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Vento dell’Est: il nazionalismo a geometria variabile nelle elezioni ungheresi e serbe (ri)vinte da Orban e Vucic

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Credevamo di sapere cosa fosse il nazionalismo: un monolite ideologico fondato sul binomio inscalfibile “sangue e suolo”. Per dire una combinazione di “etnia” e “territorio” in base alla quale si costruivano le politiche, si stringevano le alleanze, si disegnava l’iconografia geopolitica dei diversi “Stati” rappresentati -ed autorappresentati- appunto come “Nazioni”. Si pensava, anche, che i nazionalismi, in forza di queste fondamenta concettuali comuni, si condensassero in entità statuali affini, portate all’intesa, convergenti nella realizzazione dei rispettivi obiettivi.

La crisi ucraina, la sua trasformazione in un conflitto armato da parte della Russia, hanno dimostrato che il nazionalismo non è la montagna granitica che si poteva pensare. Piuttosto, è un vasto sistema collinare argilloso, malleabile, che si adatta alle circostanze storiche e geografiche che si trova ad affrontare. 

Per vero, già lo scontro tra i due attori primari della crisi può essere letto in chiave di conflitto tra due nazionalismi: quello secolare della Russia, quello fattuale dell’Ucraina. Tuttavia, ciò non rappresenta altro che la manifestazione di una contraddizione che il nazionalismo, comunque declinato, si porta dentro: il modello ralazionale di questa dottrina non è cooperativo, ma oppositivo. Porre se stessi in cima alla piramide dei valori, considerare come sacrilega ogni concessione a un altro Stato che non solo attentasse, ma anche solo limitasse, i propri interessi, non può che portare a una pratica competitiva delle relazioni internazionali con tutti i rischi di controversie, e dunque di conflitto, che ciò può comportare.

Queste piccole considerazioni devono accompagnarci per intendere che tipo di vento è quello che soffia da Est, dai regimi democratici dell’Europa orientale, che fanno parte o vogliono divenire membri dell’Unione Europea. Ieri, domenica 3 Aprile, si sono svolte libere elezioni in Ungheria e in Serbia. La destra nazionalista ha trionfato, in entrambi i Paesi.

I legami tra i partiti sovranisti di Salvini e Orban. Migranti ed economia sono spesso argomenti di discussione tra Matteo Salvini e Viktor Orban

Viktor Orban (nella foto in evidenza con il leader della Lega Salvini), con oltre il 53% dei voti, porta al Parlamento di Budapest i 2/3 dei seggi che gli serviranno quando, come è presumibile, vorrà cambiare la Costituzione: e cioè in rapporto al bisogno politico, come è perfettamente legale in regime democratico. Qualcuno aveva pensato che la grande e eterogenea coalizione guidata da Peter Marki-Zay avrebbe tallonato il FIDESZ, o addirittura sarebbe riuscito a disarcionare Orban, al potere dal 2010. Niente di tutto ciò: l’opposizione ha raccolto uno scarso 35%. Il fatto è che l’invasione russa dell’Ucraina ha cambiato il paesaggio politico-elettorale. Dal 24 Febbraio, quindi nelle ultime settimane a ridosso delle elezioni, non si è più parlato dei problemi dell’Ungheria: le libertà civili, le riforme sociali, lo sviluppo economico, la corruzione, la cristallizzazione del potere orbaniano. Si è parlato invece dell’Ucraina. E, in primis, della necessità –difesa a spada tratta da Orban- di non farsi coinvolgere nella “guerra degli altri” come massimo “interesse della Nazione”, accanto ovviamente ai buoni affari con la Russia, comprese le fonti energetiche da cui l’intero sistema produttivo e insediativo ungherese dipende. Un nazionalismo sceglie dunque la consonanza –non troppo strombazzata ma sostantiva- con un altro nazionalismo, quello russo, per delle “buone” ragioni nazionalistiche. Poco importa se ciò avviene in completa rottura con la posizione dell’UE e, più ampiamente, occidentale. Anzi. “La nostra vittoria si vede dalla Luna…e quindi non sfuggirà certo a Bruxelles” ha detto il premier a Budapest, ricevendo prontamente le congratulazioni dei sovranisti più accreditati, da Matteo Salvini a Marine Le Pen. E poco importa se ciò spacca la compattezza del gruppo (nazionalista) di Visegrad, dove la Polonia (nazionalista) è fortemente schierata con l’Ucraina fino al limite del coinvolgimento militare, ponendosi risolutamente al fianco degli Stati Uniti e ricevendo la visita del Presidente Biden in occasione del suo recente viaggio in terra d’Europa.

Serbia. Aleksandar Vucic ha rivinto le elezioni

Un copione, quello ungherese, che si replica in buona misura in Serbia, dove il voto ha premiato ancora una volta il Presidente

Aleksandar Vucic con il 60% di consensi sulla sua persona. Mentre il suo Partito Progressista Serbo (centro destra), è accreditato –a scrutinio ancora in corso- del 44%. Vittorie schiaccianti. Anche qui, i temi su cui l’opposizione Moramo (Dobbiamo) era riuscita a focalizzare la campagna elettorale, vale a dire l’ecologia, l’educazione, l’equità fiscale, la salute, la corruzione, sono stati spazzati via dalla guerra ucraina. La gente a Belgrado sa con chi sta Kiev, ricorda bene le bombe della NATO del 1999. Vucic ha costruito un discorso molto abile. Per un verso, si è proposto come “difensore della Nazione serba”, a cui ha promesso “Pace e Stabilità”. Per altro verso, ha fatto leva su questa memoria anti-NATO, ma proponendo il suo atteggiamento sostanzialmente pro-russo nel quadro di una interessante dottrina evolutiva del nazionalismo. Il messaggio che il presidente è riuscito a far passate, obliterando tutto il resto, è l’autonomia politica della Serbia perseguita senza tradire le radici storico-culturali serbe. Conciliare, cioè, il “nazionalismo etnico” e il “nazionalismo civico”. Probabilmente un’anticipazione delle frontiere ideologiche su cui si giocheranno le partite sovraniste del prossimo decennio.

 

Angelo Turco, africanista, è uno studioso di teoria ed epistemologia della Geografia, professore emerito all’Università IULM di Milano, dove è stato Preside di Facoltà, Prorettore vicario e Presidente della Fondazione IULM.

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Il vice del ministro della Difesa russo Shoigu arrestato per tradimento

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E’ uno scandalo dai contorni oscuri quello che in queste ore scuote le forze armate russe nel pieno del conflitto in Ucraina, con Mosca impegnata in una sfida cruciale con il campo occidentale. Una Corte della capitale ha confermato l’arresto del vice ministro della Difesa Timur Ivanov, responsabile delle costruzioni e della manutenzione delle strutture militari. L’accusa di aver ricevuto una tangente appare tutto sommato lieve in un ambiente in cui la corruzione, secondo le denunce delle opposizioni, è diffusa. Normale dunque che qualcuno sollevi dubbi sui reali motivi di una simile iniziativa in un momento tanto delicato, al punto da arrivare a parlare di una accusa di tradimento. Il sito d’inchieste Vazhnye Istorii (‘Storie importanti’) afferma di avere saputo da due fonti dei servizi d’intelligence interni Fsb che la versione della corruzione è stata creata “solo per l’opinione pubblica”. “Nessuno lo avrebbe arrestato per questo”, ha affermato una delle fonti, secondo la quale al Cremlino i veri risvolti della vicenda erano “noti da molto tempo”.

Ivanov, insomma, sarebbe sospettato proprio di tradimento, ma le autorità avrebbero preferito non renderlo noto per non rischiare un danno d’immagine dalle conseguenze imprevedibili. L’avvocato del vice ministro, Murad Musayev, ha recisamente smentito e il portavoce del Cremlino ha parlato di pure “speculazioni”. “Ci sono un sacco di voci differenti su questa faccenda, ma ovviamente dobbiamo affidarci alle informazioni delle autorità investigative e alla fine, ovviamente, alla decisione dei giudici”, è stato l’invito di Dmitry Peskov. La Corte del distretto di Basmanny che ha confermato l’arresto per Ivanov e per un imprenditore suo amico, Serghei Borodin, ha disposto che i due rimangano in custodia cautelare almeno fino al 23 giugno.

Il vice ministro è stato già trasferito nel carcere di Lefortovo. Per l’accusa di corruzione Ivanov, che si è presentato in aula indossando la divisa militare e proclamandosi innocente, rischia fino a 15 anni di reclusione. L’avvocato Musayev, preannunciando che presenterà ricorso per chiederne il rilascio, sostiene che non si parla di denaro, bensì di lavori gratuiti realizzati da aziende edili nelle proprietà immobiliari del vice ministro in cambio di favori. Ivanov, che ha 48 anni e ricopre l’incarico dal 2016, era stato tra l’altro tirato in ballo nel 2022 in un’inchiesta della Fondazione anticorruzione dell’oppositore Alexei Navalny. Sul fronte del conflitto ucraino si registra intanto una importante novità. Per la prima volta in oltre due anni una delegazione russa e una ucraina hanno avuto un incontro faccia a faccia in Qatar, dove hanno concordato lo scambio di 48 bambini, 29 che torneranno in Ucraina e 19 in Russia.

Ad annunciarlo è stata Maria Llova-Belova, la commissaria russa per i diritti dell’infanzia. Mosca ha sempre respinto le accuse di avere deportato minori ucraini contro il volere dei familiari, un’accusa che è costata alla stessa Llova-Belova e al presidente Vladimir Putin un ordine di arresto della Corte penale internazionale. Il sito dell’opposizione Meduza ha intanto denunciato che il Patriarca Kirill, capo della Chiesa ortodossa russa e sostenitore delle politiche di Putin, ha imposto una sospensione di tre anni a un sacerdote che ha tenuto una funzione commemorativa sulla tomba di Alexei Navalny alla fine di marzo, 40 giorni dopo la morte. Il religioso è Dmitri Safronov, chierico della chiesa dell’Intercessione della Santa Vergine sulla collina di Lyschikova a Mosca. Meduza precisa che nell’ordine del Patriarca non sono spiegate ufficialmente le motivazioni della decisione.

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Sanzioni e TikTok, Blinken in Cina tra le tensioni

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Antony Blinken, il capo della diplomazia del presidente americano Joe Biden, è atterrato a Shanghai, la prima tappa della delicata missione di tre giorni in Cina, con l’obiettivo principale di avvertire Pechino che l’assistenza alla produzione militare russa porterà a inevitabili sanzioni, dopo i ripetuti moniti caduti nel nulla. Il suo viaggio arriva mentre Washington accelera sui dazi (Biden li vuole triplicare su acciaio e alluminio) a tutela della sua industria dai rivali mandarini, e la Cina è sempre più preoccupata dalla pericolosa traiettoria dei rapporti bilaterali. Blinken è arrivato nel Dragone con il potente carico del maxi-pacchetto di aiuti militari da 95 miliardi di dollari destinati a Ucraina, Israele e Taiwan, la prima linea rossa delle relazioni. E con la legge di cessione della popolare app TikTok dalla società madre cinese ByteDance, pena il bando dal mercato Usa in cui conta 127 milioni di utenti: nove mesi di tempo per la vendita, più l’estensione per altri tre, a mettere l’operazione al riparo dalle presidenziali Usa di novembre.

“State tranquilli: non andremo da nessuna parte… i fatti e la Costituzione sono dalla nostra parte e ci aspettiamo di vincere ancora”, ha rilanciato la sua sfida il ceo di TikTok, Shou Zi Chew. La app, per altro verso, è la fortuna del miliardario Jeff Yass, il primo donatore repubblicano di questo ciclo elettorale con oltre 46 milioni di dollari, ha riferito il Financial Times. Il Susquehanna International Group di Yass ha investito per la prima volta 80.000 dollari in ByteDance sulla base di un’idea abbozzata su un tovagliolo in un bar di Pechino più di dieci anni fa: adesso possiede circa il 15% di ByteDance che vale 40 miliardi di dollari. Sulla sicurezza, i timori di Pechino – messi nero su bianco martedì in un inedito articolo del Dipartimento per gli Affari nordamericani del ministero degli Esteri – sono lo spiegamento Usa di sistemi missilistici a medio raggio nelle Filippine e l’Aukus, l’accordo sulla sicurezza Usa-Gb-Australia. E poi i legami rafforzati mai come prima dagli Usa con Tokyo, Seul e Manila. Vista da Pechino, la percezione è quella di “un doppio accerchiamento: militare e commerciale, perché la mossa inattesa è l’apertura plateale dello scontro commerciale con l’Europa”, ha commentato una fonte diplomatica europea nella capitale cinese. L’avvio dell’indagine di Bruxelles sui dispositivi medici made in China è la prima nell’ambito degli appalti internazionali dell’Ue, dopo quelle avviate sugli aiuti di Stato per pannelli solari, auto elettriche e turbine eoliche.

A dispetto dell’obiezione alla sovraccapacità produttiva cinese opposta data pochi giorni fa a Pechino da Xi al cancelliere tedesco Olaf Scholz, secondo cui l’export mandarino di veicoli elettrici, batterie al litio e pannelli fotovoltaici “ha arricchito l’offerta e alleviato la pressione inflazionistica globale”. Ma l’Europa ha riservato altre sorprese: arresti e indagini per spionaggio pro-Cina in Germania, Belgio e Gran Bretagna. Non è chiaro se Blinken vedrà Xi come a giugno del 2023, ma il portavoce del Dipartimento di Stato Matthew Miller ha detto alla vigilia della partenza che i temi in agenda includono “la crisi in Medio Oriente, la guerra russa all’Ucraina, i dossier delle due sponde dello Stretto di Taiwan e il mar Cinese meridionale”. All’inizio di aprile il vice segretario di Stato Kurt Campbell ha detto in un seminario del Center for a New American Security che gli Usa hanno valutato che la Russia si è “quasi del tutto ricostituita militarmente” con il sostegno di Pechino, che ha respinto ogni addebito. La visita di Blinken arriva prima dell’insediamento del 20 maggio del presidente eletto di Taiwan WIlliam Lai (un “piantagrane” pro-indipendenza, secondo Pechino) e gli Usa si aspettano che le parti “evitino provocazioni e l’aumento delle tensioni”. Secondo gli osservatori, la direzione delle relazioni Usa-Cina si muove solo nella direzione negativa. Ciò che può essere controllato è la velocità dei cambiamenti politici e il compito di Blinken è garantire che questo accada senza troppi strappi per evitare che deragli l’intero rapporto riallacciato con fatica. Insomma, un sentiero strettissimo.

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Zelensky ringrazia il Senato americano: un aiuto vitale

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Il presidente ucraino Volodymyr Zelensky ha ringraziato il Senato americano per aver approvato 61 miliardi di dollari in aiuti militari ed economici al suo Paese. “Sono grato al Senato degli Stati Uniti per aver approvato un aiuto vitale per l’Ucraina”, ha scritto Zelensky sui social media poco dopo l’ok al massiccio pacchetto di aiuti per Kiev.

“Ringrazio il leader della maggioranza Chuck Schumer e il leader repubblicano Mitch McConnell per la loro forte leadership nel portare avanti questa legislazione bipartisan, così come tutti i senatori degli Stati Uniti su entrambi i lati della navata che hanno votato a favore”, ha continuato il presidente ucraino. “Apprezzo ugualmente il sostegno del presidente Biden e non vedo l’ora che il disegno di legge venga firmato presto e che il prossimo pacchetto di aiuti militari corrisponda alla risolutezza che vedo sempre nei nostri negoziati”, ha aggiunto Zelensky. “Le capacità a lungo raggio, l’artiglieria e la difesa aerea dell’Ucraina sono strumenti fondamentali per ripristinare prima la pace giusta”, secondo il presidente. Gli Stati Uniti sono stati il principale sostenitore militare di Kiev nella sua guerra contro la Russia, ma il nuovo pacchetto di aiuti che include forniture militari vitali era rimasto bloccato per mesi al Congresso americano. L’esercito ucraino si trova ad affrontare una grave carenza di armi e di nuove reclute, mentre Mosca esercita una pressione costante da est.

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