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Via libera di Israele alla tregua, durerà 42 giorni ma c’è un monito di Netanyahu

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Una lunghissima giornata di trattative e riunioni estenuanti si è conclusa solo all’una di notte tra venerdì e sabato con l’approvazione da parte del governo israeliano dell’accordo siglato a Doha sul cessate il fuoco a Gaza e il rilascio degli ostaggi. Dopo sette ore di discussioni, l’ufficio del primo ministro israeliano ha reso noto che il piano è stato votato ed entra in vigore domenica 19 gennaio. E ha concluso la nota augurando Shabbat Shalom, buon sabato. I media israeliani riferiscono che 24 ministri hanno votato a favore e otto contro. In precedenza aveva deciso positivamente anche il gabinetto di sicurezza, con i soli voti contrari dei due ministri di ultradestra Itamar Ben Gvir e Bezalel Smotrich, oltre a David Amsalem del Likud, lo stesso partito del premier.

L’unità governativa per gli ostaggi ha notificato alle famiglie interessate che i loro cari fanno parte dei 33 rapiti che dovrebbero essere liberati nella prima fase dell’accordo di cessate il fuoco, che durerà 42 giorni e inizierà domenica alle 16 ora locale (le 15 in Italia), dopo lo scattare della tregua alle 12.15 (le 11.15). Sulla lista ci sono donne, bambini, anziani e infermi: tutti i nomi sono stati resi pubblici. A Israele tuttavia Hamas non ha comunicato quanti dei 33 siano ancora vivi, anche se si stima che la maggior parte di questo gruppo lo sia. Gerusalemme, secondo l’accordo, riceverà un rapporto completo sullo stato di tutti coloro che sono sulla lista sette giorni dopo l’inizio del cessate il fuoco. L’ordine di rilascio non è ancora noto.

Le identità di coloro che sono destinati a tornare dovrebbero essere fornite 24 ore prima di ogni rilascio. Sabato Hamas comunicherà i nomi dei primi tre ostaggi che torneranno a casa. Il primo ministro Benyamin Netanyahu ha riferito durante la riunione di gabinetto che Israele “ha ricevuto garanzie inequivocabili da entrambi i presidenti Usa, sia Joe Biden che Donald Trump, che se i negoziati sulla fase due dell’accordo falliscono e Hamas non accetta le richieste di sicurezza, l’Idf tornerà a combattere intensamente a Gaza con il sostegno degli Stati Uniti”. Un monito e insieme una rassicurazione per l’ultradestra fortemente contraria all’accordo.

A dare una mano a Bibi, in questa partita sostanzialmente già decisa ma dal percorso accidentato, è intervenuto anche il ministro della Difesa Israel Katz con una decisione che ha suscitato una dura protesta da parte dello Shin Bet: l’annullamento di tutti gli ordini di detenzione amministrativa nei confronti dei coloni israeliani per via del “previsto rilascio di terroristi in Cisgiordania”, come parte dell’accordo di cessate il fuoco a Gaza.

Come ha reso noto lo stesso ufficio del ministro spiegando che la decisione intende “inviare un chiaro messaggio di sostegno e incoraggiamento al progetto di insediamento, che è in prima linea nella lotta contro il terrorismo palestinese. È meglio che le famiglie dei coloni ebrei siano felici piuttosto che quelle dei terroristi rilasciati”. Insomma, l’accordo si è fatto, ma senza tralasciare le richieste dei partiti religiosi e di destra. Tutto ciò comunque non è bastato a convincere Ben Gvir che, prima del voto, ha lanciato l’ultimo appello ai ministri affinché votassero contro l’intesa con Hamas dicendosi “terrorizzato” dal rilascio dei detenuti palestinesi in cambio di ostaggi: “Tutti sanno che questi terroristi cercheranno di uccidere di nuovo”.

Ma rassicurando l’amico Bibi: “Amo Netanyahu. Non rovesceremo questo governo e lo sosterremo dall’esterno”. Intanto, una copia dell’accordo trapelata sui media israeliani mostra che in cambio del rilascio di 33 rapiti nella prima fase del piano torneranno in libertà oltre 1.700 detenuti palestinesi: 700 terroristi, di cui 250-300 stanno scontando l’ergastolo; 1.000 cittadini di Gaza catturati dall’8 ottobre durante i combattimenti nella Striscia; e 47 prigionieri nuovamente arrestati dopo essere stati liberati nello scambio con il soldato Gilad Shalit (tenuto prigioniero per 5 anni e mezzo a Gaza) nel 2011. Dopo la riunione del gabinetto, il ministero della Giustizia ha pubblicato l’elenco dei detenuti palestinesi il cui rilascio è previsto nel primo round, alle 16 di domenica: sono 95, la maggior parte donne, e solo uno, con meno di 18 anni, condannato per omicidio. Dell’elenco fa parte anche la parlamentare e deputata palestinese Khalida Jarrar. Tutti sono stati arrestati dal 2020 in poi.

Oltre ai 33 che saranno rilasciati nella prima fase, altri 65 ostaggi sono ancora a Gaza, compresi i corpi di almeno 36 morti confermati dall’Idf. Con l’avanzare della prima fase, le parti terranno colloqui sulla seconda, che vedrebbe il rilascio di tutti i rapiti rimasti in cambio della fine della guerra e di accordi sul futuro e la ricostruzione di Gaza. Il presidente dell’Autorità palestinese Abu Mazen ha dichiarato che dopo l’attuazione dell’accordo “l’Anp si assumerà la piena responsabilità nella Striscia di Gaza. Il governo palestinese ha completato tutti i preparativi e le squadre di sicurezza sono pienamente preparate a svolgere qualsiasi compito”. Netanyahu finora si è sempre rifiutato di prendere in considerazione questa eventualità, nonostante la pressione degli Usa, e senza avanzare alternative. Di fatto ha insistito fortemente affinchè l’Idf resti sul corridoio Filadelfia, tra Egitto e Striscia, almeno fino al 50esimo giorno dell’accordo. Poi si vedrà.

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Netanyahu: piano Trump su Gaza ‘molto buono, idea nuova’

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Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu definisce il piano del presidente degli Stati Uniti Donald Trump di trasferire i palestinesi da Gaza ‘molto buono, la prima idea nuova da anni”. “Ha il potenziale per cambiare tutto a Gaza”, afferma Netanyahu in un’intervista rilasciata a Fox News prima del suo rientro da Washington. “Non è uno sfratto forzato, né una pulizia etnica. Tutti parlano di Gaza come di una prigione a cielo aperto, e allora perché tenere questa gente in prigione? I cittadini di Gaza potranno tornare nelle loro case dopo la ricostruzione, a patto che rinneghino il terrorismo”.

Il rientro dei palestinesi a Gaza era stato inizialmente escluso da Trump. Per Netanyahu, adesso “la sfida principale è dove mandare i cittadini di Gaza”. Ma è un “approccio nuovo e corretto… un approccio molto molto buono, nuovo”. Il presidente israeliano nega che l’inviato speciale degli Stati Uniti Steve Witkoff lo abbia “convinto” a entrare nell’accordo in corso per il rilascio degli ostaggi con Hamas: “Abbiamo avuto una conversazione molto franca, non solo amichevole. La realtà è che ho accettato questo accordo mesi fa, mentre Hamas lo ha rifiutato l’accordo”.

Netanyahu ricorda anche di aver apprezzato il “supporto iniziale” dell’amministrazione di Joe Biden all’inizio della guerra. Ma sottolinea anche che mentre aumentava la pressione internazionale su Biden per cambiare la sua posizione su Israele, la Casa Bianca ha chiesto di fermare le armi con l’ingresso a Rafah. Il premier ricorda anche che alcuni nel suo gabinetto volevano porre fine alla guerra a Gaza data l’opposizione degli Stati Uniti, ma lui si è opposto: “Se diventiamo uno stato vassallo, non sopravviveremo”.

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Morto Sam Nujoma, padre dell’indipendenza della Namibia

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E’ morto all’età di 95 anni Sam Nujoma, considerato il padre dell’indipendenza della Namibia nel 1990. Lo ha annunciato la presidenza del paese, che un tempo era controllata dal Sudafrica e che lo stesso Nujoma ha guidato fino al 2005. “Il nostro padre fondatore ha vissuto una vita lunga e illustre durante la quale ha servito eccezionalmente il popolo del suo amato paese”, ha affermato il presidente Nangolo Mbumba. A capo del Swapo, il movimento di liberazione da lui co-fondato nel 1960, Sam Nujoma ottenne l’indipendenza della Namibia dal Sudafrica nel 1990, che aveva sottratto il controllo del territorio alla Germania dopo la prima guerra mondiale.

In particolare Nujoma, giunto alla guida della nazione, si adoperò per unificare una popolazione di due milioni di abitanti, provenienti da una dozzina di gruppi etnici che l’apartheid aveva cercato di dividere. Barba in stile Fidel Castro, Nujoma lasciò il potere all’età di 75 anni nel 2005, nominando come suo successore un fedelissimo ma rimanendo sempre dietro le quinte. In una delle sue ultime apparizioni pubbliche, nel maggio 2022, all’età di 93 anni, si era mostrato con il pugno alzato e aveva invitato a continuare a impegnarsi “agli ideali panafricani”. Nel 2021 aveva respinto la proposta di risarcimento della Germania di oltre un miliardo di euro per il massacro di decine di migliaia di indigeni Herero e Nama, considerato il primo genocidio del XX secolo.

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Ucraina-Russia, il 2025 segnerà la fine della guerra? Tra speranze di pace e nuove minacce

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Il 2025 potrebbe essere l’anno della fine della guerra tra Russia e Ucraina, ma la situazione resta altamente incerta. Mentre emergono spiragli di dialogo, i combattimenti nelle regioni del Donbass e nella zona russa di Kursk proseguono con intensità.

Mosca ha annunciato la conquista della città mineraria di Toretsk, nel Donetsk, mentre Kiev ha rilanciato gli attacchi su Kursk e ha segnalato il ritorno delle truppe nordcoreane, precedentemente ritirate ma ora di nuovo presenti sul fronte.

Zelensky pronto al dialogo, ma prima vuole incontrare Trump

Il presidente ucraino Volodymyr Zelensky, in un’intervista alla Reuters, ha dichiarato di essere pronto a negoziare direttamente con Vladimir Putin, ma ha sottolineato che prima vuole coordinarsi con Donald Trump per affrontare “il nemico comune”.

Anche Trump ha lasciato intendere la possibilità di un dialogo con Putin, dichiarando di voler “vedere la fine della guerra” e lasciando aperta la possibilità di un incontro con Zelensky già “la prossima settimana”.

Da Mosca, invece, arrivano segnali contraddittori. Dopo aver ripetutamente dichiarato che Zelensky non è un interlocutore legittimo (poiché il suo mandato sarebbe tecnicamente scaduto nel maggio scorso), ora il Cremlino sembra più incline a valutare la possibilità di negoziati.

La battaglia per ingraziarsi Trump

Al momento, sia Kiev che Mosca sembrano più interessate a guadagnarsi il favore di Trump piuttosto che impegnarsi concretamente per fermare la guerra.

Zelensky ha accolto positivamente la richiesta dell’ex presidente americano di concedere agli Stati Uniti accesso privilegiato alle terre rare ucraine, risorse fondamentali per l’industria tecnologica e militare. “Saremmo felici di intensificare la cooperazione tra le nostre industrie minerarie”, ha dichiarato il leader ucraino.

Allo stesso tempo, Putin sta evitando critiche dirette a Trump e sembra intenzionato a sfruttare la sua presidenza per rompere il fronte occidentale, che sotto Biden ha sostenuto l’Ucraina in modo compatto.

Putin prepara 100.000 nuovi soldati per il fronte

Nonostante i discorsi sulla pace, l’intelligence ucraina riporta una preoccupante escalation militare da parte russa. Zelensky ha avvertito che Putin starebbe pianificando il dispiegamento di 100.000 nuovi soldati, ben equipaggiati e pronti a combattere per un lungo periodo.

Inoltre, l’Ucraina sostiene che la cooperazione militare tra Russia e Corea del Nord verrà rafforzata con nuove tecnologie belliche avanzate.

A conferma della criticità del momento, l’ammiraglio Giuseppe Cavo Dragone, presidente del Comitato Militare della NATO, ha effettuato una visita segreta a Kiev per raccogliere informazioni di prima mano sulla situazione al fronte.

L’Ucraina continua a chiedere aiuti militari

Zelensky continua a sollecitare il sostegno occidentale. Francia e Olanda hanno recentemente inviato caccia Mirage e F-16, mentre il leader ucraino ha chiesto agli alleati europei di incrementare le spese militari fino al 5% del PIL.

“La nostra guerra è la guerra dell’Europa. Se Putin dovesse vincere in Ucraina, l’intera stabilità del continente sarebbe a rischio”, ha ribadito Zelensky all’ammiraglio Dragone.

La pace è davvero vicina?

Se da una parte si intravedono spiragli diplomatici, dall’altra la realtà militare sul campo suggerisce che la guerra sia ancora lontana dalla fine.

Il 2025 potrebbe segnare una svolta decisiva, ma la vera fine del conflitto dipenderà dalle scelte politiche di Mosca, Kiev e delle potenze occidentali. Per ora, la possibilità di un cessate il fuoco sembra ancora un miraggio.

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