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Ambiente

Una foresta grande come la Campania è sparita in Amazzonia nel giro di un anno

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Puntuale a Novembre, come il primo raffreddore dell’inverno, ecco il Rapporto dell’INPE (Instituto Nacional de Pesquisas Espaciais) sulla deforestazione amazzonica. Un documento breve e micidiale. Ci dice che sono spariti in un anno, dalla faccia della Terra, oltre 13.000 kmq di foresta: come se in una regione grande come la Campania, ripeto da un anno all’altro, non ci fosse più un albero, più un arbusto, più una liana che con l’albero formano l’ecosistema equatoriale e subequatoriale amazzonico. E attenzione! Stiamo parlando solo di quella che i brasiliani chiamano l’Amazzonia Legale Brasiliana (ALB), facente unicamente parte, cioè, del Brasile ed equivalente all’incirca al 60% dell’intera regione.

In trent’anni non ce n’è uno in cui la foresta dell’ALB non sia regredita. Quando Lula prese il potere, viaggiavamo a oltre 25.000 Kmq di desmatamento annuo. Col nuovo corso, le cose sono andate meglio, salvo riprendere l’ascesa nel 2015. Con l’accesso di Jair Bolsonaro al Palazzo del Planalto, nel 2019, si registra un triennio di deforestazione sempre superiore ai 10.000 Kmq. E in crescita.   

Jair Bolsonaro nuovo inquilino di Palazzo del Planalto. Con lui la deforestazione in Amazzonia è diventato un dramma senza più argini

Dei 9 Stati Brasiliani interessati, il più colpito –come già lo scorso anno- è il Parà, che paga un tributo del 40% alla distruzione annua. Nel Parà abbiamo fatto ricerche con studenti brasiliani e italiani su quella che mi permetterò di chiamare la “civiltà quilombola”. Quilombola deriva dal sostantivo “quilombo” che in Brasile indica, un po’ dovunque, un insediamento creato dagli schiavi in fuga dai loro padroni e dalle loro insostenibili situazioni, verso aree remote e difficilmente accessibili agli sgherri del modo di produzione schiavista. Noi eravamo sull’isola fluviale di Marajò, grande due volte la Sicilia, alla foce del Rio delle Amazzoni, tre ore di battello da Belem, la capitale, alla cui Università eravamo appoggiati. I fazendeiros, già una dozzina di anni fa, avevano ormai ampiamente espropriato e “desmatato” le terre quilombolas, quelle che servivano da base di vita ai fuggiaschi neri, restringendo i “quilombos” ai soli insediamenti, così ridotti a una grama sopravvivenza. 

Voglio dire con ciò che non sono solo gli alberi che scompaiono, non sono solo gli ecosistemi che vengono distrutti con il desmatamento. Evaporano, con il cinismo di un’ignoranza senza fondo, intere culture: quelle dei popoli indigeni, ma anche quelle dei fronti pionieri bianchi, che avevano saputo trovare un punto d’equilibrio con la foresta. E naturalmente quelle quilombolas. 

Sul waterfront del Rio delle Amazzoni a Belem, la sera, quando potevamo, andavamo a prendere il gelato nel chiosco detto dei “100 gusti”: tutti di frutti, odori, spezie, radici, cortecce, semi della foresta. Tutti. Al ristorante, mangiavamo carni che non saprei dire, con erbe e manioche e insetti grigliati che il cuoco veniva ad enumerarci, puntiglioso e fiero, con sughi e succhi e piccoli liquori “della casa”, di sapore irraccontabile.

Insomma, è per dire che se se ne va la foresta, se ne va tutto questo. E tutto questo è un pezzo di storia dell’uomo sulla terra. Ma come sappiamo, Bolsonaro è un negazionista seriale. Non solo è uno struzzo politico che chiude gli occhi di fronte al Covid 19, ma è un climatoscettico roccioso, votato all’agrobusiness e allo sfruttamento minerario intensivo dell’Amazzonia. Con buona pace per il polmone della Terra. Le sorti del Pianeta? Pas pour moi, per dire qualcosa di crudele in una lingua raffinata.     

Angelo Turco, africanista, è uno studioso di teoria ed epistemologia della Geografia, professore emerito all’Università IULM di Milano, dove è stato Preside di Facoltà, Prorettore vicario e Presidente della Fondazione IULM.

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Copernicus, marzo 2024 il mese più caldo mai registrato

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Il marzo del 2024 è stato il mese di marzo più caldo mai registrato. Lo rende noto il servizio meteo della Ue Copernicus. La temperatura media globale il mese scorso è stata di 14,4°C, superiore di 0,73°C rispetto alla media del trentennio 1991 – 2020 e di 0,10°C rispetto al precedente record di marzo, quello del 2016. Il mese inoltre è stato di 1,68°C più caldo della media di marzo del cinquantennio 1850 – 1900, periodo di riferimento dell’era pre-industriale. Secondo Copernicus, il marzo 2024 è il decimo mese di fila che si classifica come il più caldo mai registrato.

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Ecdc-Efsa, rischio diffusione dell’aviaria su larga scala

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Si alza il livello di attenzione sull’influenza aviaria da virus A/H5N1. Dopo tre anni che l’agente patogeno circola in maniera particolarmente sostenuta tra uccelli selvatici e di allevamento, infettando anche mammiferi ed espandendo la sua area di diffusione, da poco più di una settimana gli occhi sono puntati sugli Stati Uniti, dove si segnalano infezioni in allevamenti di mucche da latte. Al momento sono interessati una dozzina di allevamenti dislocati in cinque stati (Texas, Kansas, Michigan, New Mexico, Idaho). Il primo aprile, poi, i Centers for Disease Control and Prevention hanno diffuso la notizia che anche un uomo ha contratto l’infezione; le sue condizioni sono buone.

Ad oggi si ritiene che sia gli animali sia l’uomo abbiano contratto l’infezione attraverso il contatto con uccelli infetti. Secondo le autorità americane questi casi non cambiano il livello di rischio, che resta basso per la popolazione generale. Tuttavia, i segnali di allarme si moltiplicano. In un rapporto pubblicato mercoledì, l’European Centre for Disease Prevention and Control (Ecdc) e la European Food Safety Authority (Efsa), avvertono: “se i virus dell’influenza aviaria A/H5N1 acquisissero la capacità di diffondersi tra gli esseri umani, potrebbe verificarsi una trasmissione su larga scala”.

Fino a oggi, le infezioni nell’uomo sono poche (circa 900 dal 2003) e del tutto occasionali. Non ci sono prove di trasmissione tra mammiferi, né da uomo a uomo. Tuttavia, la congiuntura invita alla massima attenzione. In piena pandemia, nel 2020, è comparsa una nuova variante di virus A/H5N1 (denominata 2.3.4.4b) che in breve è diventata dominante. Da allora, sono aumentati il “numero di infezioni ed eventi di trasmissione tra diverse specie animali”, si legge nel rapporto. Questi continui passaggi tra animali e specie diverse aumentano le occasioni in cui il virus può mutare o acquisire porzioni di altri virus che lo rendano più adatto a infettare i mammiferi. In realtà A/H5N1 ha già compiuto dei passi in questa direzione.

Ha imparato a moltiplicarsi in maniera più efficace nelle cellule di mammifero e a sviare alcune componenti della risposta immunitaria. Ciò gli ha già consentito negli ultimi anni di colpire un’ampia gamma di mammiferi selvatici e anche animali da compagnia, come i gatti. Anche i fattori ambientali giocano a suo favore: i cambiamenti climatici e la distruzione degli habitat, influenzando le abitudini degli animali e intensificando gli incontri tra specie diversa, fanno crescere ulteriormente le probabilità che il virus vada incontro a modifiche.

Nonostante ciò, al momento non ci sono dati che indichino che A/H5N1 abbia acquisito una maggiore capacità di infettare l’uomo. Tuttavia, se questa trasformazione avvenisse saremmo particolarmente vulnerabili. “Gli anticorpi neutralizzanti contro i virus A/H5 sono rari nella popolazione umana, poiché l’H5 non è mai circolato negli esseri umani”, precisano le agenzie. Per ridurre i rischi Ecdc ed Efsa invitano ad alzare la guardia, rafforzando le misure di biosicurezza negli allevamenti, limitando l’esposizione al virus dei mammiferi, compreso l’uomo, e intensificando la sorveglianza e la condivisione dei da

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Da 20 anni aria più pulita in Europa, ma non basta

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Da 20 anni a questa parte si respira un’aria più pulita in Europa, ma nonostante ciò la maggior parte della popolazione vive in zone in cui le polveri sottili (PM2.5 e PM10) e il biossido di azoto (NO2) superano ancora i livelli di guardia indicati dall’Organizzazione Mondiale della Sanità: il Nord Italia, in particolare, è tra le regioni con le concentrazioni più alte. Lo dimostra uno studio pubblicato su Nature Communications dall’Istituto di Barcellona per la salute globale (ISGlobal) e dal Centro nazionale di supercalcolo di Barcellona (Bsc-Cns). I ricercatori hanno sviluppato dei modelli di apprendimento automatico per stimare le concentrazioni giornaliere dei principali inquinanti atmosferici tra il 2003 e il 2019 in oltre 1.400 regioni di 35 Paesi europei, abitate complessivamente da 543 milioni di persone. Per lo studio sono stati raccolti dati satellitari, dati atmosferici e climatici e le informazioni riguardanti l’utilizzo del suolo, per ottenere una fotografia più definita rispetto a quella offerta dalle sole stazioni di monitoraggio. I risultati rivelano che in 20 anni i livelli di inquinanti sono calati in gran parte d’Europa, soprattutto per quanto riguarda il PM10 (con un calo annuale del 2,72%), seguito da NO2 (-2,45%) e dal PM2.5 (-1,72%).

Le riduzioni più importanti di PM2.5 e PM10 sono state osservate nell’Europa centrale, mentre per NO2 sono state riscontrate nelle aree prevalentemente urbane dell’Europa occidentale. Nel periodo di studio, il PM2.5 e il PM10 sono risultati più alti nel Nord Italia e nell’Europa orientale. Livelli elevati di NO2 sono stati osservati nel Nord Italia e in alcune aree dell’Europa occidentale, come nel sud del Regno Unito, in Belgio e nei Paesi Bassi. L’ozono è aumentato annualmente dello 0,58% nell’Europa meridionale, mentre è diminuito o ha avuto un andamento non significativo nel resto del continente. Il complessivo miglioramento della qualità dell’aria non ha però risolto i problemi dei cittadini, che continuano a vivere per la maggior parte in zone dove si superano i limiti indicati dall’Oms per quanto riguarda il PM2.5 (98%), il PM10 (80%) e il biossido di azoto (86%). Questi risultati sono in linea con le stime dell’Agenzia europea dell’ambiente per 27 Paesi dell’Ue, basate sui dati provenienti dalle stazioni urbane. Inoltre, nessun Paese ha rispettato il limite annuale di ozono durante la stagione di picco tra il 2003 e il 2019.

Lo studio ha infine esaminato il numero di giorni in cui i limiti per due o più inquinanti sono stati superati simultaneamente. E’ così emerso che nonostante i miglioramenti complessivi, l’86% della popolazione europea ha sperimentato almeno un giorno all’anno con sforamenti per due o più inquinanti: le accoppiate più frequenti sono PM2.5 con biossido di azoto e PM2.5 con ozono. Secondo il primo autore dello studio, Zhao-Yue Chen, “sono necessari sforzi mirati per affrontare i livelli di PM2.5 e ozono e i giorni di inquinamento associati, soprattutto alla luce delle crescenti minacce derivanti dai cambiamenti climatici in Europa”.

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