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Unicef, 15 milioni di bambini segnati dalla guerra in Yemen

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”Il costo di circa quattro anni del recente conflitto in Yemen è sconvolgente: oltre 2.700 bambini reclutati per combattere una guerra degli adulti, oltre 6.700 bambini morti o gravemente feriti verificati, circa 1,5 milioni di bambini sfollati, molti dei quali vivono una vita che è una mera ombra di ciò che dovrebbe essere un’infanzia”. La denuncia è di Geert Cappelaere, direttore regionale dell’Unicef per il Medioriente e il Nord Africa. ”In Yemen oggi 7 milioni di bambini vanno a dormire affamati ogni notte. Ogni singolo giorno 400mila bambini affrontano una malnutrizione acuta grave che minaccia le loro vite e potrebbero morire in ogni minuto. Oltre 2 milioni di bambini non vanno a scuola e coloro che ci vanno spesso devono accontentarsi di un’istruzione di bassa qualità in classi sovraffollate”, ha spiegato. Cappelaere ha quindi affermato che ”le condizioni di vita di milioni di bambini in Yemen sono vergognose. Non ci sono scuse per giustificare questa triste realtà nel 21esimo secolo. Conflitti, forti crisi economiche e decenni di sottosviluppo non hanno risparmiato un singolo bambino o bambina in Yemen. Le sofferenze dei bambini sono tutte opera dell’uomo. Solo quando si entra direttamente in contatto con i bambini si realizza quanto sono numerose e profonde le loro cicatrici. Dietro ai numeri, ci sono bambini con nomi, volti, famiglie, amici, storie, sogni infranti e vite spezzate. Il direttore regionale dell’Unicef racconta poi la storia di ”Zakaria, un bambino di 12 anni che ho incontrato in un centro di riabilitazione, stava pascolando le sue capre quando ha calpestato una mina ed è rimasto mutilato a vita. Si chiedeva se avrebbe mai rivisto la sua capra preferita”. E quella di ”Alia, di 9 anni, stava dormendo quando la sua casa è stata attaccata. Si è svegliata in un ospedale senza gambe. Alia sogna di diventare un dottore”. Cappelaere si chiede poi se ”questi numeri – e le storie dietro di loro – contano davvero? Avrebbero dovuto sconvolgere il mondo tanto tempo fa e portare a un’azione. La guerra e la crisi economica attuale stanno rendendo una situazione già difficile molto mollo peggiore. Gli interessi dei bambini dello Yemen non sono stati praticamente presi in considerazione nelle decisioni per decenni”. Inoltre ”oggi quasi ogni singolo bambino in Yemen dipende dall’assistenza umanitaria per sopravvivere. Il supporto dell’Unicef e di altri partner umanitari sta letteralmente salvando vite e dando ai bambini un barlume di speranza”.

L’Unicef sta incrementando la sua risposta, fornendo supporto terapeutico ai bambini malnutriti, aumentando il numero di centri di cura e formando gli operatori sanitari delle comunità a identificare i primi stadi della malnutrizione e orientare i bambini verso le cure di cui hanno urgentemente bisogno. Continuano gli sforzi incessanti per prevenire che i bambini si ammalino, fra cui una campagna di vaccinazione contro la poliomielite in corso, che ha raggiunto finora più di quattro milioni di bambini. Lo Yemen oggi è la più ampia operazione umanitaria nel mondo per l’Unicef, si spiega in un comunicato, precisando che l’organizzazione ha lanciato un appello di oltre mezzo miliardo di dollari per il 2019. Ma l’assistenza umanitaria da sola non è la soluzione a questa crisi enorme creata dall’uomo, ha dichiarato Cappelaere, secondo il quale ”l’unica via per uscire da questo subbuglio è attraverso una soluzione politica e reinvestimenti massicci nello Yemen, che abbiano al centro i bambini”. L’Unicef ha quindi riconosciuto ”gli immensi sforzi dell’inviato speciale delle Nazioni Unite Martin Griffiths. Chiediamo alle parti che si incontreranno in Svezia e a coloro che esercitano influenza sulle stesse a rendere prioritari, per una volta, i bambini e i loro bisogni rispetto a ogni altra agenda politica, militare o finanziaria. Il futuro dei bambini dello Yemen è nelle loro mani. Non deludiamoli di nuovo!”.

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Qatargate, Panzeri libero ma non può lasciare il Belgio

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Il memorandum da pentito firmato a gennaio parlava chiaro: un solo anno di reclusione in cambio delle sue confessioni. Nove mesi più tardi – quasi dieci dallo scoppio del presunto scandalo di corruzione -, Pier Antonio Panzeri, ritenuto il deus ex machina del Qatargate, è tornato libero prima del previsto grazie alla sua “buona condotta” e alla valutazione della giustizia belga che “non considera più necessaria la sua detenzione”. E, a prescindere dalla piega che prenderanno le indagini preliminari ancora in corso e l’eventuale processo, la sua pena si è così esaurita. Alle sole condizioni di continuare a collaborare con la giustizia, non lasciare – almeno per ora – il Belgio, e non entrare in contatto con gli altri indagati.

La loro sorte resta al contrario incerta, legata a doppio filo alle parole rese agli inquirenti dallo stesso ex eurodeputato e agli esiti del maxi-riesame dell’inchiesta, chiesto dall’ex vicepresidente del Parlamento europeo, Eva Kaili, e destinato a chiudersi solo nel giugno 2024, oltre la data delle elezioni europee. Decretando i rinvii a giudizio dei sospettati o l’archiviazione dell’intera inchiesta. Era il 17 gennaio quando il politico di Pd prima e Articolo 1 poi, finito in carcere il 9 dicembre scorso, strinse un inatteso accordo con l’allora giudice istruttore Michel Claise, costretto a giugno altrettanto a sorpresa a lasciare la guida del caso alla nuova giudice Aurélie Dejaiffe per un potenziale conflitto d’interessi tra suo figlio e quello dell’eurodeputata Maria Arena – molto vicina a Panzeri e più volte accostata al caso senza mai essere stata indagata – co-azionisti di una società di cannabis legale.

Sotto il peso di 600mila euro in contanti ritrovati nella sua abitazione e delle accuse di corruzione attiva e passiva, riciclaggio e partecipazione a organizzazione criminale in qualità di capogruppo, nella sua nuova veste di gola profonda l’ex eurodeputato si è impegnato a “rendere dichiarazioni sostanziali, rivelatrici, veritiere e complete” alla magistratura sulle operazioni architettate, gli accordi stretti con Qatar, Marocco e Mauritania e il coinvolgimento di altre persone. Un’intesa che ha trascinato nella rete della magistratura belga i due eurodeputati in carica Andrea Cozzolino e Marc Tarabella, entrambi arrestati il 10 febbraio e rilasciati tra aprile e giugno. E che, in cambio delle sue confessioni, ha permesso all’ex sindacalista di ottenere la pena mite di un anno di reclusione, una multa da 80mila euro e la confisca dei beni acquisiti nel corso dell’indagine, stimati in un milione di euro. A nove mesi da quel giorno – quattro dei quali trascorsi nel malandato carcere di Saint-Gilles e cinque ai domiciliari – ora Panzeri è tornato libero su disposizione della Camera di consiglio del tribunale di Bruxelles. Una decisione accolta senza obiezioni dalla procura federale, secondo la quale “nel sistema penale belga la liberazione anticipata è una pratica frequente, resa possibile per esempio da motivi di buona condotta”.

E che, nella visione del suo legale, Laurent Kennes, “è del tutto normale, dal momento che tutti gli indagati coinvolti nel caso sono da tempo liberi e che lui è un collaboratore di giustizia”. Una collaborazione da mesi contestata con forza da Marc Tarabella ed Eva Kaili, secondo i quali le parole del pentito Panzeri sono “inattendibili” e lo stesso memorandum è “privo di validità” perché firmato dopo le pressioni esercitate, è la loro accusa, dall’ex giudice Claise per ottenere in cambio la liberazione della moglie, Maria Colleoni, e della figlia, Silvia, fermate in Italia. Gli indagati, è la replica della difesa di Panzeri, hanno “interesse” ad attaccare l’ex eurodeputato ma “il memorandum è ancora valido” e il politico “continuerà a collaborare con la giustizia”. Chiamata, dal canto suo, a fare luce nella cornice del riesame delle indagini anche sul secondo accordo da pentito della storia del Paese.

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Svolta nel cold case del rapper Tupac Shakur, un arresto

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C’è una svolta nel cold case più celebre della storia dell’hip hop: 27 anni dopo l’omicidio del rapper Tupac Shakur la polizia di Las Vegas ha arrestato un uomo con l’accusa di aver ucciso il cantante il 6 settembre 1996. Tupac è morto sei giorni dopo all’ospedale, in seguito ai colpi ricevuti. Aveva 25 anni ed era al culmine del successo. Duane “Keffe D” Davis, di 60 anni, è stato arrestato mentre passeggiava vicino a casa. Uno dei pubblici ministeri che lavorano sul caso, Marc DiGiacomo, ha dichiarato che la procura aspettava “da diversi mesi” che il giudice spiccasse il mandato d’arresto.

Secondo DiGiacomo, Davis è stato il “basista” presente sul posto della sparatoria e anche colui che “ha ordinato la morte” di Shakur. Il 6 settembre del 1996 Tupac era a las Vegas per assistere a un incontro di pugilato tra Mike Tyson e Bruce Seldon. Attorno alle 23, il gruppo che lo accompagnava salì su una decina di macchine con l’intenzione di raggiungere una discoteca. Il cantante era a bordo di una Bmw nera guidata da Marion ‘Suge’ Knight, proprietario della Death Row Records, l’etichetta discografica di Los Angeles punto di riferimento per l’hip hop della West Coast nella faida di quegli anni con la East Coast. Mentre erano fermi a un semaforo, una Cadillac bianca si accostò all’auto su cui viaggiava Tupac e qualcuno dall’interno cominciò a sparare, colpendolo con quattro proiettili.

Davis è l’unico testimone dei fatti ancora vivo. Lui stesso ha ammesso che era a bordo della Cadillac nel suo libro di memorie del 2019, “Compton Street Legend”, che di fatto ha riaperto il caso. Davis ha detto che era seduto davanti e di aver fatto scivolare una pistola sul sedile posteriore, da dove partirono i colpi. Lì era seduto suo nipote Orlando Anderson, noto rivale di Shakur, con cui si era azzuffato poco prima a un casinò. Anderson è poi stato ucciso nel 1998 e nessuno è mai arrestato per l’omicidio di Tupac fino ad oggi. Secondo DiGiacomo è stato Davis ad avere l’idea di vendicarsi dopo la rissa. Il giudice ha negato la cauzione all’arrestato. “Si dice spesso che la giustizia ritardata è giustizia negata – ha detto all’Associated Press il pm Steve Wolfson -. In questo caso, la giustizia è stata ritardata, ma non verrà negata”.

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Allerta Usa: la Serbia ammassa truppe ai confini del Kosovo

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Gli Stati Uniti lanciano l’allerta: la Serbia sta ammassando truppe al confine con il Kosovo, teatro di sanguinosi scontri nello scorso weekend. Washington ha chiesto a Belgrado di “ritirarle immediatamente”, mentre la Nato ha dato il via libera al dispiegamento di nuove forze nel nord della repubblica kosovara “per poter continuare a garantire un ambiente sicuro a tutte le persone che ci vivono”. Il portavoce della del Consiglio per la sicurezza nazionale americana, John Kirby, ha infatti reso noto che Washington “vede un importante dispiegamento militare serbo lungo il confine”, compresa – ha precisato – l’istallazione “senza precedenti” di artiglieria, carri armati e unità di fanteria.

Nel briefing, Kirby non ha voluto evocare il rischio di un’eventuale invasione serba nella sua ex provincia – che Belgrado non riconosce come indipendente – dove da giorni si sono riaccese tensioni mai veramente sopite. Tensioni che sono sfociate, appena una settimana fa a Banjska, in violenti scontri tra serbi e polizia locale, terminati con la morte di un agente kosovaro e tre assalitori. In questo quadro, la Nato ha disposto l’invio di “ulteriori forze” della Kfor, la missione dell’Alleanza atlantica in Kosovo, “per far fronte alla situazione attuale” dopo aver già rafforzato la sua presenza lo scorso maggio.

La Kfor, ha poi precisato un funzionario, “sta aumentando la sua presenza e attività nel nord del Kosovo e nelle aree attorno alla linea del confine amministrativo (con la Serbia, ndr) per continuare a portare a termine il suo mandato di fornire un ambiente sicuro e protetto a tutte le persone che vivono in Kosovo”. A rimpolpare le file delle truppe Nato saranno, “se necessario”, militari britannici: il ministero della Difesa di Londra ha infatti messo a disposizione della Kfor un battaglione tra i 500 e i 650 soldati. In un colloquio con il presidente serbo Aleksandar Vucic, il segretario di Stato Usa Antony Blinken ha ribadito “la necessità immediata di allentare le tensioni con il Kosovo e di chiedere conto ai responsabili dei recenti attacchi violenti”. “Ho inoltre sottolineato l’importanza di attuare pienamente gli impegni assunti nell’ambito del dialogo facilitato dall’Ue”, ha scritto lo stesso Blinken su X. Dal canto suo il presidente serbo Vucic ha smentito di aver firmato l’ordine di “più alto livello di preparazione al combattimento”, assicurando che, nella zona a ridosso del confine con il Kosovo, Belgrado “non ha nemmeno la metà delle truppe che aveva due o tre mesi fa”.

 

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