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Ue cerca intesa su munizioni, nodo ‘made in Europe’

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L’accordo sulle munizioni, salvo colpi di scena, alla fine ci sarà. Ma arrivarci, per l’Ue, non sarà facile neppure questa volta. Lunedì i ministri degli Esteri dei 27 sono chiamati ad approvare il testo che delinea il rifornimento di proiettili per l’esercito ucraino. Kiev è a corto di munizioni e da settimane chiede aiuto ai suoi alleati. Bruxelles non si è tirata indietro ma, sulla tempistica, la sua macchina continua a mostrare qualche falla. E si è resa necessaria una nuova convocazione dei Rappresentanti Permanenti dei 27, prevista domenica pomeriggio, per trovare un compromesso e facilitare l’intesa senza ulteriori ritardi. Il piano proposto dall’Alto Rappresentante Ue per la Politica Estera, Josep Borrell, fa perno sull’European Peace Facility e si articola in tre parti. Nel breve termine i 27 sono chiamati a svuotare i propri stock per inviare proiettili da 155 mm a Kiev.

Entro maggio la seconda parte del piano prevede l’entrata in vigore di una piattaforma di acquisti congiunti, sul modello per il gas. L’Ue, sfruttando la forza della domanda aggregata, acquisterà nuove munizioni dirottandole, in massima parte, ancora all’Ucraina. Per queste prime due azioni l’Ue, attraverso il Peace Facility, ha già messo a disposizione due miliardi: il primo servirà a rimborsare gli Stati membri che inviano le proprie munizioni, il secondo a dare linfa agli acquisti congiunti. Questi ultimi possono essere coordinati attraverso l’agenzia europea della difesa (Eda) o muovendosi per gruppi, con uno Stato capofila e titolare degli ordini e fino a un massimo di altre tre Paesi aggregati. Il terzo atto del piano prevede invece il rafforzamento dell’industria europea della difesa e l’incremento della produzione di armi, in linea con quanto chiesto anche dalla Nato.

Nessuna capitale, finora, si è opposta in maniera netta. Ma Germania e soprattutto Francia vogliono che l’accordo sulle munizioni sia anche l’occasione per rafforzare quella sovranità europea in campo militare che da sempre è un pallino di Emmanuel Macron. Parigi, quindi, spinge affinché gli acquisti congiunti siano indirizzati all’interno della stessa Europa. Non è facile e serve tempo, anche perché, come osserva un alto funzionario europeo, la verità è che l’Europa al momento è a corto di munizioni. Più probabilmente l’Ue dovrà rivolgersi anche a Paesi terzi. La Norvegia, che è comunque nello Spazio economico europeo, è stata già chiamata in causa. Dalla riunione degli ambasciatori in Ue potrebbe tuttavia emergere un compromesso per dare una corsia preferenziale ai proiettili ‘made in Europe’. La terza parte, sul potenziamento dell’industria della difesa, va ancora approfondita, soprattutto sul piano dei finanziamenti e in vista delle revisione del bilancio comunitario prevista quest’estate. Borrell ha già annunciato l’intenzione di rimpolpare l’Europea Peace Facility di 3,5 miliardi.

Capacità e obiettivi del fondo sono stati travolti dalla guerra in Ucraina. Bruxelles è stata costretta a riorganizzare la sua industria della difesa evitando troppe fughe in avanti da parte dei singoli. Lunedì, nel giorno in cui il presidente cinese Xi Jinping approderà a Mosca, mancare l’accordo sulle munizioni avrebbe del clamoroso. Il ministro degli Esteri Dmytro Kuleba sarà in videocollegamento e ribadirà le necessità di Kiev di fronte ad una Russia che, secondo le stime Ue, spara da 20 a 50mila colpi di artiglieria al giorno contro gli ucraino.

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Zelensky, ‘navi russe sanno cosa le aspetta nelle acque ucraine’

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Le navi russe sanno già cosa le aspetta nelle acque ucraine. Lo ha detto presidente ucraino Volodymyr Zelensky nel suo discorso ai diplomati dell’Accademia marittima di Odessa, citato da Ukrinform. Il presidente ha ringraziato gli ufficiali della Marina ucraina per aver protetto lo Stato nel settore della difesa marittima e ha aggiunto che l’Ucraina ha bisogno di una vittoria sul nemico in mare, a terra e in cielo. “Le navi russe hanno già memorizzato l’unica prospettiva per loro nelle acque ucraine. L’ammiraglia russa del Mar Nero ha già dimostrato ciò che qualsiasi nave che minaccia l’Ucraina dovrebbe affrontare, ed è solo una questione di tempo prima che ripeta il destino della nave Moskva”, ha detto Zelensky riferendosi all’incrociatore russo affondato dalle forze ucraine lo scorso aprile. In conclusione, ha aggiunto in presidente ucraino, “le nostre forze di difesa e di sicurezza hanno dimostrato fermamente che l’Isola dei Serpenti ucraina non tollererebbe una bandiera nemica”.

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L’Onu accusa Mosca e Kiev di ‘esecuzioni sommarie’

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L’ombra dei crimini di guerra si allunga ancora una volta in Ucraina. Dopo il mandato di arresto contro il presidente Vladimir Putin per le deportazioni di bambini in Russia, questa volta è l’Onu a muovere accuse a entrambe le parti per decine di esecuzioni sommarie. “Siamo profondamente preoccupati per l’esecuzione sommaria di 25 prigionieri di guerra russi e di persone fuori combattimento” e per quella di “15 prigionieri di guerra ucraini”, ha affermato Matilda Bogner, capo della missione di monitoraggio dei diritti umani delle Nazioni Unite. Da Kiev, la replica è affidata al difensore civico Dmytro Lubinets, che respinge gli addebiti e chiede di “conoscere i fatti e gli argomenti indiscutibili su cui si basano le conclusioni della missione”. Ma le accuse dell’Onu raccontano l’atrocità di un’invasione che non vede ancora tregua, anzi: se la Cina dovesse decidere di armare Mosca “prolungherebbe il conflitto e certamente amplierebbe la guerra potenzialmente non solo nella regione ma a livello globale”, è stato il monito lanciato a Pechino dal capo del Pentagono Lloyd Austin.

Mosca da parte sua non pensa ad alcun ritiro, e minaccia anzi di spingersi fino a Kiev e Leopoli, se necessario: parola del falco Dmitri Medvedev. Secondo Bogner, l’Onu è a conoscenza di cinque indagini condotte da Kiev che coinvolgono 22 vittime di esecuzioni sommarie, ma “non siamo a conoscenza di alcun procedimento contro gli autori” di questi crimini. Per quanto riguarda le esecuzioni di 15 prigionieri di guerra ucraini “poco dopo la loro cattura” da parte delle forze armate russe, 11 di loro sono state perpetrate dal gruppo paramilitare russo Wagner, ha aggiunto la funzionaria. Dall’inizio dell’invasione, la missione Onu in Ucraina ha poi documentato 621 casi di sparizione forzata e detenzione illegale di civili da parte delle forze armate russe, mentre sono 91 gli episodi analoghi commessi dagli ucraini.

La denuncia delle Nazioni Unite mostra il volto di una guerra che non conosce regole, mentre crescono le tensioni internazionali tra un Occidente che rafforza il suo sostegno a Kiev e il Cremlino che minaccia ritorsioni. Come nel caso della fornitura di armi all’uranio impoverito annunciata da Londra: significherebbe “aprire il vaso di Pandora”, è stato il commento di Medvedev, tornato a ribadire le intenzioni di Mosca di difendere la Crimea occupata con “qualsiasi arma”. Ma nonostante le tensioni, secondo l’ex presidente la Russia non cerca un confronto diretto con la Nato, e vuole risolvere la guerra “pacificamente attraverso i negoziati”, che restano però lontani. L’attenzione è ancora puntata sul piano di pace della Cina, che intanto accusa gli Usa di “gettare benzina sul fuoco” e “ostacolare” gli sforzi per i colloqui. Ma l’interesse occidentale, o almeno europeo, per la proposta c’è: lo confermano gli annunci delle prossime visite a Pechino dell’alto rappresentante della politica estera Ue Josep Borrell, della presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen e del presidente francese Emmanuel Macron. E prima ancora a incontrare Xi Jinping in Cina sarà il premier spagnolo Pedro Sanchez, la prossima settimana.

Se da una parte la proposta cinese sembra essere ormai la base per lavorare a una soluzione mediata del conflitto, Kiev ha più volte ribadito che diversi punti del piano sono lontani dalla pace immaginata dagli ucraini, mentre cresce l’attesa per una telefonata tra Zelensky e Xi. Secondo il consigliere presidenziale Mikhailo Podolyak, la chiamata è prevista, ma ci sono alcune “difficoltà” nell’organizzarla. Pechino invece ha chiarito che al momento “non ha nulla da condividere” al riguardo. Intanto continua a cadere la pioggia di bombe su tutta l’Ucraina, mentre cresce l’allarme di Kiev per la centrale di Zaporizhzhia: “A seguito del calo dell’acqua dal bacino idrico di Kakhovka, esiste il rischio di un guasto dei sistemi di raffreddamento” e “questo potrebbe significare un possibile scenario Fukushima nel mezzo del continente europeo”, secondo il ministro della Protezione ambientale e Risorse naturali dell’Ucraina, Ruslan Strilets.

Il sangue continua a scorrere nel Paese, dove nell’ultima giornata almeno 10 civili sono stati uccisi e 20 feriti a causa dei bombardamenti russi in diverse aree, tra cui 5 morti per un attacco ad un rifugio per civili a Kostiantynivka, nel Donetsk. Nella notte, le forze russe hanno colpito con droni l’area di Kryvyi Rih, città natale di Zelensky. E prosegue l’assedio russo per conquistare la città simbolo di Bakhmut, dove circa 10.000 civili, molti dei quali anziani e con disabilità, vivono ancora dentro e intorno all’insediamento in “condizioni disastrose”, secondo il Comitato internazionale della Croce Rossa.

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Siria, guerra Usa-Iran attorno ai pozzi di petrolio

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A sole quattro ore di volo dall’Italia e a due passi dalle coste mediterranee, è andato in scena un altro round della guerra aperta, ormai in corso da anni, tra Iran e Stati Uniti nella Siria nord-orientale, ricca di petrolio e al centro degli interessi anche della Russia e della Turchia. Un contractor americano è stato ucciso e altri cinque militari Usa sono stati feriti in un attacco compiuto contro una base americana da un drone iraniano nella regione di Hasake, a soli 12 chilometri dal confine con l’Iraq. Il Pentagono ha subito puntato il dito contro i Pasdaran, le forze d’elite della Repubblica islamica presenti in varie aree del Medio Oriente dall’Iran al Libano passando per Siria e Iraq. Poco dopo l’attacco aereo di Hasake, jet statunitensi si sono levati in volo e hanno bombardato tre diverse postazioni di jihadisti sciiti filo-iraniani nell’est della Siria, colpendo depositi di armi e rifugi nei distretti di Mayadin, Bukamal e Dayr az-Zor. Secondo fonti locali in Siria, l’Iran dispone nel paese mediterraneo di circa 70mila tra miliziani libanesi, afgani e iracheni. A seguito di questi attacchi, nei quali sono stati uccisi almeno 11 miliziani filo-iraniani, di cui 7 di nazionalità siriana, i jihadisti sciiti vicini a Teheran hanno sparato colpi di mortaio sulle installazioni petrolifere di al Omar, a est del fiume Eufrate, in un’area controllata da forze curdo-siriane e dove sorge l’altra principale base militare Usa in Medio Oriente.

Centinaia di militari americani sono presenti in Siria dal 2014 con l’obiettivo dichiarato di “sconfiggere il terrorismo dell’Isis” e sono per questo a capo della Coalizione globale anti-Isis. Sul terreno, Washington sostiene le forze curdo-siriane, emanazione del Partito dei lavoratori curdi (Pkk) in lotta con il governo turco del presidente Recep Tayyip Erdogan. Nella stessa area nord-orientale siriana, poco lontano dove i Pasdaran hanno ucciso nella notte un contractor Usa, sono presenti anche militari turchi e soldati russi. Solo ieri mezzi blindati di Mosca e di Ankara hanno condotto il periodico pattugliamento congiunto della frontiera siro-turca in pieno territorio siriano, in una regione ricca di giacimenti di petrolio. Nella Siria in guerra da 12 anni e alle prese con la peggiore crisi economica della sua storia, la spartizione del territorio orientale contiguo all’Iraq occidentale, dove sono presenti altri militari Usa, non avviene solo tramite eserciti e milizie straniere.

Ma avviene anche tramite la cooptazione, da parte di potenze straniere, di attori locali: si tratta, per lo più, di giovani adulti costretti da anni a scegliere la via della migrazione clandestina o l’arruolamento, per sostentamento, in gruppi armati al soldo di quello o quell’altro paese. Mentre si intensifica la guerra guerreggiata tra Stati Uniti e Iran, si fa così sempre più netta, sul terreno, la contrapposizione sociale tra i siriani che lavorano al servizio degli americani e degli ascari curdi, e i siriani che rispondono invece agli ordini degli iraniani, dei russi e delle forze governative di Damasco.

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