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Ue, Conte ottiene il primo sì al Recovery fund ma ora è battaglia sugli aiuti

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Mes, Sure e Bei operativi da giugno e ok al principio del Recovery Fund ‘urgente’, come aveva chiesto l’Italia, anche se con tutti i dettagli ancora da definire a cui lavorera’ la Commissione nelle prossime settimane. Il vertice europeo dedicato alla crisi economica piu’ profonda dal dopoguerra cerca di ritrovare almeno un’unita’ d’intenti che consenta di proseguire lo sforzo per definire una risposta all’altezza della situazione. Ci riesce, almeno in parte, accogliendo l’idea di creare uno strumento nuovo come il fondo per la ripresa. “Uno strumento del genere era impensabile fino adesso e rendera’ la risposta europea piu’ solida e coordinata”, ha esultato il premier Giuseppe Conte. Ma ora parte la battaglia su come funzionera’, cioe’ se concedera’ prestiti o sovvenzioni a fondo perduto. E gli schieramenti restano i soliti: i frugali del Nord contro il Sud che chiede aiuti da non restituire per chi e’ stato piu’ colpito. Il quadro economico e’ drammatico, e la presidente della Bce Christine Lagarde parte in pressing sui leader: il Pil dell’Eurozona rischia una contrazione del 15% e finora e’ stato fatto troppo poco e troppo in ritardo per contrastare i danni economici. Cio’ che occorre adesso sono misure per la ripresa rapide, risolute e flessibili, avverte la Lagarde, perche’ non tutti i Paesi, colti dalla crisi, potrebbero essere in grado di agire nel modo necessario. Dopo il vertice europeo l’accordo su come affrontare la fase della ripresa ancora non c’e’, ma una base di lavoro si’. La mette sul tavolo la presidente della Commissione Ursula von der Leyen, che ha cercato di fare una sintesi delle proposte avanzate dalle diverse capitali. Il punto di partenza e’ che per rilanciare l’economia europea bisogna servirsi degli strumenti che gia’ abbiamo, come il bilancio pluriennale, e poi creare qualcosa di nuovo, che aggiunga risorse in un momento di estrema necessita’ per le casse di tutti, soprattutto di quelli piu’ colpiti dallo shock sanitario ed economico. La presidente vuole arrivare a mobilitare 2.000 miliardi di euro, cioe’ il doppio dell’attuale bilancio a 28. E propone quindi di aggiungere al prossimo bilancio Ue 2021-2027 un fondo temporaneo e mirato per la ripresa (Recovery fund) dotato di 320 miliardi di euro, raccolti grazie all’emissione di obbligazioni comuni. La meta’ sarebbero distribuiti sotto forma di prestiti ai Paesi, l’altra meta’ andrebbe a programmi ‘ad hoc’, nel quadro del bilancio pluriennale Ue, per i Paesi piu’ colpiti dall’emergenza. Se nessuno e’ contrario in via di principio a creare il Recovery fund, non tutti sono d’accordo con il tipo di sostegno che deve dare. L’Italia vuole sovvenzioni, non prestiti, e una potenza di fuoco molto piu’ ampia. “L’ammontare del Recovery Fund dovrebbe essere pari a 1.500 miliardi e dovrebbe garantire trasferimenti a fondo perduto ai Paesi membri, essenziali per preservare i mercati nazionali, parita’ di condizioni, e per assicurare una risposta simmetrica a uno shock simmetrico”, ha detto Conte ai colleghi durante la videoconferenza. Sulla stessa linea sono Francia, Spagna, Portogallo e Grecia. “Servono trasferimenti di risorse verso i Paesi Ue piu’ colpiti da questa crisi, non dei prestiti”, gli ha dato manforte il presidente francese Emmanuel Macron. La von der Leyen, che entro il 6 maggio dovra’ presentare la nuova proposta di bilancio Ue e Recovery fund, assicura che ci sara’ “un giusto equilibrio tra sovvenzioni e prestiti”. Sull’altro fronte, invece, i Paesi ‘frugali’ (su tutti Olanda, Svezia, Danimarca, Finlandia e Austria) che si oppongono ad aumenti del budget comune e a forme di trasferimenti a fondo perduto. Difendendo il principio secondo cui la Commissione Ue non puo’ indebitarsi. “Per gli aiuti a fondo perduto lo strumento giusto e’ il bilancio pluriennale dell’Ue, mentre guardo al Recovery fund come ad un sistema basato sui prestiti. Comunque siamo in una fase iniziale della discussione”, ha sintetizzato il premier olandese Mark Rutte. La Germania non si schiera apertamente nella battaglia ma la cancelliera Merkel ammette che “non su tutto siamo della stessa opinione”, anzi che c’e’ un vero e proprio “disaccordo” su come finanziare il fondo, assicurando pero’ che Berlino e’ disponibile a versare di piu’ al bilancio europeo.

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Politica

Appalti, Anac: rischi voto di scambio o favori… ai cugini

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Appalti, il giorno dopo. All’indomani del via libera del Consiglio dei ministri al nuovo codice, che regolerà in futuro la concessione di lavori pubblici, si accende il dibattito sulle luci e sulle ombre del provvedimento e in molti casi non si risparmiano le polemiche. Dei 229 articoli che da ora in poi regoleranno tutte le procedure per assegnare e gestire un appalto, da più parti è stato accolto con favore il ricorso alla digitalizzazione e alla semplificazione. Ma come rovescio della medaglia della volontà di rendere le procedure più semplici oltre che più rapide e meno burocratizzate, c’è chi solleva dubbi e timori sulle possibili ripercussioni negative. Prima fra tutti l’Anac, che paventa il rischio di voti di favore o appalti assegnati a familiari e amici. Il ministro delle infrastrutture Matteo Salvini però rassicura garantendo che “con i tempi più veloci avremo meno corruzione”. L’Autorità che previene la corruzione in tutti gli ambiti amministrativi ritiene positivo che nel nuovo Codice degli appalti si punti sulla digitalizzazione, “che obbliga a trasparenza e partecipazione”. Ma non manca di puntare il dito su quella che ritiene la principale ‘ombra’, ovvero il fatto che sotto i 150.000 euro “si dà mano libera, si dice di non consultare il mercato e di scegliere l’impresa che si vuole”.

Il timore dell’Anac è che così “si prenderà l’impresa più vicina, quella che si conosce, non quella che si comporta meglio”. Insomma, secondo il presidente dell’autorità Giuseppe Busia “sotto i 150.000 euro va benissimo il cugino o anche chi mi ha votato e questo è un problema, soprattutto nei piccoli centri”. Secondo l’Anac, quindi, ben venga il fare in fretta, purché questo non significhi perdere di vista il fare bene. E non è nemmeno del tutto un bene sburocratizzare troppo laddove la burocrazia fa invece bene il suo lavoro, ovvero “fa controlli per far bene, per rispettare i diritti e perché i soldi vanno spesi bene”. Mentre la Cigil annuncia che l’1 aprile andrà in piazza con la Uil per protestare contro la nuova raccolta di norme e chiedere modifiche al governo, Salvini ne difende invece il valore, spiegando che “sarà uno strumento di lavoro fondamentale per l’Italia nei prossimi anni”. In vigore dal primo luglio, come anticipato dallo stesso ministro, il nuovo codice premetterà di “risparmiare almeno un anno nella fase dell’istruttoria della pratica”. E, secondo lo stesso Salvini, “chi lamenta che sia un favore a corrotti e corruttori sbaglia perché più veloce è l’iter della pratica meno è facile per il corrotto incontrare il corruttore”.

Tra le tante e più disparate reazioni alla nuova rivoluzione nel mondo degli appalti ha detto immancabilmente la sua anche l’Ance, l’associazione dei Comuni che saranno i soggetti interessati in prima linea nella gestione delle gare pubbliche. L’Ance plaude ai grandi passi avanti fatti in un tempo a disposizione assai limitato (vista la scadenza improrogabile del 31 marzo) e registra con favore le modifiche su illecito professionale e la revisione dei prezzi “anche se va ancora affinato il meccanismo di revisione per renderlo veramente automatico ed efficace”. “Restano però – osserva la presidente dell’Ance, Federica Brancaccio – perplessità sulla concorrenza, in particolare nei settori speciali che di fatto potrebbero sottrarre al mercato il 36% del volume dei lavori pubblici”. Tra i sindacati, particolarmente critica appare anche la Uil, con il segretario generale Paolo Bombardieri che avverte che “il codice degli appalti ci fa tornare indietro di 40 anni. Ci saranno, così, gare al massimo ribasso e si rischia di indebolire tutto ciò che si è provato a costruire per la sicurezza sul lavoro e per l’applicazione dei contratti, soprattutto nell’edilizia”. Di parere diverso invece la Filca-Cisl che definisce il codice appalti un passo in avanti importante per il settore, ma ritiene utili correttivi e affinamenti.

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Da cure occhi a cuore, attese aumentano nelle regioni

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Dai ricoveri alle visite mediche, nel 2021 diverse regioni hanno visto peggiorare i tempi di attesa rispetto al 2020. Per gli interventi chirurgici per tumore al seno, il Lazio è passato dal 53% al 35% di prestazioni eseguite secondo i tempi previsti. Mentre per l’elettrocardiogramma la Sardegna è passata da 15 giorni di attesa a 52 giorni. Soprattutto, però, i dati disponibili sono “incompleti, disomogenei e non comparabili” e “urge un ripensamento del sistema di raccolta”. A denunciare il “fallimento del Piano per la Gestione delle liste d’Attesa” è il report Healthcare Insights – Osservatorio sull’Accesso alle Cure, presentato dalla Fondazione The Bridge. Mentre, all’indomani del pacchetto sanità approvato dal Consiglio dei Ministri, a minacciare una ripresa della mobilitazione sono le organizzazioni sindacali della dirigenza medica: “non si salva così la sanità pubblica”, spiegano. L’obiettivo del Piano Nazionale di Governo delle Liste di Attesa è “lungi dall’essere raggiunto e siamo lontanissimi dall’informare i cittadini”, spiega il report.

All’interno del Piano è previsto, infatti, un elenco di 69 prestazioni sanitarie ambulatoriali e 17 in ricovero di cui monitorare i tempi di erogazione, ma le uniche a fornire informazioni su tutte sono state Abruzzo, Puglia e Marche. Dal frammentato quadro emerge che per una prima visita ginecologica il Molise e la Basilicata si distinguono in negativo, con il 58% di prestazioni eseguite per tempo e una media di 42 giorni di attesa. Allo stesso modo, per una visita oculistica, l’Umbria passa da 15 giorni medi di attesa nel 2020 a 33 nel 2021, la Sardegna da 23 a 56 giorni. “Nel 2021 – sottolinea Luisa Brogonzoli, coordinatrice Centro Studi The Bridge – abbiamo visto un acuirsi progressivo di difficoltà organizzative iniziate nel 2020 con l’esplosione della pandemia e dovute alle tantissime ospedalizzazioni per Covid che hanno messo sotto stress gli ospedali”. A colpire però, prosegue, è anche “l’assoluta disomogeneità dei dati forniti dalle singole Regioni, conseguenza di una normativa nazionale, che lascia a ciascuna la libertà di stabilire le modalità attraverso cui i dati sono resi accessibili”. Di fatto “il Piano Liste di Attesa, ormai è inadeguato. Urge un ripensamento”. Proprio per realizzare una nuova modalità di analisi dei dati, più rispondenti alla realtà, Fondazione The Bridge e l’Agenzia nazionale dei servizi sanitari regionali (Agenas) hanno dato il via a un gruppo di lavoro. Intanto, nonostante lo stanziamento di circa 1 miliardo di euro dal 2020 ad oggi per il recupero delle liste di attesa, la capacità della sanità pubblica di garantire l’accesso alle cure “è ancora inferiore al pre pandemia e con inaccettabili differenze tra le Regioni. Nel primo semestre 2022”, secondo Salutequità, “sono saltate una prima visita specialistica su 5 in Italia rispetto allo stesso periodo del 2019, con punte di oltre una prima visita su due nella PA di Bolzano (-55,2%), una su 3 in Valle d’Aosta, Sardegna, Calabria e Molise”.

L’allarme non è nuovo e ha diverse cause: l’effetto del boom di ricoveri legati al Sars-cov-2, la carenza di medici dovuta a decenni di tagli alla sanità e la cattiva programmazione rispetto al fabbisogno di specialisti da formare. Il risultato, come emerge dai dati Istat, è che la quota di persone che hanno dovuto rinunciare a prestazioni è passata dal 6,3% nel 2019 al 9,6% nel 2020, fino all’11,1% nel 2021 e chi invece può, si rivolge al privato. A fronte di quella che la Fondazione Gimbe ha definito “una Sanità in Codice Rosso”, le novità previste nel Decreto Bollette sono bocciate dall’Intersindacale medica, che annuncia la ripresa della mobilitazione in vista di una manifestazione pubblica a giugno e annuncia anche scioperi. “E’ un decreto monco – spiegano i sindacati – che, per quanto contenga risposte, come la procedibilità d’ufficio per chi aggredisce gli operatori sanitari, fallisce l’obiettivo di sollevare un Servizio Sanitario Nazionale in ginocchio e arrestare la fuga di medici”.

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Fitto in Ue, trattativa su filo su Pnrr-flessibilità

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Un mese per trattare sulla terza rata da 19 miliardi, qualcuno in più per negoziare la flessibilità sui fondi: la partita sul Pnrr tra Italia e Ue si avvicina al bivio. E’ una partita che, per Roma, è certamente in salita e, forse, non è neanche agevolata dai diversi fronti aperti tra governo e Bruxelles, dal Green Deal o dal Mes. “Non c’è preoccupazione, c’è consapevolezza, e stiamo lavorando in maniera propositiva con la Commissione”, è l’invito alla calma arrivato da Bruxelles dal ministro per gli Affari Ue, la Coesione e il Pnrr, Raffaele Fitto. L’ex eurodeputato è tornato nella capitale belga per aggiornare il negoziato con l’esecutivo Ue con un duplice obiettivo: incassare il via libera alla terza tranche e arrivare ad uno spazio di manovra che consenta di spostare dal Pnrr alla programmazione di Coesione quei progetti che, entro il 2026, sono irrealizzabili. A Bruxelles Fitto ha visto tre commissari, Margaritis Schinas, Nicolas Schmit e Stella Kyriakides. Ha avuto incontri tecnici e ha incontrato la delegazione di Fdi all’Eurocamera. Il messaggio, più o meno, è stato lo stesso: il governo è impegnato a difendere l’intera gamma di progetti per l’ok dell’Ue alla terza rata e, al tempo stesso, ha posto un problema: nel Pnrr italiano ci sono target che, entro il 2026, “è impossibile realizzare”. Sul primo punto ad essere in bilico sono soprattutto due progetti, quello per il nuovo stadio a Firenze (sul quale ci sarebbero dubbi legati all’ammissibilità del piano nelle regole di concorrenza europee) e quello del ‘Bosco dello sport’ a Venezia.

Il ‘no’ della Commissione è tutt’altro che da escludere anche perché l’esecutivo non può permettersi di perdere i miliardi che sarebbero già dovuti arrivare a inizio marzo. Certo, nel governo non nascondono un dato: si tratta di progetti che sono parte del Pnrr targato Mario Draghi, sui quali Bruxelles aveva dato via libera. In serata il commissario agli Affari Economici Paolo Gentiloni è tornato a sottolineare come l’Ue “lavora assieme all’Italia e non ha alcuna voglia di riproporre a Bruxelles divisioni interne” alla politica italiana. Ma forse, all’interno dell’Ue e su spinta dei ‘frugali’, qualcosa nell’atteggiamento dell’Europa verso l’Italia è cambiato. Di certo, ha assicurato Fitto, da parte dell’esecutivo non c’è volontà di fare polemica. “D’intesa con i sindaci e con i ministeri dell’Interno e dell’Economia il governo predisporrà delle risposte di chiarimento” all’Ue sui progetti sotto esame, auspicando che si trovi una soluzione”, ha spiegato. Sull’altro fronte, quello della modifica del Pnrr, Roma presenterà invece “una relazione completa che andrà a fotografare lo stato attuale anche con delle proposte di cambiamento che andranno affrontate d’intesa con l’Ue”.

Un cambiamento che terrà conto del capitolo aggiuntivo del RepowerEu ma anche del fatto che, per il piano strategico energetico dell’Ue, le risorse a fondo perduto per l’Italia proverranno solo dal sistema Ets. E, al momento, Roma non ha diritto ad alcun prestito ulteriore. La flessibilità nell’uso dei fondi, laddove Paesi come la Germania possono contare sul nuovo allentamento sugli aiuti di Stato, diviene così una “logica convergenza”. “Potremmo immaginare un coordinamento unico per il Pnrr che scade a giugno del 2026, i fondi di Coesione che vanno spesi entro il 2029 e il Fondo di sviluppo e Coesione, che è nazionale e non ha scadenza”, ha spiegato Fitto. Bruxelles, su questo punto, ha già mostrato aperture. Ma il lavoro su quali siano i progetti da ‘trasferire’ alla Coesione è complesso e potrebbe incrociare l’ira di diversi amministratori locali. Ma per il governo la strada è questa: porre il problema ora è stato un gesto di responsabilità perché evita che sarebbe scoppiato fra qualche mese o un anno, è la linea di Fitto. Che l’Ue dilazioni la scadenza del Pnrr a dopo il 2026, anche a Roma, ormai è escluso. Mentre cresce la consapevolezza che la maggiore trappola legata al Recovery Fund si nascondeva proprio nella sua deadline.

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