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Ultimatum Ue a Johnson sulla Brexit, ‘carte in tavola’

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Meno di due settimane per mettere sul tavolo le carte di una qualche proposta di accordo sulla Brexit o non ci sara’ piu’ tempo per rinegoziare nulla. E non restera’ che scegliere fra la richiesta di un nuovo rinvio o davvero l’epilogo di un traumatico divorzio no deal il 31 ottobre. L’Unione europea e’ sazia di parole e indica a Boris Johnson una termine ultimativo (o quasi) per il momento della verita’: il 30 settembre. “Una scadenza artificiale”, nella reazione immediata di Downing Street, che il premier britannico formalmente respinge: ma che in realta’ lo induce a spedire finalmente a Bruxelles almeno le prime “bozze tecniche” di un pacchetto di “idee” per provare a sciogliere alcuni dei nodi irrisolti e a uscire dall’angolo dove rischia di ritrovarsi. A 40 giorni dall’ora X di fine ottobre, la partita della Brexit assume anche i contorni della guerra di nervi. A lanciare l’avvertimento piu’ secco e’ il premier finlandese Antti Rinne, presidente di turno dell’Unione, che a margine di un vertice con Emmanuel Macron a Parigi lo dice chiaro e tondo: Johnson a questo punto ha fino al 30 settembre, come del resto aveva gia’ indicato Angela Merkel al G7 di Biarrirz, o “e’ tutto finito”. La reazione dell’entourage del primo ministro britannico non si fa attendere. “Noi intendiamo presentare le nostre soluzioni scritte a mano a mano che saremo pronti, non secondo una scadenza artificiale, e solo quando ci sara’ chiaro che l’Ue vorra’ approfondirle costruttivamente”, risponde oggi un portavoce di Downing Street, non senza insistere sulla data del 17-18 ottobre, quella dell’ultimo Consiglio europeo utile, come vero termine conclusivo per un’intesa che nelle intenzioni di Londra dovra’ essere comunque ‘depurata’ dalla sgradita clausola vincolante del backstop sulla questione del confine aperto irlandese. Al di la’ della retorica baldanzosa la sensazione e’ tuttavia che Johnson – in attesa di sapere se e quando riuscira’ a portare il Paese alle elezioni – sia per ora sotto scacco. Il primo dossier inviato a Bruxelles rappresenta in sostanza anche un primo cedimento alle pressioni europee. Al suo interno ci sono bozze (“non-papers”) di “proposte tecniche confidenziali” da vagliare come eventuali strumenti alternativi al backstop, precisa lo staff di BoJo. Ma si tratta di proposte ancora grezze, parziali. Frutto della volonta’ tattica britannica di scoprire le carte “lentamente”, passo dopo passo, ipotizza il notista politico della Bbc Norman Smith. O piuttosto della scarsa chiarezza d’idee del premier brexiteer, mostrata secondo fonti diplomatiche europee anche nei recenti colloqui di Lussemburgo: con il successore di Theresa May apparso sorpreso nello ‘scoprire’ come alcune proposte avanzate in materia di allineamento alle norme fitosanitarie e doganali non basterebbero da sole a garantire l’assenza di barriere post Brexit per tutte le merci in transito fra le due Irlanda. A tendere la mano arriva peraltro in serata un’intervista a SkyNews del presidente uscente della Commissione, Jean-Claude Juncker, che alla prospettiva di un accordo rinnovato di divorzio prima del 31 ottobre, nel rispetto delle priorita’ di Johnson, dice di credere ancora. Avvertendo come l’alternativa del no deal minacci di essere “disastrosa” sia per il Regno Unito sia per i Paesi dell’Ue: cosa confermata d’altronde dagli ennesimi moniti della Bank of England e piu’ ancora dalle stime dell’Ocse sul pericolo di una recessione alle porte in caso hard Brexit, con un potenziale impatto immediato negativo fino al 3% per l’isola e una media dello 0,6% nel continente. Parole a cui lo stesso Johnson replica con cauto ottimismo, aggrappandosi alla sensazione che almeno Juncker non sia legato con tutta l’anima al backstop come a un mezzo insostituibile. “Non voglio esagerare i progressi che stiamo facendo, ma stiamo facendo progressi”, insiste a sua volta Boris. Soggetto intanto alla spada di Damocle del verdetto con cui la Corte Suprema del regno dovra’ decidere, al principio della prossima settimana, se considerare legale o meno la sua contestatissima sospensione del Parlamento fino al 14 ottobre. Verdetto che, se fosse negativo, potrebbe significare la fine – o l’inizio della fine – della sua premiership dopo neppure due mesi.

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Le 5 soldatesse da liberare per 250 detenuti

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Chi può dimenticare Naama Levy, soldatessa di 19 anni, tirata fuori dal bagagliaio di una jeep nera, con i pantaloni della tuta insanguinati tra le gambe, le mani ferite legate dietro la schiena, la faccia pesta che cola sangue, scalza, trascinata per i capelli e spinta sul retro del mezzo da tre terroristi che la espongono in una via di Gaza sparando in aria e urlando ‘Allahu Akbar’. Quelle immagini pubblicate sui social dai fondamentalisti di Gaza sono diventate il raccapricciante simbolo della violenza sessuale contro le donne israeliane durante l’attacco del 7 ottobre 2023. Rapita da Hamas nella base militare di Nahal Oz, Naama potrebbe fare ritorno a casa tra poche ore: per riaverla indietro Israele è disposto a liberare 50 detenuti palestinesi detenuti nelle carceri del Paese, compresi 30 ergastolani condannati per reati gravissimi. Cinquanta per ognuna delle cinque soldatesse, osservatrici senza armi, ancora prigioniere a Gaza dopo 466 giorni da quel sabato di sangue.

Liri Albag, Karina Ariev, Agam Berger e Daniella Gilboa sono le altre quattro per le quali Israele pagherà un prezzo altissimo. Nel luglio del 2024 Hamas ha diffuso un’immagine delle quattro ragazze, che hanno compiuto 20 anni in cattività, sedute su materassi per terra, e alle spalle la foto incorniciata del leader politico di Hamas Ismail Haniyeh, ucciso a Teheran da un’esplosione l’estate scorsa. Le cinque soldatesse sono ritenute in Israele la prova vivente della fallimentare gestione della sicurezza israeliana: a loro era assegnato il ruolo cruciale di monitorare il confine con Gaza, nel settore più caldo e pericoloso. Prima dell’assalto avevano segnalato ai loro comandanti osservazioni allarmanti sui movimenti dall’altra parte del confine. Se le informazioni che avevano trasmesso fossero state prese sul serio, i preparativi del massacro sarebbero stati identificati prima del 7 ottobre. Ma i loro avvertimenti furono ignorati e trattati con superficialità dai vertici militari.

Sulla base di Nahal Oz sono piombate le brigate al Qassam di Hamas e Saraya al Quds della Jihad islamica palestinese, il gruppo più estremo dei terroristi di Gaza. Più di 60 soldati, tra cui 15 soldatesse, sono stati uccisi e sei sono stati dichiarati dispersi o rapiti. Hamas, qualche tempo dopo l’invasione, ha diffuso il tragico video delle prime ore dal rapimento delle ragazze. Naama con il viso devastato dai colpi, la bocca di Agam piena di sangue, tutte legate, a terra, circondate da decine di terroristi armati di fucili d’assalto che urlano tutti insieme, ‘vi schiacciamo sioniste, cagne’, poi pregano, poi mangiano. L’ultimo video rilasciato da Hamas nelle settimane scorse fa vedere Liri, in giacca mimetica, sottomessa, piegata, spenta.

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Kiev sferra ‘i maggiori raid di sempre’ in Russia

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L’Ucraina ha rivendicato di aver effettuato “il più massiccio attacco contro le strutture militari” russe dall’inizio della guerra, colpendo il territorio nemico fino a una profondità di oltre mille chilometri con i droni. Ma i raid hanno preso di mira anche la regione frontaliera di Bryansk, dove sono stati impiegati missili americani e britannici, secondo quanto ha reso noto Mosca, minacciando una “risposta”. Nel frattempo, i comandi militari russi hanno detto di avere preso il controllo di altri due villaggi nella loro avanzata nell’est ucraino: quelli di Terny e Neskuchnoye, nella regione di Donetsk.

La stessa dove è situata Pokrovsk, la città alla quale si avvicinano i soldati di Mosca e dove è stata annunciata la chiusura e l’evacuazione del personale della locale miniera utilizzata per la produzione del coke, un carbone impiegato nella filiera dell’industria siderurgica, colonna portante dell’economia nel Donbass. I contendenti sembrano dunque impegnati nello sprint finale prima dell’insediamento alla Casa Bianca tra meno di una settimana di Donald Trump, che dovrebbe scoprire le carte sulla sua iniziativa di pace. La cautela mostrata oggi da Serghei Lavrov nella sua tradizionale conferenza stampa di inizio anno è emblematica del clima di attesa che si respira a Mosca.

In oltre due ore di domande e risposte, il ministro degli Esteri russo ha accuratamente evitato di sbilanciarsi in previsioni. Mosca, ha detto Lavrov, giudica positivamente alcuni cambi di tono nelle dichiarazioni di futuri membri dell’amministrazione Usa, come “il semplice fatto che si cominci a parlare di più delle realtà sul terreno” per la ricerca di una soluzione al conflitto. Ma attende da Trump “iniziative concrete”. Lavrov ha aggiunto che la Russia è pronta a discutere di “garanzie di sicurezza per il Paese che ora si chiama Ucraina”, ma ciò dovrà avvenire in un più vasto “contesto euroasiatico” per la sicurezza collettiva.

“Il punto non è l’Ucraina – ha affermato Lavrov -, il punto è che l’Ucraina viene utilizzata per indebolire la Russia”. E la Russia continua a sentirsi vulnerabile per gli attacchi sul suo territorio anche mentre le sue truppe avanzano su quello ucraino. In una nota, lo Stato maggiore di Kiev ha affermato di aver bombardato con i droni obiettivi militari “ad una distanza compresa tra 200 e 1.100 chilometri nel profondo della Federazione Russa”, nelle regioni di Bryansk, Saratov, Tula e della Repubblica del Tatarstan, la più lontana. Tra gli obiettivi, secondo la stessa fonte, “una base di stoccaggio del petrolio a Engels, nella regione di Saratov”, utilizzata per rifornire i bombardieri strategici. Un impianto già colpito la settimana scorsa in un attacco che ha provocato un incendio durato diversi giorni.

Secondo i media e il governo regionale, nella regione del Tatarstan, sul Volga, ricca di energia, un drone ha colpito un serbatoio di stoccaggio di gas liquefatto, facendo divampare fiamme e fumo denso nel cielo vicino alla città di Kazan. Gli attacchi ucraini hanno costretto la Russia ad imporre restrizioni temporanee ai voli civili in ben sette aeroporti. Nella regione frontaliera di Bryansk gli ucraini hanno detto di aver colpito uno stabilimento chimico a Seltso, dove “vengono prodotte munizioni per artiglieria, sistemi di lancio di razzi, munizioni per l’aviazione, ingegneria e componenti per missili da crociera Kh-59”. Il ministero della Difesa di Mosca ha affermato che nell’attacco le forze di Kiev hanno utilizzato sei missili americani Atacms lanciati da terra e sei Storm Shadow britannici lanciati da aerei, oltre a 31 droni. “Le azioni del regime di Kiev, sostenute dai suoi curatori occidentali, non rimarranno senza risposta”, ha avvertito il dicastero russo.

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Napoletano catturato dai soldati ucraini: costretto a battermi per Russia

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In video sostiene di essere stato costretto a combattere per la Russia, Gianni Cenni, il pizzaiolo napoletano di 51 anni catturato dalle forze speciali ucraine a Kharkiv, in Donbas. A renderlo noto è Repubblica. Nelle immagini che stanno circolando sui social e di cui scrive il quotidiano, Cenni sostiene di essere stato “mobilitato illegalmente in Russia per combattere in Ucraina” e di volere tornare in Italia. Il 51enne alcuni anni fa si è trasferito in Russia: a Samara, viene riportato, aveva lavorato come pizzaiolo anche in un locale del console onorario della città che si affaccia sulle sponde del Volga. In Italia è stato però condannato due volte: la prima per omicidio, reato per il quale ha scontato la pena. Questa vicenda risale al 1999: Cenni lavorava come guardia giurata a Milano. La seconda condanna invece è di molestie sessuali ai danni di una bimba di 7 anni, figlia di parenti della sua compagna dell’epoca. Le violenze sarebbero state commesse tra il 2010 e il 2012. Questa condanna, invece, non l’ha scontata in quanto, nel frattempo, Cenni si era allontanato dall’Italia.

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