrebbe ostacolare il progetto di joint venture tra Generali e Bpce (proprietaria di Natixis) nell’asset management, su cui i soci critici nutrono perplessità.

In attesa del voto, una cosa è chiara: il mercato istituzionale si muove compatto verso la conferma dell’attuale management, segnalando fiducia nella continuità e nella strategia proposta da Donnet. Ma l’ultima parola spetterà all’assemblea del 24 aprile.


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Meloni porta la Zes Unica alla Casa Bianca: anche gli USA pronti a investire nel Mezzogiorno

Nel documento congiunto con Trump, l’apertura americana agli incentivi fiscali per il Sud. La Zes italiana conquista la scena internazionale.

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Anche gli Stati Uniti guardano con interesse alla Zes Unica italiana, la Zona Economica Speciale riservata al Mezzogiorno, e sono pronti a valutarne le opportunità di investimento. Lo si legge nel documento congiunto firmato a Washington dal presidente americano Donald Trump e dalla premier italiana Giorgia Meloni al termine del vertice bilaterale negli Stati Uniti.

«Gli Stati Uniti valuteranno le opportunità offerte dal contesto imprenditoriale italiano, anche attraverso gli incentivi concessi dalla nuova Zes Unica»: una frase che, nella sua semplicità, rappresenta una svolta clamorosa per l’attrattività del Mezzogiorno italiano e del sistema Paese nel suo complesso.

La Zes al centro del dialogo con Trump

Nel colloquio riservato con Trump, Meloni ha illustrato i vantaggi concreti della Zes Unica, attiva dal gennaio 2024 ma operativa a pieno ritmo dall’agosto scorso, con la nomina di Giosy Romano a coordinatore della Struttura di missione di Palazzo Chigi. I risultati parlano chiaro: 600 autorizzazioni per nuovi investimenti, 150 solo nel 2025, oltre 10 miliardi di euro mobilitati e 10mila nuovi posti di lavoro previsti, con meno della metà dell’importo coperta da crediti d’imposta.

Iter snellito e burocrazia ridotta

La Zes Unica consente autorizzazioni con un solo provvedimento, in meno di 34 giorni, contro i 34 iter autorizzativinormalmente richiesti. Una semplificazione che apre scenari prima impensabili per le multinazionali, in particolare per quelle americane. La novità ha già attirato l’interesse internazionale, dalla Fiera di Hannover agli incontri di Cannes e Praga, passando per le missioni economiche a Dubai e nei Balcani. Ma è la promozione diretta della premier a Washington ad aver segnato il vero punto di svolta.

Una nuova centralità per il Sud

Se i segnali americani si tradurranno in investimenti concreti, per il Sud si aprirà una fase decisiva. Non solo per rimuovere le fragilità strutturali ancora presenti, ma per valorizzare un’area che, da sola, rappresenterebbe la settima potenza economica europea. Il Mezzogiorno, oggi, è percepito sempre più come snodo strategico nel Mediterraneo, un mare che ha assunto centralità geopolitica nel nuovo equilibrio globale, spostando gli assi da Est-Ovest a Sud-Nord.

L’intuizione politica e il ruolo di Fitto

La Zes Unica nasce da un’intuizione politica lungimirante dell’allora ministro per il Sud Raffaele Fitto, che ha saputo interpretare una sfida con strumenti concreti. Con questa misura, l’Italia ha potuto rafforzare la propria posizione internazionale senza dover ricorrere a deroghe sugli aiuti di Stato in sede europea.

Ora anche gli USA riconoscono la Zes come strumento strategico, utile a consolidare l’alleanza transatlantica anche in chiave economica. Il Mezzogiorno italiano diventa così punto di contatto e leva di crescita nei rapporti tra Washington e Roma.

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Unicredit incassa via libera condizionato per Ops su Bpm

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Nel risiko bancario c’è grande fermento. Archiviata l’assemblea di Mps, con il via libera all’aumento di capitale per la scalata a Mediobanca, ecco che sulla scena torna l’offerta di Unicredit per conquistare Banco Bpm. La banca guidata da Andrea Orcel incassa dal governo il via libera condizionato all’operazione. In particolare i paletti riguarderebbero le sedi e il perimetro dell’eventuale cessione di sportelli, mentre sarebbero più sfumate le possibilità di un intervento anche sul personale e sugli equilibri della governance. Altro tema centrale, secondo indiscrezioni, sarebbe quello relativo alla presenza di Unicredit in Russia. In realtà la banca da quando è iniziata la guerra, con le relative sanzioni a Mosca, avrebbe già ridotto di molto le attività ma non sarebbe completamente uscita facendo anche ricorso alla Corte di Giustizia contro le sollecitazioni della Bce. Ora però la richiesta sarebbe quella di uscire dal Paese al più presto. In consiglio dei ministri, intanto, la delegazione di Forza Italia, secondo fonti del partito azzurro, ha fatto mettere a “verbale le grosse riserve sulla base giuridica della Golden power per l’ops di UniCredit su Bpm”.

Nel corso degli incontri tra i dirigenti di Unicredit e i tecnici del comitato di Palazzo Chigi era stato approfondito anche il tema della partecipazione del gruppo di Piazza Gae Aulenti nella tedesca Commerzbank. La banca guidata da Andrea Orcel ha una quota del 28%, il 18,5 in derivati, ed ha ottenuto l’autorizzazione dalla Bce a salire fino al 29,9%. Il tema di Commerzbank è stato affrontato per il timore che, in caso di una futura aggregazione, il cuore pulsante del gruppo possa spostarsi verso Berlino. Una circostanza che però è stata smentita più volte con forza dalla stessa Unicredit. L’acquisizione di Banco Bpm, inoltre, consentirebbe proprio di rafforzare la presenza in Italia del gruppo guidato da Orcel. Oltre al golden power Orcel deve fare i conti anche con la posizione, non troppo amichevole, di Credit Agricole, salita al 19,8% di Bpm con la conversione dei suoi derivati. Con la banca francese si aprirà sicuramente un confronto il cui esito potrebbe avere tra i punti di caduta il rinnovo dell’accordo di distribuzione che Amundi ha con Unicredit, in scadenza nel 2027. Intanto non cambia la tempistica dell’offerta pubblica di scambio che partirà il 28 aprile per concludersi il 23 giugno.

La settimana prossima, inoltre, è attesa anche la risposta di Bpm che ha già peraltro respinto le avance di Unicredit. L’offerta è soggetta a condizioni che consentirebbero alla banca guidata da Andrea Orcel di ritirarsi dall’operazione dopo che l’istituto di Giuseppe Castagna ha completato l’Opa su Anima, con il prezzo alzato a 7 euro e la rinuncia ai benefici patrimoniali del ‘Danish Compromise’. Ogni decisione finale sarà comunque possibile fino al 30 giugno. Nell’ambito di questo contesto arriva la decisione di S&P che ha alzato il rating di Unicredit da BBB a BBB+. L’agenzia di rating ha anche migliorato l’outlook a positivo, valutando la banca potenzialmente idonea a ricevere un rating superiore a quello sovrano. Ciò dipenderà anche dalla “configurazione finale della banca e dal suo bilancio in seguito all’esito delle potenziali transazioni con Banco Bpm e Commerzbank”, si evidenzia. Secondo l’agenzia, UniCredit ha accumulato “buffer per supportare gli obbligazionisti senior e ha un potenziale upside sul suo rating standalone, data la maggiore diversificazione geografica rispetto ai suoi concorrenti”. Per Unicredit e il mondo finanziario in generale si prospettano settimane cruciali. Il gruppo di Orcel è sotto la lente per la quota in Generali. La partecipazione del 5,2% ha il suo peso specifico in vista dell’assemblea del Leone a Trieste il prossimo 24 aprile con tre liste per il cda. A sfidarsi saranno Mediobanca, l’unica di maggioranza e che ricandida il tandem Donnet-Sironi, la lista di minoranza lunga di Caltagirone, contrario all’operazione Natixis, e poi i fondi. Sul rinnovo del Cda di Generali arrivano le indicazioni di voto rese note da Norges Bank, azionista del Leone con l’1,5% circa. Il fondo, in occasione dell’assemblea, voterà per la lista presentata da Mediobanca.

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